Caro Papa Francesco, Eugenio Scalfari più che un ateo è un ladro di verità
Santo Padre,
Dio non prevede che Eugenio Scalfari sia perdonato. A meno che il “Direttore”, non si metta al servizio della verità. E, come saggiamente è stato detto da altri, “nella Verità…la Pace.”
Santo Padre, dal primo giorno del Suo pontificato (anzi, da prima del primo giorno) io tifo per Lei. Ma, rispettosamente, deve sapere che (soprattutto se nessuno ha ritenuto opportuno dirglielo) Eugenio Scalfari, fino ad oggi, si è tenuto per se troppe verità. Verità che non dette o dette in modo velato o fatte dire con modalità ingannevoli, hanno messo in moto interazioni tra uomini che tutto hanno generato, tranne la Pace. Anzi.
Ad esempio, il silenzio sulle dinamiche della morte del giovane Paolo Rossi, avvenuta nel lontano 1966, ha inaugurato, in Italia, una stagione di sangue che ha visto morire centinaia di giovani, spinti ad odiarsi per false contrapposizioni ideologiche di destra e di sinistra.
Eugenio Scalfari, come mi sono assunto la responsabilità di affermare nei post Eugenio Scalfari in morte dello studente Paolo Rossi: “Fascisti, comunisti, cattolici, socialisti, divisi da mille cose, ma uniti nel tentativo di falsificare i risultati delle elezioni” e Scalfari Contro Rodotà, tradisce Ancora Una Volta La Verità, pur conoscendo la verità, non fece nulla per fermare la strage. Anzi, con il suo autorevole silenzio, legittimò il massacro. Lei che può, gli chieda di dire agli Italiani chi gli impose il silenzio dopo l’articolo “Un crisantemo sul letamaio”. Con quello della Chiesa, avrà anche il mio di perdono e quello dei famigliari dei giovani uccisi se chiarisce quella “genesi oscura” degli anni di piombo che viene su, su fino al sacrificio di Aldo Moro. Cattolico, credente in Dio, a differenza dell’ateo Eugenio Scalfari.
Oreste Grani
EUGENIO SCALFARI IN MORTE DELLO STUDENTE PAOLO ROSSI: “FASCISTI, COMUNISTI, CATTOLICI, SOCIALISTI, DIVISI DA MILLE COSE, MA UNITI NEL TENTATIVO DI FALSIFICARE I RISULTATI DELLE ELEZIONI”
La scena dell’ormai anziano Oreste Scalzone che omaggia con pugno chiuso e canto dell’Internazionale la bara di Prospero Gallinari, mi evoca il recente funerale di Pino Rauti con braccia tese, baschi e “Presente” gridato intorno al feretro.
A Destra e a Sinistra ci sono responsabilità per la morte, negli ultimi cinquant’anni, di centinaia di giovani innocenti e di migliaia di episodi in cui milioni di individui hanno temuto di morire, per le proprie idee o senza alcuna idea, con il cranio fracassato, le ossa facciali devastate, le gambe amputate o in un rogo atroce.
Questo è il mio sentire odierno.
Torno indietro con la memoria a un episodio che colloco all’origine della strategia degli opposti estremismi che generò “una guerra civile a bassa intensità”: la morte dello studente Paolo Rossi avvenuta il 26 aprile 1966 presso l’Università La Sapienza di Roma.
Sotto la cenere la brace è accesa.
Oreste Grani
8 maggio 1966 la morte di Paolo Rossi
Un crisantemo sul letamaio
di Eugenio Scalfari
Dove sono i responsabili dei tragici incidenti? L’establishment accademico è una delle cancrene più gravi della nostra società
Un ragazzo è morto, il rettore dell’università di Roma s’è dimesso, otto facoltà sono state occupate dagli studenti, tutte le università italiane sono in sciopero, cinquanta professori hanno inviato un messaggio di protesta al presidente della Repubblica. Su tutto questo, e al di sopra di tutto questo, un’ondata potente d’antifascismo ha mosso l’opinione pubblica, superando le barriere di partito, superando gli stessi drammatici episodi degli ultimi giorni, ricordando a tutti che i titoli di legalità dell’Italia repubblicana non sono parole pietrificate negli articoli della Costituzione, ma forza viva che i giovani sentono come loro patrimonio non meno di quanto la sentono gli uomini della generazione che li ha preceduti, protagonisti delle lotte clandestine e della Resistenza.
Se questo è il bilancio morale e politico di un’aspra settimana che per certi aspetti ci ha riportato al luglio 1960, bisogna dire che esso è positivo. Forze nuove si sono messe in moto, energie che sembravano assopite si sono risvegliate, una partecipazione viva e fresca ha preso il posto delle asfittiche competizioni che anche nell’università avevano finito col rendere estranea la massa studentesca alle sue associazioni. L’occasione è dunque propizia per un discorso chiaro, che consenta d’individuare senza ipocrisia gli errori commessi in passato e di riprendere il cammino con nuova lena e maggiore esperienza. Anzitutto bisogna parlare dei fascisti nell’università.
Nelle pagine che in questo numero dell’Espresso dedichiamo agli avvenimenti culminati con la morte dello studente Paolo Rossi e con le dimissioni del rettore, sono diffusamente analizzate le cause della presenza fascista nell’università di Roma e dell’impunità che per anni è stata assicurata alle squallide imprese degli ultimi epigoni delle brigate nere. Sbaglierebbe tuttavia chi volesse addossare soltanto alle autorità accademiche la responsabilità di questo stato di cose. Esso ci riguarda invece tutti e non sarà così facile liberarsene fino a quando la verità non sarà stata interamente detta. Certo, il rettore dell’università avrebbe dovuto intervenire da anni. Certo, è inconcepibile che nell’università di Roma l’anniversario del 25 aprile non potesse venire degnamente ricordato. Certo, l’insensibilità di gran parte del corpo accademico testimonia del basso livello d’un gruppo che dovrebbe invece rappresentare la guida morale del paese.
Ma chi può dire che sia senza colpa un governo inerte da anni, incapace di promuovere quella riforma della scuola e dell’università che sarebbe l’unico serio antidoto contro il risorgere della violenza, dell’incultura, della rozzezza spirituale? Chi può dire che siano senza colpa gli uffici del pubblico ministero che, pur di fronte a vistose manifestazioni di fascismo, mai applicarono la legge e mai promossero l’azione penale come pure sarebbe stato loro stretto dovere? E chi può dire che sia senza colpa la stampa, questa stampa romana che s’è sempre distinta per la sua fiacchezza morale, per la sua volgarità intellettuale, per i suoi interessati silenzi, per la compiacente copertura e perfino per l’aperto sostegno ai gruppi fascisti, nell’intento più o meno esplicito di utilizzarli come puntello dei suoi disegni conservatori? Che Roma porti il triste primato d’Italia non è un fatto di poco conto. Ad esso abbiamo finito colpevolmente per abituarci tutti, anche se di tanto in tanto un amaro risveglio ce ne rende coscienti.
Dopo gli incidenti all’università di Roma l’opinione pubblica democratica e la massa studentesca hanno chiesto ed ottenuto le dimissioni del rettore Giuseppe Ugo Papi. Alcuni deputati, andando probabilmente al di là del giusto, l’hanno addirittura denunciato per omicidio colposo. E Papi, dimettendosi lunedì mattina dalla sua carica, ha risposto alle accuse con altre accuse. Qual è la verità? Papi è un fascista? È lui il solo responsabile di quanto è avvenuto? Papi non è un fascista. È meglio e peggio al tempo stesso. È un conservatore autoritario, nonostante la sua etichetta di liberale. È un uomo che per tredici anni ha governato l’università di Roma sorretto da interessi potenti annidati dietro alle cattedre più prestigiose, dove si amministra il vero potere universitario, si dispensano incarichi, si premiano gli amici e i clienti, si distribuiscono titoli e prebende. Questo establishment universitario è una delle cancrene più gravi della nostra società. Se la riforma della scuola non è ancora riuscita a passare, si deve in buona parte ad esso; se le nostre università si trovano nello stato miserevole che conosciamo, è ancora ad esso che bisogna guardare; se c’è ignoranza, superficialità, corruzione e perfino rozza violenza dove ci dovrebbero essere studio, disinteresse, civile tolleranza, è ancora esso che ne porta le più gravi responsabilità.
Papi è stato l’espressione di questo corpo accademico, dominato esclusivamente dalla preoccupazione di difendere ed allargare i propri privilegi di casta. In questo senso le sue dimissioni sono un passo avanti verso il rinnovamento dell’università italiana, a patto che il successore sia veramente il suo opposto e non qualche furbo personaggio che abbia fiutato il vento politico che tira oggi ed abbia in fretta indossato la casacca più conveniente. C’è infine un terzo tema particolarmente doloroso, del quale occorre tuttavia parlare francamente, senza false carità: quello dei brogli elettorali commessi nel corso delle votazioni universitarie e della decadenza e corruzione delle associazioni goliardiche. Vent’anni fa, tra le tante speranze e le tante promesse di costruire un paese migliore, ci fu la speranza e la promessa della democrazia studentesca. Doveva essere la civile palestra nella quale avrebbe fatto le sue prove l’Italia di domani, e lo fu per un certo periodo di anni. In essa si rispecchiò la parte migliore della nostra società, fu un modello di vita democratica, un esempio per i partiti, prefigurando l’immagine d’una società politica più moderna, più articolata, più colta e moralmente più intransigente. Ma ben presto anche questa speranza sfiorì, anche questa promessa andò delusa.
Le associazioni universitarie divennero nient’altro che il prolungamento dei partiti, la sede periferica per le lotte di corrente, un piccolo apparato burocratico per uomini politici in erba, già viziati dalle stesse tare e dagli stessi compromessi che caratterizzavano i loro fratelli maggiori. Così è potuto accadere che, mentre i giovani più seri e più entusiasti si battevano civilmente per affermare le proprie idee in una leale competizione elettorale, mediocri gruppi dirigenti di burocrati della giovinezza si mettessero d’accordo tra loro, al di là delle divisioni di partito, per truccare le schede e perpetuare i loro avvilenti giochi di potere. Fascisti, comunisti, cattolici, socialisti, divisi da mille cose, ma uniti nel tentativo di falsificare i risultati delle elezioni. Quale miserevole spettacolo! Quale avvilente situazione e quale responsabilità gravissima per i partiti che hanno usurpato la fiducia dei giovani ed hanno finito per corrompere anche la speranza d’una democrazia studentesca! Dall’incrociarsi di tutti questi errori e queste colpe, e non da uno d’essi soltanto, è stata causata la morte dello studente Paolo Rossi. C’è venuto in mente, scrivendone, il commento di Carlo Levi quando nel suo romanzo L’orologio descrive le dimissioni di Parri e gli intrighi che le provocarono e le seguirono: «Un crisantemo sul letamaio». A vent’anni di distanza, in proporzioni diverse e con diverso modo, quel commento è ancora il più calzante. C’è solo da sperare che giovani ed anziani ne traggano questa volta insegnamento per il futuro.