La tragedia di Genova è la tragedia della politica italiana
Crêuza de mä – Fabrizio De Andrè
Umbre de muri muri de mainé / Ombre di facce facce di marinai
dunde ne vegnì duve l’è ch’ané / da dove venite dov’è che andate
da ‘n scitu duve a l’ûn-a a se mustra nûa / da un posto dove la luna si mostra nuda
e a neutte a n’à puntou u cutellu ä gua / e la notte ci ha puntato il coltello alla gola
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I porti sono un elemento chiave su cui fondare la sicurezza del Paese, o almeno dovrebbero esserlo. Lo sono innanzitutto per due aspetti, l’uno economico l’altro di ordine pubblico. Attraverso i porti passano infatti le merci e le genti, la linfa vitale di una nazione, linfa infetta, tuttavia, se gestita con intenti criminali o con colpevole pressapochismo.
I 1200 chili di cocaina sequestrati ad Aulla, provenienti dal porto di Gioia Tauro e sbarcati nel porto di La Spezia (leggi articolo) nell’agosto 2011, il disastro della Moby Prince nel 1991 al largo del porto di Livorno (vedi) e ultimo il disastro nel porto di Genova (maggio 2013) dimostrano la inadeguatezza di chi è preposto alla gestione di una infrastruttura complessa e delicata qual è un porto.
Il 21 marzo 2013 nel post Il fronte (illegale) dei porti si sconfigge con un Piano di Strategia di Sicurezza Nazionale affrontavo la questione sotto il profilo della legalità, riscontrando che fin dalla costruzione dei moli, delle banchine, degli edifici di servizio la gestione di un porto è nelle mani di consorterie criminali e politico affaristiche. Come posso stupirmi, allora, se una nave abbatte una torre alta 50 metri causando un numero di morti insopportabile per chi possiede il senso comune della giustizia.
Altrettanto grave è quanto riportato nell’articolo “Porti: ognuno fa per sé il caos costa 12 miliardi al sistema delle imprese” in fondo al post.
Dal testo apprendo (si fa per dire) che manca un coordinamento tra chi gestisce il traffico delle merci nei porti e chi organizza le rete ferroviaria cosicché, per esempio, vi sono delle gallerie che non consentono il passaggio di container data la loro dimensione. Leggo anche che è più conveniente far transitare le merci provenienti da Singapore attraverso il canale di Suez, lo stretto di Gibilterra, sbarcarle in un porto del Nord Europa e metterle su un treno per Milano, piuttosto che sbarcarle a Genova, dove i tempi di sdoganamento sono superiori al tempo che la merce impiega a percorrere il tragitto indicato.
Quando sento il Presidente del Consiglio Enrico Letta ribattere al genovese Giuseppe Grillo sulla questione degli stipendi dei parlamentari, piuttosto di occuparsi della rimozione di quanti hanno cusato il disastro genovese, penso che la inadeguatezza della classe politica abbia raggiunto livelli davvero allarmanti per la sicurezza del Paese. Tant’è, quanto era stato previsto sta accadendo, preparatevi al peggio.
Oreste Grani
P.S. Un plauso alla Cassa Depositi e Prestiti che ha promosso lo studio su cui si fonda l’articolo di Alessandra Carini.
Da allora, 2012, ci troviamo oggi Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi, PDL in quota CL (“C” sta per “cemento”). Lupi, che è stato padrino al battesimo di Magdi Cristiano Allam, è laureato in Scienze Politiche ad indirizzo economico, con una tesi su “l’introduzione del sistema editoriale integrato nel giornalismo quotidiano”, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Iscritto all’ordine dei Giornalisti della Lombardia dal 1984 come giornalista pubblicista, è socio Ferpi (Federazione Relazioni Pubbliche Italia) dal 1990 ed è membro di Comunione e Liberazione. Ergo, di infrastrutture non capisce una beata minchia (direbbe Cetto Laqualunque), ma non dubito che nella Compagnia delle Opere di formigoniana frequentazione qualche abile suggeritore su come garantire che accada l’ovvio che può accadere, lo troverà di sicuro.
Porti: ognuno fa per sé, il caos costa 12 miliardi al sistema delle imprese
Uno studio della cassa depositi e prestiti quantifica il conto della mancanza di qualsiasi coordinamento tra le oltre 20 autorità che decidono investimenti, priorità e strategie. Perdiamo competitività in europa e anche in africa
di ALESSANDRA CARINI
La Repubblica 8 luglio 2012Venezia Per far arrivare un carico da Singapore nell’industrializzato Nord Ovest in teoria conviene fare scalo a Genova, il più grande porto italiano. Si impiegano circa quattro giorni in meno di navigazione, di quanti ne occorrono se la merce venisse scaricata in uno degli scali del Nord Europa e portata al di qua delle Alpi. Eppure molte compagnie di navigazione privilegiano i porti nordeuropei perché i tempi, seppur più lunghi, sono certi e questo implica la possibilità di una più efficace programmazione logistica. Per attraversare il porto di Anversa ci vogliono dai 3 ai 5 giorni, per quello di Genova si oscilla tra 3 e 11, per coprire la tratta terrestre verso Milano il vantaggio di Genova è solo di un giorno rispetto ad Anversa. Risultato: se si stila un classifica di tutti i porti italiani si scopre che Italia c’è, all’ottavo posto, uno scalo, per così dire, “virtuale”, che batte bandiera straniera. Movimenta infatti 440 milioni di tonnellate annue di merci che partono e arrivano in Italia ma non passano per essa, bensì per i porti del Nord Europa più efficienti e affidabili. Mentre il Nord industrializzato, a Nordovest come a Nordest, subisce la concorrenza dell’Europa dei tre grandi porti, Anversa, Rotterdam e Amburgo, il Sud non se la passa meglio. Gioia Tauro, a lungo il primo scalo per il transhipment del Mediterraneo, che, in teoria, dovrebbe essere, per posizione, il centro delle nuove rotte Asia Pacifico, se la vede, insiemead altri porti meridionali come Taranto, con la spietata crescita di due scali, Port Said in Egitto e Tangeri in Marocco, che gli stanno erodendo quote di mercato, con i loro servizi a basso costo e infrastrutture all’avanguardia. Essere al centro geografico delle rotte di traffico, che un tempo bastava a determinare le fortune di un’economia, non basta più a vincere sugli altri Paesi. Anzi. “La perdita di competitività della portualità italiana è un danno non solo per il settore ma per l’intero sistema economico nazionale, non solo perché questo rappresenta il 2,6% del Pil ma anche perché è un elemento di competitività per tutto il sistema industriale”. A stilare questa amara sentenza, cui segue un voluminoso Rapporto di analisi e possibili vie d’uscita per farvi fronte è l’ufficio studi di uno dei centri di finanziamento delle infrastrutture italiane, la Cassa Depositi e Prestiti, in uno studio curato da Simona Camerano e Maria Elena Perretti. Ventiquattro porti, ognuno con i propri programmi di investimento scollegati l’uno dall’altro, con alle spalle infrastrutture di trasporto frammentate e senza alcuna priorità di realizzazione, rischiano di far perdere all’Italia una delle più importanti guerre commerciali, silenziosa, ma non per questo meno sanguinosa da un punto di vista economico, che si sta giocando in Europa. Già perché la sconfitta nella logistica, significa non solo la perdita di una posizione che è invece oggi di privilegio nei traffici, ma anche un costo per le imprese che ad oggi assomma ad un onere sui loro conti che supera i 12 miliardi di euro. Non che manchino le proposte di investimento. La Cassa ha messo insieme i programmi dei singoli scali nel settore container: se si realizzassero tutti si arriverebbe ad un aumento di capacità si 11 milioni di Teu in un Paese che ne movimenta 10. Un raddoppio non giustificato da alcunché, una follia. Manca invece un coordinamento, un piano che li collochi in una strategia comune, tagli i campanilismi, e riduca le immense inefficienze che governano. “E’ questo – dice Claudio Boniciolli, che ha speso una vita tra compagnie di navigazione e presidenza di Porti – il vero punto debole della logistica italiana: bisognerebbe oggi maledire le Regioni per il loro campanilismo e le Ferrovie per aver abbandonato le merci”. La competitività di un porto, come è ben delineato nello studio della Cassa, non la fa soltanto la posizione o una banchina in più, ma un insieme di interventi che spingano le compagnie ad approdarci. Anzitutto la certezza e la rapidità dei tempi. Nel Nordest che vive di export, la prassi è che operazioni di sdoganamento merci, nell’agroalimentare, possano arrivare a vedere gli operatori della filiera logistica costretti a presentare fino a 77 documenti diversi a 17 enti differenti. «In Olanda ci hanno costruito una pubblicità su questo per acquisire traffici», spiega Giulio Bresaola presidente della Confetra Nordest. Solo un caso? Non proprio. Le dogane non lavorano a turno continuo sulle 24 ore, come avviene all’estero, ma gli sportelli chiudono alle 18; i diritti doganali devono essere pagati solo con assegni circolari che vanno consegnati a mano in ogni singolo ufficio che ha seguito le operazioni. Lo sportello unico che doveva essere realizzato a luglio dello scorso anno è solo una chimera. «Nel resto dei porti europei i tempi di transito delle merci sono molto, ma molto più rapidi» riflette amaro il presidente di Confetra Nord Est. Alle spalle del porto c’è spesso un sistema di coordinamento delle infrastrutture che non funziona. “Il sistema logistico è oggi penalizzato da numerosi colli di bottiglia, dal ricorso eccessivo alla movimentazione stradale, dall’assenza di trasporto ferroviario più conveniente ed efficiente” dice lo studio. Investimenti, anche consistenti sui porti, possono così risultare inutili. Sulla direttrice ferroviaria Adriatica Bologna Lecce, ad esempio, la sagoma di una galleria ferroviaria impedisce il trasporto di container di grandi dimensioni penalizzando tutti gli scali, da Taranto in su. Nella zona a Sud di Udine, una ferrovia che è stata resa più moderna, come la Pontebbana, risulta sottoutilizzata a causa di alcuni tratti nei quali non possono passare treni ad alta capacità. Una situazione che penalizza lo sviluppo del porto di Trieste. Al Centro mancano i collegamenti tra sponda tirrenica e quella adriatica. Nel Nordovest fra la Liguria e l’alessandrino, che, se migliorati, potrebbero consentire la crescita di Genova e dei porti liguri. Ma alla fine se si riuscisse a superare tutte questi ostacoli che spazio ci sarebbe per l’Italia? Paolo Costa, presidente del Porto di Venezia, e tessitore di un’ardita ipotesi di investimento, con il concorso di capitali privati, che vede la costruzione di una gigantesca diga per l’attracco di grandi navi fuori dalla Laguna, mostra uno studio commissionato dai tre porti del Nord Europa, Amburgo, Anversa Rotterdam (che è bene ricordarlo movimenta da solo una quantità di merci pari a quelle di tutti i porti italiani messi insieme) per ribadire all’Europa la loro posizione strategica. Nello studio si danno poche speranze all’Italia nella competizione per le rotte Europa Asia: troppo piccoli i porti, non adatti ad accogliere grandi navi, e poi bisogna traversare le Alpi per portare le merci. Insomma meglio la rotta Anversa-Salonicco. “Eppure – dice Costa sorridendo e mostrando lo studio che presenta le occasione del sistema dei Porti del Nord Adriatico – c’è una zona contendibile che del resto è mostrata dal fatto che già le merci passano traversando le Alpi e comunque l’Europa ci ha dato ragione nel prendere in considerazione la centralità dei nostri porti a Nordest come a Nordovest ai fini anche dei Corridoi. Sta a noi creare le condizioni per sfruttarla facendo squadra tra i porti e permettendo l’attracco di grandi navi. Se vogliamo competere con il nord Europa è questa la condizione non abbiamo alternativa”. Ribadiscono gli esperti della Cassa Depositi e Prestiti: qualsiasi decisione che non prenda in considerazione il sistema portuale e logistico come un unicum rischia di trasformarsi in un’altra occasione persa. Quindi la condizione è che si individuino interventi prioritari, che rafforzino l’interconnessione dell’Italia nelle reti di trasporto europeo. Di soldi ce ne sono pochi e se non si attraggono capitali privati su progetti effettivamente bancabili, difficile che la sfida della realizzazione degli investimenti possa essere vinta.

Giuseppe Grillo ai funerali di Fabrizio De Andrè a Genova