19°/La calunnia – Silenzi di Stato
“Insomma – dice Aldo Giannuli, nel suo libro Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro – se mancano elementi diretti a sostegno di una conoscenza del Noto servizio ci sono fin troppi indizi per dedurre che anche il gruppo dirigente comunista fosse perfettamente a conoscenza della sua esistenza e del suo ruolo. Diversamente, dovremmo pensare di averlo parecchio sopravvalutato in questi decenni.
Ne deduciamo che l’intero sistema politico, almeno nei suoi vertici, era consapevole dell’esistenza di questo servizio anomalo, che continuò a essere a lungo il silenzioso convitato di pietra che sedeva con loro al tavolo delle trattative.
Non stupisce che nessuno abbia detto nulla in proposito all’epoca dei fatti: sapere non significa sempre poter provare, e non è detto che sapere dell’esistenza di qualcosa significhi sapere quali siano la sua esatta funzione e il suo peso e, tanto meno, le sue attività. Peraltro, una denuncia del genere poteva far temere un conflitto molto pericoloso e magari ciò sarebbe risultato pregiudizievole alla politica delle alleanze. Dunque, molti motivi più o meno pratici, più o meno nobili, più o meno di opportunità hanno dettato la scelta del silenzio.
Quello che invece rimane da spiegare è come il silenzio sia durato anche molto dopo i fatti. Nessuno dei massimi esponenti di Dc, Pci e Psi vissuto fino a epoca recente e, comunque, dopo il crollo della Prima repubblica, ha mai ritenuto di far parola di questo servizio.
Così, più in generale, delle vicende della strategia della tensione, che sono rimaste il «segreto condiviso» della casta politica della Prima repubblica. C’è chi ha invocato l’opportunità di scrivere una «storia condivisa»: non sappiamo quanto ciò sia auspicabile e fino a che punto debba spingersi la condivisione, ma è certo che tale condivisione deve passare per la conoscenza dei fatti. La precondizione della storia condivisa è la fine del segreto condiviso che impedisce di conoscerli.
Ma questo atto di onestà intellettuale non è stato compiuto dai protagonisti della Prima repubblica né davanti alla magistratura, né davanti al parlamento, né davanti all’opinione pubblica per il tramite della stampa. Un esempio per tutti: Forlani. A distanza di trentanove anni dal suo discorso di La Spezia non ha ancora detto ciò che sapeva di quel «pericoloso tentativo», dietro il quale abbiamo riconosciuto la mano di Battaini: sepolta da tempo la strategia della tensione, morti gran parte dei suoi protagonisti, finita da un ventennio la Dc, scoperto il Noto servizio di Battaini e la più che probabile fonte della documentazione a sua disposizione, potrebbe anche decidersi a dire finalmente quel che sa. E così altri. Ma non ci speriamo: l’abitudine al silenzio è molto di più di una scelta dettata da particolari esigenze, è un costume mentale di quella classe politica cementata dal monopolio di conoscenze da non condividere con altri.
Dove la classe dirigente della Prima repubblica (comunque infinitamente superiore a quella che le è succeduta) dimostra pienamente di non essere stata pari al suo compito è nella memorialistica e nei diari di tanti protagonisti di quella stagione. La memoria personale è un fatto intimo che richiede delicatezza, ma anche decisione, e il suo svelamento agli altri presuppone capacità autocritica e grande coraggio morale. Nessuno si aspettava da quegli uomini le Confessioni di Agostino d’Ippona, ma era lecito attendersi qualcosa di più del banale «mettersi in bella copia» e della «foto di gruppo con amici» che ne è venuta fuori. Una certa dose di narcisismo è ammessa in tutti i grandi memorialisti, da Giulio Cesare a Giolitti, ma solo a patto che questa sia compensata da un effettivo bagaglio di informazioni non conosciute, mentre il valore aggiunto cognitivo delle memorie dei protagonisti della Prima repubblica solo in pochissime occasioni va oltre lo zero.
In parte, quei memorialisti sono stati inibiti dal clima di guerra civile latente che ha creato quell’aura di indicibilità alla base di tanti silenzi. Ma questo può valere fino alla fine degli anni Settanta, al più i primi Ottanta. Finito il terrorismo e normalizzata, in qualche modo, la tensione interna, era possibile e doveroso aprire l’armadio degli scheletri e scoperchiare il pozzo nero della memoria repubblicana.
Infatti, lasciando da parte quelli che sono scomparsi prima della fine della Prima repubblica e che avevano giustificazioni contingenti per girare intorno a quel pozzo senza scoperchiarlo (Pietro Nenni, Giorgio Amendola, Luigi Longo, Umberto Terracini), nessuno, fra quanti hanno pubblicato in un momento successivo le loro memorie (Paolo Emilio Taviani, Francesco Cossiga, Mariano Rumor, Giulio Andreotti, Paolo Battino Vittorelli, Armando Cossutta, Pietro Ingrao, Gianni Cervetti, Ugo Pecchioli, per citare solo i più noti), ha fornito informazioni sostanziali sugli aspetti più scabrosi della storia repubblicana. E la grande maggioranza non ha lasciato testimonianze di sorta. Alcuni avranno ignorato tutto, altri avranno subodorato ma senza avere le prove, altri ancora non si saranno resi conto di quel che gli accadeva intorno – non ci fanno una bella figura, ma è possibile che per alcuni sia vero – ma possibile che nessuno avesse nulla di significativo da dire su certi retroscena della politica repubblicana?
Come è noto, la classe dirigente della Prima repubblica cadde sugli scandali della corruzione politica. Il furto di denaro pubblico è certamente un malcostume assai grave. Ma c’è un altro furto che apporta danni ben peggiori, ed è quello di memoria, che condanna un paese a non superare il suo passato e a cristallizzarsi nelle reciproche delegittimazioni. In una parola: a spezzare la sua identità.
Sul primo tipo di furto si può anche avere qualche indulgenza, sul secondo no.
D’altro canto, se gli uomini del sistema non sono stati capaci di verità, anche i loro aspiranti eversori non sono stati da meno: tanto a destra quanto a sinistra la pur copiosa letteratura memorialistica non abbonda di rivelazioni e non trasuda onestà intellettuale. Praticamente, al di là di Vincenzo Vinciguerra, Alberto Franceschini e pochissimi altri meno noti, non sono in molti a essersi presentati all’appuntamento con la verità. In particolare, gli uomini che gestirono il rapimento di Moro continuano a restare fedeli a una versione palesemente insostenibile dei fatti per quella «sorta di complicità con gli uomini del potere» di cui ci ha avvertiti Curcio. Con la sciagurata avventura della lotta annata, i brigatisti furono i principali liquidatori della stagione dei movimenti. E con il loro persistente silenzio servono ancora oggi quella classe politica che li utilizzò per il suo progetto di restaurazione. Anche loro sono parte del silenzio condiviso, e sarebbe ingiusto dimenticarli.
Questo esercizio di scavo nella memoria nascosta dell’Italia ha una sua precisa funzione: aprire un discorso sulla natura del potere nel nostro paese e sul futuro della sua democrazia.
Quest’anno cade il 150° della nascita dell’Italia unita, ma raramente si è visto anniversario peggio ricordato: noiosissime celebrazioni istituzionali si alternano alle sguaiataggini leghiste, esplicitamente rivolte a delegittimare la stessa idea di Unità. E in questo i leghisti ricevono il generoso contributo di molti autori, anche di sinistra, che fanno a gara per scovare le magagne del Risorgimento: la repressione del brigantaggio (e qualcuno scambia Ninco Nanco per Che Guevara), le ombre sulla morte di Anita Garibaldi, le appropriazioni indebite dei garibaldini, il ruolo occulto della massoneria, la tassa sul macinato e le politiche antipopolari dei Savoia. Tutte cose vere, ma anche risapute. Sulla repressione del brigantaggio scrisse Aldo De Jaco mezzo secolo fa, e ben più felicemente dei suoi tardi epigoni: ricordiamo molti altri testi o film come quello di Florestano Vancini su Bronte. Quelle opere, al tempo, costituirono una grande operazione culturale che spazzava via la retorica patriottarda di eredità fascista dimostrando che l’Unità d’Italia fu una cosa giusta, ma realizzata molto male. Oggi ci si limita al loro riciclaggio.
A distanza di cinquant’anni, non pare ci sia alcun eccesso di nazionalismo da curare – la necessità sembra piuttosto quella di fronteggiare il populismo storiografico leghista. Per cui è venuto semmai il momento di dire che l’Unità d’Italia fu realizzata nel peggiore dei modi, ma fu un’ottima cosa. Non sono certo quelle del Risorgimento le ombre della nostra storia nazionale, ma altre, ben più recenti e meno conosciute. Dobbiamo far fronte a un’ondata di «cretinismo storiografico» e, come al solito, quello peggiore è il cretino di sinistra.
In questo modo sta andando persa un’ottima occasione per fare un bilancio autentico di un secolo e mezzo di vita unitaria. Un bel tema da sviluppare sarebbe quello delle aspirazioni tradite del Risorgimento, che immaginava un’Italia moderna, laica e – almeno nella sua ala più avanzata – repubblicana. Centocinquant’anni dopo ci troviamo un paese che, pur avendo realizzato progressi spettacolari e raggiunto una crescita culturale fra le più forti d’Europa, resta ancora caratterizzato da forti persistenze premoderne come l’asfissiante familismo e l’invincibile corporativismo – nel quale persiste il dualismo economico fra le diverse aree regionali – che non ha una pubblica amministrazione degna di uno Stato moderno, che deve ancora difendersi dalle ingerenze del potere ecclesiastico, che ignora il merito e seleziona le classi dirigenti solo per via familiare, con un sistema universitario corrotto e dissestato, con la criminalità organizzata più radicata del mondo, con un’impudente finanza corsara, con una corruzione politica ormai sistemica, con una giustizia da Terzo mondo.
In tutto questo c’è una responsabilità grave delle classi dirigenti, che per tutto il corso della storia unitaria non hanno conosciuto alcun sostanziale rinnovamento. È l’ora di aprire un processo contro di loro, per interrompere l’attuale decadenza e avviare un vero rinnovamento radicale del paese.
La vicenda del Noto servizio è un pezzo non trascurabile di questa storia, e ci è sembrato utile raccontarla.”
Il prof. Aldo Giannuli, come vedete, le canta a tutti con una serietà, amor di verità e amor di Patria che mi hanno, da sempre, affascinato.
A natale del 2009 comprai un certo numero di copie del suo libro Come funzionano i Servizi Segreti e le regalai ai collaboratori di Ipazia PT e a qualche amico che stimavo.
Spese pazze per la mia cultura frugale ma mai soldi furono spesi meglio.
Così, devo dire, del denaro investito nei libri di Stefania Limiti e di Paolo Cucchiarelli.
Tre valenti ricercatori e scrittori che sono apparsi, ai miei occhi disinformati, una sola squadra di grande valore. Le questioni, tra loro, su piazza Fontana, vengono dopo. Tanto che a questa squadra mi preparavo a rivolgermi per offrire loro (se l’avessero voluta) l’opportunità di lavorare come docenti nella scuola di intelligence che mi preparavo a far nascere. Di Stefania Limiti ho già detto a proposito della felice collaborazione in Ipazia web tv (Herbert Kappler: Una fuga di Stato I parte, II parte) e oggi, voglio utilizzare ulteriormente, un lungo passo del suo L’Anello della Repubblica per ribadire perché non mi sono potuto fidare, negli ultimi quarant’anni, di chi era preposto istituzionalmente alla sicurezza del Paese obbligandomi ad aspettare il determinarsi di condizioni sufficienti perché la “necessaria intelligence culturale” avesse cittadinanza.
Scrive Stefania Limiti: Era l’agosto del 1977 e nelle stanze del potere si discuteva di come sbrigare un compito imbarazzante: bisognava riconsegnare il detenuto nazista mai pentito Herbert Kappler alla Germania che, in cambio, avrebbe rimosso il veto per la concessione di un consistente prestito di denaro di cui l’Italia aveva un disperato bisogno. Tutta l’operazione fu affidata all’Anello: era troppo compromettente per essere assegnata ai servizi ufficiali.
Se la verità fosse saltata fuori, in quel caldo scorcio di agosto del 1977, ne sarebbe andato di mezzo lo Stato. Agli uomini dell’Anello, invece, nessuno avrebbe potuto chieder conto delle proprie azioni e frequentazioni.
L’affare era tanto «sporco» quanto non rinviabile: il governo italiano – per la terza volta dalla nascita della Repubblica guidato da Giulio Andreotti, in carica dal 29 luglio 1976 all’11 marzo del 1978 – aveva deciso che doveva andare in porto ma nessuno doveva dubitare delle istituzioni. Perciò anche i servizi segreti ufficiali non potevano assumersi l’intera responsabilità di questa incombenza. Meglio appaltarla al «noto servizio»: se anche Titta o qualcuno dei suoi fossero stati colti sul fatto, la responsabilità sarebbe stata solo ed esclusivamente loro.
L’ex colonnello delle SS stava scontando la sua condanna all’ergastolo: dopo una lunga detenzione nel carcere di Gaeta, nel 1977, malato di cancro, ottenne di essere ricoverato all’ospedale militare di Roma, il Celio, da cui fuggì all’alba del 15 agosto di quello stesso anno.
Kappler occupava una stanza al terzo piano del reparto chirurgia, a pochi passi da altre due stanze che ospitavano degenti molto particolari, due protagonisti delle trame nere, il colonnello Amos Spiazzi e il capitano Salvatore Pecorella, ambedue direttamente coinvolti nel golpe Borghese, e il primo esponente di spicco della Rosa dei Venti, «diretta emanazione di un servizio segreto sovranazionale della Nato che si sovrapponeva agli organi istituzionali dello Stato».
La degenza del colonnello Spiazzi in quel momento e in quel luogo sarà stata senz’altro un caso, ma vale la pena ricordare che nel 1973 la stessa Rosa dei Venti aveva pensato di rapire Kappler.
Alla luce di queste rivelazioni, la presenza di Spiazzi, forse, avrebbe potuto assumere un valore investigativo più importante. E se allora il ministro della Difesa si limitò a parlare delle responsabilità dei servizi segreti, colpevoli di aver sottovalutato la necessità di sorvegliare il detenuto Kappler, le ipotesi sulle complicità potrebbero essere ancora più inquietanti.
Dalle affermazioni di Cavallaro emerge una realtà più complessa: il Sid aveva predisposto i piani per l’evasione di Kappler già quattro anni fa [nel 1973, Nda]. Sono stati questi «rosaventisti» a confermarlo ricordando che essi stessi vennero attivati per organizzare
la fuga dell’ex colonnello. Il tesoriere della «Rosa», Giampaolo Porta Casucci, incaricò il maggiore Amos Spiazzi. Questi si fece consegnare dettagliate cartine del carcere di Gaeta da Roberto Cavallaro, un altro degli imputati che si spacciava per magistrato militare e aveva libero accesso anche alle carceri. La «missione Gaeta» non andò in porto perché l’istruttoria sulla «Rosa dei venti» spazzò via i principali personaggi.
Ma Amos Spiazzi era lì accanto a Kappler, Cavallaro era in libertà provvisoria e Titta, il capo del «noto servizio», uno degli «acini» descritti dal giudice Tamburino della più «vasta struttura a grappolo» del mondo parallelo dei servizi, pronto con l’automobile per portare a casa l’evaso.
Se nel 1973 l’operazione della «liberazione» di Kappler era stata appaltata alla Rosa dei Venti, è assolutamente «naturale» dopo le inchieste della magistratura su quella organizzazione che quattro anni più tardi, anziché rinunciare, il lavoro venisse appaltato a un altro reparto clandestino, il «noto servizio».
La missione, dunque, sarebbe stata portata a termine da uomini fidati e insospettabili: persone apparentemente comuni, a cui nessuno avrebbe chiesto notizie del boia fuggiasco.
Se dunque ci accingiamo a fare un balzo indietro nella lontana vicenda della fuga di Herbert Kappler, per quanto ancora dolorosa per le coscienze democratiche del nostro paese, non è per ricordarne il clamore ma perché questa storia ci consente di comprendere bene cosa faceva e come operava il «noto servizio» su affari di Stato senza rendere conto a nessuno, se non ai propri referenti politici.
… Il boia delle Fosse Ardeatine non disse mai una parola di pentimento per quell’eccidio e non perse occasione, anche tramite sua moglie, per ricordare provocatoriamente di aver solo eseguito gli ordini. Sarebbe stato impossibile per lui ottenere un lasciapassare ufficiale del governo.
… Per Kappler, alla fine, le cose andarono diversamente, anche se nessuno in Italia si sarebbe sognato di sottoscrivere il suo perdono; né il governo, debole sul piano interno e internazionale, era in grado di assumersi la responsabilità politica di un gesto di restituzione del boia. Riportarlo a casa in modo clandestino era un buon affare e il «noto servizio» garantiva la fattibilità della missione e nessun rischio per i mandanti politici.
Il Bel Paese già dal 1976 si trovava in una fase politica molto delicata. Dopo il vertice del G7 di Portorico, i grandi dell’Occidente – Francia, Inghilterra, Germania e Stati Uniti avevano messo in guardia l’Italia: non sarebbero stati accettati cambiamenti della tradizionale linea di politica estera. C’era già odore di compromesso storico e la Dc, costantemente sotto la lente d’osservazione di Washington, non poteva permettersi di alzare troppo la voce di fronte alle insistenti richieste di un alleato come la Germania, dove il ritorno a casa di Kappler non lasciava affatto indifferente l’opinione pubblica. Anzi, la restituzione dell’ex ufficiale nazista era invocata senza alcuno scrupolo dai tedeschi , nonostante le sue indubbie e atroci responsabilità: molti, dai suoi ex camerati ai cittadini comuni, chiedevano di poter riavere Kappler, vecchio e malato, per farlo «morire in Germania». I responsabili politici di quel ritorno ne avrebbero incassato i meriti, alimentando così la macchina dei consensi elettorali. Pure gli evangelici tedeschi si erano messi a raccogliere le firme per far tornare in patria l’ex SS: addirittura i dirigenti dell’Internazionale socialista in patria non perdevano occasione per esprimere il loro favore alla liberazione del nazista.
Il fenomeno non fu marginale, tanto che si parlò di Hitler nostalgie.
Per la prima volta i settimanali illustrati pubblicarono a puntate grandi rievocazioni della vita di Hitler, i suoi colpi di genio, le sue disavventure, i suoi amori e le sue sconfitte.
Il tono degli articoli non era di ammirazione ma neanche di condanna. Nel 1970 Una pubblica richiesta di grazia per il boia delle Fosse Ardeatine, firmata da molti vescovi, era stata indirizzata al capo dello Stato italiano Saragat, ma la questione allora non aveva avuto seguito. Il socialdemocratico Helmut Schmidt ci riprovò con maggiore successo con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
II governo italiano era ben disposto ad andare incontro agli ex alleati, tuttavia la cosa doveva essere affrontata in un modo adeguato: cioè in nessun caso poteva saltar fuori che l’Italia aveva mercanteggiato un simile bottino o, peggio, che si era arresa di fronte alle pressioni tedesche.
Perciò la tanto richiesta riconsegna del nazista Kappler alla Germania fu una complessa questione di Stato che richiese un impegno straordinario: non si trattava solo di un baratto, soldi contro prigioniero. Per l’Italia la riconsegna dell’eccellente detenuto era una strada obbligata, una questione non trattabile. E non era un malaffare, una sporca storia di bugie all’italiana, di piccole complicità e di fantasiose ricostruzioni da far divorare ai media. La chiave per capire la complessità politica di questo capitolo la fornisce il sette volte presidente del Consiglio: dopo l’incubo del terrorismo [che aveva da poco ammazzato il Giudice Vittorio Occorsio, Nda], il cancelliere Schmidt rese pubblica una dichiarazione che aveva concordato con Reagan e Callaghan durante il Vertice di Portorico nella quale, sostanzialmente, si dava l’Italia quasi per spacciata e si diffidava, in nome dell’Occidente, da qualunque apertura ai comunisti.
Schmidt era andato oltre una condanna politica.
Il 13 luglio 1976, dopo il vertice al quale l’Italia aveva partecipato nella persona di Aldo Moro, l’Associated press emetteva il seguente comunicato: «II cancelliere tedesco occidentale Helmut Schmidt ha dichiarato ieri ai giornali che gli Stati Uniti, la Germania occidentale, la Francia e la Gran Bretagna sono d’accordo nel non concedere aiuti economici all’Italia qualora nel governo di Roma entrino esponenti comunisti. Schmidt ha precisato che gli aiuti all’Italia furono il tema principale del summit economico occidentale svoltosi lo scorso mese a Portorico, anche se la questione non venne discussa in presenza del presidente del consiglio Aldo Moro». Una pesante ipoteca pesava dunque su chi doveva far quadrare i conti pubblici: le casse dello Stato, infatti, erano vuote e lo stesso oratore delle quattro potenze, il cancelliere Schrnidt, sapeva bene che oro italiano era ormai in pegno presso le banche tedesche e che non avevamo più possibili accessi al credito.
Andreotti torna sul tema altre volte, tanto l’episodio aveva pesato sulla politica italiana. In un editoriale del 2000 sulla rivista «30 giorni» da lui diretta, Andreotti scrive: l’incubo del compromesso storico faceva perdere il sonno a molti: in primis ai socialisti che ne parlavano anche in sede della loro Internazionale cercando di contrastare le tendenze verso una ammissione del Pci come osservatore (l’ostacolo fu in seguito superato a trattativa, per così dire, privata tra Occhetto e Craxi). Se Bettino si aspettava di avere gratitudine per questa luce verde sbagliava di grosso. Tanto più che ormai le porte per il Pci erano aperte, con o senza il lasciapassare craxiano. Sul piano dei governi, però, le cose erano meno evolute e dal Vertice di Portorico del 1976 venne una vera e propria diffida quadrangolare (Usa-Inghilterra-Francia e Germania) intimandosi all’Italia di non mutar rotta.
Il cancelliere Schmidt fece una dichiarazione formale a nome dei quattro, creando aI governo italiano non lieve imbarazzo. Ma l’orlo del fallimento finanziario e l’incubo delle Brigate rosse contavano più de i sermoni.
E ancora, sempre Andreotti sulla stessa rivista: «Un chiodo fisso degli Stati Uniti – con sfumature diverse ma con prevalente monotonia – era il timore che in Italia la spuntassero i comunisti. Ed era un continuo di moniti, di critiche, di chiusure, compreso il di vieto di «visto» per i comunisti stessi. […] Del resto, molto prima [del vertice di Portorico. Nda], l’ambasciatrice (o ambasciatore che sia) Claire Luce aveva definito poco virile De Gasperi, esaltando l’uomo Pella perché aveva fatto tintinnare le sciabole per reagire ad una presunta minaccia titina». Insomma, nell’Italia del 1976, i democristiani erano nell’occhio del ciclone. L’affermazione elettorale segnata a giugno dal Partito comunista era stata strepitosa: 34 per cento dei voti nella tornata delle europee (piccolo errore veniale: le prime europee si tennero nel 1979 nd OG), una conferma del trend positivo iniziato con le amministrative dell’anno precedente. Il Pci si imponeva in Italia come ineludibile forza di governo. Del resto, il paese era dissestato economicamente e le trattative che i partiti avevano intrapreso all’indomani del risultato elettorale non offrivano vie d’uscita alla Balena Bianca, se non quella di avviare la strategia della «solidarietà nazionale», iniziata con la costituzione di un monocolore Dc sostenuto dall’astensione di altri cinque partiti, tra i quali i comunisti, una scelta che gli alleati avrebbero fatto pesare, minacciando un’esclusione umiliante e indigeribile.
In quel ricordato vertice di Portorico, la minaccia era diventata pubblica: Aldo Moro era tornato avvilito e sconfortato, perché la forte ascesa dei comunisti era stata considerata irreversibile e la governabilità dell’Italia, di conseguenza, compromessa. Fu perciò lo stesso Moro a convincersi che il suo vecchio nemico di partito, Andreotti, era l’unico in grado di condurre un nuovo esecutivo sostenuto dal Pci, per non creare «interpretazioni equivoche all’interno e all’estero». Fu così che Andreotti arrivò, nel luglio del ’76, alla guida del suo terzo governo, volando prima negli Stati Uniti per cercare di rassicurare il presidente Ford: egli racconta che la prima difficoltà che dovette affrontare in politica estera fu proprio la dichiarazione pubblica di Portorico. In quel delicato contesto, l’ultima cosa che Andreotti avrebbe fatto era quella di incendiare la polemica con Bonn, come rivela nei suoi Diari: non dobbiamo mostrarci isterici e permalosi, avremo tempo per spiegare al Cancelliere la situazione e chiedergli consigli. Oggi egli rappresenta il paese al quale abbiamo dovuto pagare in pegno l’oro della riserva monetaria per garantire gli ultimi prestiti. Non possiamo risentirci perché si occupa di ciò che accade da noi … debitori.
L’ltalia, insomma, era un paese molto isolato e sotto stretta «sorveglianza», visto che In quel momento stava progettando, nel fatti, il superamento politico, non certo militare, dell’ordine di Yalta creato nel dopoguerra come garanzia di un nuovo equilibrio.
Mentre era in corso questo tentativo di eludere i piani stabiliti dalle grandi potenze nel 1945, il governo italiano non ebbe la forza neanche di chiedere pubblicamente al cancelliere tedesco una condanna per la fuga di Kappler, che infatti non fu mai pronunciata. Schmidt non spese neppure una parola per spiegare agli italiani perché la Germania non intendeva ridare indietro il boia delle Fosse Ardeatine. In Germania le reazioni erano tutte improntare a una malcelata soddisfazione: i giornali popolari elogiavano l’abilità e il coraggio della signora Kappler, gli altri invitavano le autorità e i cittadini italiani a porre una pietra sullo spinoso caso. Non si sarebbe mai parlato, era chiaro, di un’estradizione in Italia. Fu Willy Brandt, e non Andreotti, a chiedere che il governo tedesco prendesse posizione.
Grazie, signora Limiti.
Oreste Grani