Da un grande genovese, Giuseppe Mazzini, a un genovese, Beppe Grillo, che potrebbe farsi grande (se lo aiutiamo in molti)
Pochi conoscono o ricordano lo vicende elettorali di Giuseppe Mazzini. A proposito di questi avvenimenti riporto un brano del discorso tenuto a Genova da Randolfo Pacciardi nel 150° della nascita del Maestro: “Dirò a vostra onta, o genovesi, che Genova e Napoli, nelle elezioni, lo, rifiutarono come deputato. Lo elesse per due volte Messina e per due volte una Camera italiana respinse le elezioni. E anche coloro che lo difesero, lo difesero con argomenti avvilenti. Messina lo rielesse per la terza volta e questa volta la Camera di arrese, ma allora fu Mazzini a rifiutare il mandato non avendo l’animo di giurare fedeltà alla Monarchia. Divinò la Repubblica. E sembrava follia dare a questo popolo, schiavizzato da quattordici secoli di dominazione straniera, un regime che poi era un comando a ritrovare se stesso: ‘Sorgi e cammina. Prendi nella mani tue le redini del tuo destino’. Gli stessi enciclopedisti della rivoluzione francese non avevano osato tanta audacia”. Così Pacciardi a Genova nel 1955.
Il percorso politico nazionale del MoVimento 5 Stelle in realtà, più che da Parma, parte dalla complessa Sicilia e dall’affermazione di queste ore. A prescindere da quanto dicono gli obsoleti Bersani, Casini, Alfano e via discorrendo. Soprattutto a prescindere da quanto non ha saputo fare o dire Vendola. A noi di Ipazia, durante le amministrative a Siena del 2011, fu subito chiaro che Vendola era soltanto la foglia di fico dell’inutile Ceccuzzi, del PD e soprattutto del gruppo di potere che non voleva mollare il Monte dei Paschi di Siena. Senza l’appoggio di copertura di Vendola e di Di Pietro, Ceccuzzi sarebbe stato messo a nudo durante la campagna elettorale, e gli avvenimenti politici nazionali, da questa sconfitta, ne avrebbero tratto beneficio.
Ma tutto questo si sarebbe potuto superare che non fossi inciampato, come vedremo in seguito, in una presunta amicizia di vecchia data fra Pierluigi Piccini e il “banchiere maximo” Vincenzo De Bustis.
Giuseppe Mazzini, in uno scritto del 1870 dal titolo “L’agonia d’una Istituzione” indica che nulla è più fatale a una Istituzione morente della “crescente coscienza della sua inutilità: gli uomini seguono volenterosi l’autorità ma non un cadavere di autorità. L’Istituzione crede intanto di avere il Paese con sé; e al primo risorgere d’una opposizione, s’irrita, e inalbera apertamente una bandiera di resistenza. Quel giorno è solenne conferma della condanna, e i tocchi dell’agonia escono più frequenti e vibranti”.
Oreste Grani