Non facciamo scherzi! Mai Giuliano Amato al posto che fu di Sandro Pertini

Gentili lettori, la massima attenzione al blog Leo Rugens si è avuta quando ho pubblicato la puntata relativa allo stato del Paese a partire dal 1994: centinaia di accessi. Oggi mi dedico a fornire altro materiale di riflessione su quegli anni e su quell’occasione mancata.

L’argomento di oggi è il sistema carcerario così come il direttore generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di allora, Adalberto Capriotti, descriveva a fine 1993.

Il 1993 fu un anno determinante per capire la vicenda della trattativa Stato-mafia.

Cito, anche, come introduzione alla delicata questione alcune dichiarazioni ferme e, per ora, mai smentite di Claudio Martelli, altro protagonista di quegli anni.

L’ex Guardasigilli attacca pesantemente il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per il ruolo svolto nei contatti che lo Stato ebbe con la mafia dopo la strage di Capaci.

“Fu lui il regista della trattativa per normalizzare il rapporto con la mafia, togliendo di mezzo i politici che avevano esagerato nel contrasto a Cosa nostra, favorire i moderati e togliere di mezzo il pazzo Riina”, ha detto Martelli nel corso della sua audizione a san Macuto. L’ex ministro ha citato ad esempio la sostituzione degli “uomini che più efficacemente avevano contrastato “Cosa nostra” come Vincenzo Scotti (Interno), Nicolò Amato (Dap) e il tentativo di sostituire lui stesso da via Arenula durante la formazione del governo Amato. Un ruolo, l’allora presidente della Repubblica, lo avrebbe avuto anche nella richiesta al nuovo capo del Dap, Adalberto Capriotti (nome suggeritogli dai cappellani carcerari) di “dare un segno di distensione” e consistito nella revoca del 41 bis a centinaia di mafiosi in carcere. “L’ha detto anche Conso – ha sottolineato Martelli -: ‘volevamo agevolare l’ala moderata di Cosa nostra, guardavamo a Provenzano’. Ma fino a gennaio ’93 Provenzano era il vice di Riina e io questa distinzione fra ala militare e trattativista non l’ho mai fatta”. Insomma, “il compromesso con la mafia c’è stato, non c’è dubbio” e per molti versi si è trattato di un “cedimento”, cui molti esponenti delle istituzioni “hanno assistito silenti nell’illusione di un’attenuazione” delle violenze mafiose.

Ma Martelli ne ha anche per l’ex compagno di partito Giuliano Amato per le parole pronunciate ieri dall’ex premier nel corso della sua audizione in commissione Antimafia. Il “dottor Sottile”, sentito ieri a san Macuto sulla trattativa Stato-mafia, aveva affermato di non ricordare la conversazione avuta con Martelli sulle pressioni di Bettino Craxi per toglierlo dal ministero della Giustizia durante la formazione del governo. Una “bugia” secondo Martelli, che ha affermato di non escludere di rivolgersi alla magistratura e ha raccontato nei dettagli l’incontro, svoltosi al ristorante “Antica pesa” a Trastevere: “Mi chiamò Amato e mi disse ‘ti devo parlare: io faccio da ambasciatore, quindi non te la prendere con me ma Craxi non vuole che resti al ministero della Giustizia. Dice però che puoi andare alla Difesa”. “lo ho iniziato una battaglia lì e voglio finirla”, la risposta di Martelli. Tre giorni dopo il segretario socialista avrebbe dato il via libera alla conferma di Martelli a via Arenula: “I tuoi sono buoni argomenti e quindi puoi restare”. “Non posso accusare di spergiuro Giuliano Amato ma è assoluta certezza che escludendo l’incontro abbia mentito – ha detto Martelli –. Sono pronto a citare numerosi testimoni, persino uno presente nel momento della colazione che effettivamente è andata come io ho raccontato”. Quindi il velato riferimento all’intenzione di essere pronto a rivolgersi alla magistratura: “Una volta c’era il giurì d’onore in Parlamento. Non c’è più? E allora sarà meglio rivolgersi alla Procura”. Stessa accusa di menzogna anche sulla scelta di Giovanni Conso quale suo successore a via Arenula, che Amato ha affermato di aver compiuto in solitudine: “è un’altra bugia, si sa che è stato scelto da Scalfaro, come Amato stesso, Mancino e naturalmente la sostituzione di Nicolò Amato con Capriotti” al Dap. Martelli ha affermato anche di essersi speso per la conferma di Scotti al Viminale, asserendo che ritenne una “incredibile sostituzione” l’avvicendamento imposto al ministero dell’Interno a pochi giorni dalla strage di Capaci. “Perché lo fai?”, avrebbe chiesto Martelli. “Perché questo è quello che mi chiedono il presidente della Repubblica e il segretario della Dc” (Arnaldo Forlani, ndr). “Ma sei il presidente incaricato, perché non ti avvali dell’articolo 94?”. “Claudio, non scherziamo, il governo non nascerebbe nemmeno se facessi una cosa del genere …”, la risposta di Amato.

Nota del redattore Leo Rugens: che nessuno pensi che un tale personaggio acquiescente e pusillanime (Giuliano Amato) possa, tra pochi mesi, prendere il posto che fu di Alessandro Pertini. Del presidente Sandro Pertini (che non aveva mai voluto avere padroni, neanche dentro il suo partito, il PSI) voglio ricordare, in queste ore che precedono tempi difficili soprattutto per i lavoratori onesti, questo omaggio al lavoro: “Conobbi la povertà e poi la miseria della disoccupazione, quando chiedere un lavoro era come chiedere la luna nel pozzo. E i padroni e i loro sergenti mi cacciavano come una bestia. I padroni non concedono mai nulla. Tutto quello che la classe operaia ha se lo è conquistato”.

Riprendiamo le dichiarazioni dell’ex ministro Martelli, che volle Falcone a via Arenula, e che ha anche raccontato che quando parlò di “menti raffinatissime” “dietro l’attentato dell’Addaura, il magistrato pensava “a una rete di rapporti tra mafiosi nel senso proprio del termine, criminali, killer e qualcosa di deviato tra i colletti bianchi nel mondo professionale palermitano e ambienti della questura e dei servizi”. “Quanto all’attentato che costò la vita a Falcone, “è difficile pensare che i servizi ci siano stati all’Addaura e non ci siano stati a Capaci”.

“Dopo la strage di Capaci Martelli parlò anche col ministro dell’Interno Nicola Mancino del comportamento anomalo del Ros, che aveva ‘agganciato’ Vito Ciancimino e si riprometteva di coltivare il rapporto e la collaborazione per evitare ulteriori stragi e ottenere informazioni per catturare i più importanti latitanti”. “Non ebbi l’impressione di una trattativa con Cosa nostra, ma di un comportamento anomalo, “un’iniziativa non autorizzata”, sottolinea Martelli. Quanto al colloquio con cui il direttore generale di via Arenula Liliana Ferraro fu informata dal capitano De Donni, il ministro si sarebbe premurato di metterne al corrente Paolo Borsellino, che rispose: “ci penso io”. Due settimane dopo, la strage di via D’Amelio”.

Ora passiamo alla prosa “illuminata” di Adalberto Capriotti:

«Pianeta carcere», un’espressione largamente diffusa nel linguaggio giornalistico e televisivo per indicare una realtà complessa con la quale tutti, e non solo gli addetti ai lavori, devono confrontarsi. Sembra quasi che il termine «carcere» non riesca, da solo, ad esprimere i molteplici problemi che quotidianamente investono la società civile e occorre, pertanto, coniare un’espressione più ampia e rappresentativa.

Il 1993 è stato l’anno dell’«emergenza carcere». La popolazione detenuta ha, infatti, raggiunto la quota di 53.000 unità, a fronte di un sistema carcerario che fa perno su 220 istituti, con una capienza complessiva di 32.000 unità. È un dato, questo, che pone grossi interrogativi sulle cause che hanno quasi raddoppiato la popolazione carceraria in meno di tre anni. AI 31 dicembre 1990, infatti, si contava una presenza di detenuti di circa 31.000 unità. Il problema del «sovraffollamento» va letto innanzitutto in rapporto alla complessità della situazione della giustizia italiana, alla risposta dello Stato nella lotta al crimine organizzato, al drammatico intreccio della tossicodipendenza con il mondo del crimine.

Qualche cifra in proposito: in carcere, allo stato attuale, sono ristretti circa 3.000 detenuti per reati relativi ad associazioni mafiose, 2.500 per reati connessi al traffico di droga e quasi 1.000 per sequestri di persona. I detenuti ristretti per reati collegati alla tossicodipendenza sono circa 15.000 e tra questi circa 3.400 risultano sieropositivi.

Il carcere, spesso, diventa l’approdo di problemi sociali irrisolti che, coll’andare del tempo, degenerano risolvendosi poi in comportamenti criminosi. Il problema dell’immigrazione, per esempio, ha contribuito a far accrescere la popolazione carceraria di circa 8.000 unità, la cui provenienza è particolarmente consistente per la Tunisia (1900), il Marocco (1500), la Jugoslavia (900), l’Algeria (600). 

Il sovraffollamento crea continue emergenze che si riflettono sul personale, i cui organici diventano insufficienti, mettendo a rischio la sicurezza e penalizzano gli aspetti trattamentali. Non bisogna dimenticare che il sistema penitenziario italiano è caratterizzato da una forte impronta liberale e può essere considerato tra i sistemi penitenziari più all’avanguardia nel mondo. Ma la piena attuazione delle norme in materia di trattamento e rieducazione risulta difficile da realizzare con organici insufficienti, costretti a misurarsi con le emergenze dettate dal flusso costante di detenuti sottoposti a misure cautelari, che contribuiscono non poco a far innalzare i livelli di guardia all’interno degli istituti di pena. 

Nel sistema carcerario italiano convivono situazioni vecchie e nuove: da un lato la volontà di riformare, di rendere umane le condizioni di vita dei detenuti, di assicurare ad essi il soddisfacimento dei bisogni, di offrire concrete alternative di vita. Questo a partire dalla necessità di costruire carceri che siano sì luoghi di espiazione, ma che, nel contempo, offrano anche ambienti ove riunirsi, socializzare, biblioteche, infermerie attrezzate, laboratori di artigianato, corsi scolastici e di formazione professionale.

Istituti che rispondono a questi requisiti sono il carcere di Opera, di Rebibbia, Secondigliano, Bicocca, Cuneo, Tolmezzo. Ma accanto al nuovo sussistono istituti obsoleti, dove al sovraffollamento si aggiungono le carenze di strutture fatiscenti e di spazi di detenzione del tutto insufficienti, che rendono problematico ogni discorso sulle attività trattamentali.

 

Una politica penitenziaria che voglia perseguire finalità di umanizzazione della pena, assicurando nel contempo le necessarie esigenze di sicurezza, deve mirare, in prima istanza, ad una programmazione di edilizia penitenziaria che rispetti questi presupposti. In tal senso si sta muovendo l’Amministrazione Penitenziaria.

Ancora qualche dato in merito: nel 1993 sono state ultimate le carceri di Viterbo, Sulmona, L’Aquila e Verona, in corso di costruzione sono le nuove case circondariali di Ancona, Lecce, Perugia, Sant’Angelo dei Lombardi, Caltagirone, Rossano, S. Maria Capua Vetere, Siracusa, Vibo Valentia e il centro clinico di Sanremo. È stato dato avvio all’iter procedurale per i nuovi istituti di Potenza, Milano Bollate, Reggio Calabria e il centro clinico di Palermo, la cui consegna, assieme alle case circondariali di Agrigento e Castrovillari è prevista per il giugno ’94. Per dare una possibile soluzione al problema del sovraffollamento sono in corso di esecuzione lavori di ampliamento e di ristrutturazione che interessano venti altri istituti.

La gestione dell’edilizia penitenziaria presenta non poche difficoltà per quanto riguarda la programmazione e la realizzazione di nuove carceri; la materia infatti, è di competenza del Ministero dei Lavori Pubblici.

La situazione detentiva incide indubbiamente anche sul comportamento del soggetto ad essa sottoposta. Essere limitati nella capacità di muoversi, di progettare il futuro anche più immediato, la convivenza forzata con i compagni di cella, la difficoltà di mantenere rapporti con la propria famiglia, tutto ciò concorre a deformare la percezione della realtà carceraria che è fissa nella sua monolitica struttura. Così, infatti, il carcere appare al detenuto, nonostante siano stati compiuti notevoli sforzi, in questi ultimi anni, per renderlo più umano e vivibile.

Gli atti di autolesionismo, i suicidi tentati e quelli purtroppo attuati, rappresentano da un lato un dato «fisiologico», ma dall’altro nessuno può ignorare né dimenticare che dietro ogni numero c’è un uomo, una tragedia che non può essere archiviata come mera oggettività. I suicidi rappresentano un problema drammatico che l’Amministrazione Penitenziaria non accetta con «ragionevole rassegnazione». Da anni, infatti, si sta cercando di affrontare la prevenzione a tali atti estremi e violenti attraverso uno strumento

di prevenzione consistente in un presidio psicologico definito «servizio Nuovi giunti». Il servizio, attivato in tutti gli istituti penitenziari, prevede un colloquio, condotto da esperti in materie psicologiche e criminologiche, con le persone che entrano per la prima volta in carcere. Soggetti, cioè, che vivono l’impatto con la realtà carceraria in tutti i suoi aspetti destabilizzanti. Per quanto riguarda il problema dei detenuti stranieri, come mostrano i dati riportati, esso non è stato risolto, come si sperava, dal provvedimento emanato dal Governo che prevedeva l’espulsione di questa utenza di detenuti con condanna definitiva di minima entità. Solo il 2% dei circa tremila detenuti stranieri ha accettato di ritornare in patria, dove avrebbe trovato situazioni detentive peggiori.

I 15.000 detenuti tossicodipendenti, di cui 2.500 affetti da Hiv, (ma ricordiamo che lo screening è volontario, per cui possono sottoporsi al test solo coloro che lo richiedono) e i circa 90 malati terminali di Aids che necessitano di un ricovero urgente in ospedale, rappresentano un grosso problema di cui l’Amministrazione Penitenziaria non può farsi carico senza adeguati sostegni ospedalieri e di assistenza sanitaria esterni. Il coinvolgimento delle strutture sanitarie nazionali appare ormai inderogabile nel tempo e nei modi.

Tossicodipendenza e Aids, un binomio esplosivo che accresce di giorno in giorno l’emergenza carcere. 

A seguito dell’emanazione della Legge n. 162 del 1990 l’Amministrazione Penitenziaria ha elaborato dei progetti finalizzati, tesi a favorire un diverso trattamento di recupero tra il detenuto ex tossicodipendente e detenuto comune: a Firenze «Solliccianino», a Rimini, a Roma terza casa circondariale, sono state create delle sezioni a custodia attenuata, delle «isole» dove trovano accoglienza piccoli gruppi di detenuti che hanno dato prova di aver operato un distacco da abitudini di vita pregresse e mostrano una concreta volontà di progettare percorsi esistenziali positivi.

Queste sezioni per tossicodipendenti sono attrezzate con laboratori, orti, palestre, teatro e vi opera personale penitenziario (direttori, educatori, agenti di polizia penitenziaria) a cui è stata fornita una formazione specifica, attraverso corsi e seminari svoltisi in tutta Italia. Esperienze ed iniziative che si ripetono nel tempo e sono destinate ad aumentare.

A questo proposito si inserisce il problema della formazione del personale dei diversi profili impegnati nel sistema penitenziario.

Non basta informare, cioè offrire nozioni e informazioni, occorre «formare», ovvero fornire strumenti di reale intervento, rendere partecipe l’operatore del lavoro che compie, farlo sentire protagonista responsabile dell’importante ruolo che è chiamato a svolgere.

La complessità del carcere richiede una risposta strategica fatta di nuove competenze, di efficacia ed efficienza. La Legge di riforma dell’Amministrazione Penitenziaria ha, tra l’altro, soppresso il ruolo degli agenti di custodia ed ha istituito il corpo di «polizia penitenziaria», affidando a questo compiti nuovi (fra cui quello relativo alla traduzione dei detenuti – a partire dal 1996 – e la presenza del personale di polizia nelle attività trattamentali).

È necessario, quindi, contemperare – e con fiducia – le due istanze di custodia e di recupero, compito delicato quanto difficile, che richiede esperienza e grande professionalità, che va costruita attraverso una formazione ponte tra le due diverse e per certi aspetti opposte esigenze.

L’Amministrazione Penitenziaria dispone infine di sei scuole di formazione del personale, di cui una, quella di Roma, provvede anche alla formazione dei profili professionali relativi ai direttori, agli educatori, agli assistenti sociali, oltre che alla polizia penitenziaria.

Le altre scuole sono dislocate a Parma, Monastir, Cairo Montenotte, Portici e Sulmona. La durata dei corsi varia da un mese ad un anno, a seconda della finalità formativa. Un impulso notevole, come è stato detto, è stato dato ai corsi di formazione sul fenomeno della droga, delle infezioni da Hiv e Aids.

E la produzione di questi quattro pensierini giustificavano, la rimozione di Nicolò Amato – uomo dotato di un alto senso dello Stato – e della sua cultura umanistica e giuridica?

C’è una versione che rafforza il racconto di Martelli.

L’«avvicendamento» di Nicolò Amato, licenziato dalla sera alla mattina dopo 11 anni a capo degli istituti di pena, secondo questa versione, fu decisa proprio dall’allora capo dello Stato che un giorno di maggio ’93 convocò al Quirinale l’ispettore generale dei cappellani, monsignor Cesare Curioni, suo grande amico da quando era cappellano al carcere di San Vittore e Scalfaro era un giovane pubblico ministero alle prese con un’altra vicenda oscura, le condanne a morte dei fascisti. Ad accompagnare monsignor Curioni, il suo segretario, monsignor Fabio Fabbri. Questa versione riposa, confortata da una serie di testimonianze univoche, nei verbali degli interrogatori raccolti – 8 e 9 anni fa – dal sostituto procuratore antimafia di Firenze, Gabriele Chelazzi, prima di morire. Monsignor Curioni è mancato, anche lui per infarto, nel ’96. Ma il suo ex segretario ricorda bene tutto. E davanti ai microfoni del Tg5 ha confermato quell’incontro con Scalfaro. «Ci chiamò al Quirinale», dice monsignor Fabbri, «per dare il nostro aiuto a individuare un nome adatto a quel ruolo. Era un incontro che nasceva dalla grande amicizia tra il presidente e don Cesare».

Da mesi c’era maretta tra lo storico direttore del Dap, Nicolò Amato, craxiano di ferro e Scalfaro. Screzi, questioni personali. Ad Amato veniva rimproverato lo sgarbo consumato nei confronti di monsignor Curioni, sfrattato dai suoi uffici e confinato in due stanzette a Regina Coeli. Fatto superato – «i rapporti con Amato erano ottimi, aveva molto aiutato noi cappellani» assicura don Fabio – ma la cui eco era arrivata al Colle. Soprattutto in quell’incontro molto confidenziale – «qui ero seduto io e lì, come dove è lei, il presidente» – Oscar Luigi Scalfaro rievocò la volta che Amato gli aveva fatto fare due giorni di anticamera per riceverlo. «Quando io non ero nessuno, disse lui, ed è tutto da vedere che non fossi nessuno» sorride nel rievocare la scena il nostro testimone. E come venne fuori il nome di Adalberto Capriotti? «Purtroppo o no, fui io a farlo. Lo conoscevo bene, eravamo amici. Già in passato era stato il responsabile della polizia penitenziaria. Mi girai verso don Cesare: ma Capriotti non potrebbe essere? Scalfaro si alzò di scatto. Andò verso una specie di consolle dove consultò un librone con le posizioni di tutti i magistrati. “Può essere” disse».

Sia come sia, è così che Adalberto Capriotti, magistrato cattolico e «devotissimo», allora procuratore a Trento, andò a guidare le carceri italiane. Ed è questo il punto. Perché siamo allo snodo nevralgico di ciò che accadde di oscuro tra il governo Ciampi e Cosa nostra, tra Stato e Antistato. Il 26 giugno ’93, tra la strage di Firenze (5 morti, alla fine di maggio) e quella di Milano il 27 luglio (altri cinque morti), Capriotti preparò una nota per il ministro Conso. Nella quale si suggeriva di diminuire del 10% il numero dei boss sottoposti al carcere duro (il «41 bis») e di revocare il regime speciale per le figure di secondo piano. Come «segnale positivo – scrisse – di distensione». E Giovanni Conso, ministro della Giustizia nel governo di centrosinistra guidato da Ciampi, eseguì. Il primo novembre lasciò decadere i primi 140 decreti 41 bis per altrettanti mafiosi, che, tra novembre ’93 e gennaio del ’94, saliranno a circa 400, almeno. Nel più assoluto silenzio. Una decisione che avrà fatto rigirare nella tomba i giudici Falcone e Borsellino, che avevano voluto fortissimamente il 41 bis per piegare Cosa Nostra. Tanto che ora ci si chiede e si indaga se questo passaggio abbia costituito un momento dell’oscura trattativa con la mafia: fine delle stragi in cambio dell’eliminazione del 41 bis”.

Queste cose succedevano in Italia dopo “mani pulite” e all’inizio del 1994. In attesa del messianico berlusconismo.

Oreste Grani