Nessun dorma! Stefania Limiti ci allerta sulla sorte che tocca a chi indaga sullo stragismo e sul “doppio livello”

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Mentre in troppi si impegnano a tenere l’opinione pubblica “avvinta” alla vicenda politico/giudiziaria del Gran Giocatore di Dadi Truccati, Berlusconi Silvio, nel silenzio assordante dei Governi Monti e Letta su temi quali il contrasto e le strategie per battere la criminalità organizzata e i “doppi livelli” che da sempre destabilizzano e rendono vulnerabile l’Italia, accadono vicende bituminose come quella su cui, giustamente e con gli opportuni toni preoccupati, richiama l’attenzione, la studiosa della materia, Stefania Limiti. È necessario non lasciare sola, in questa opera di costante informazione e formazione della pubblica opinione, l’autrice di “Doppio Livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia”, Chiarelettere. Il suo approccio, civile e culturale (denunciare, invitando al ragionamento), ha funzionato (promosso da altri nel web) perfino per la questione Siria.

Non vedo perché, non dobbiamo, prima o poi, vederlo trionfare nel necessario disvelamento dei troppi segreti che paralizzano la nostra Italia. Segreti che la rendono facile ostaggio della criminalità e preda geopolitica. Passate parola.

Oreste Grani

DIETRO L’OPERAZIONE DONADIO LO STOP ALLE INDAGINI SUL DOPPIO LIVELLO DELLE STRAGI?

di Stefania Limiti18 settembre 2013

All’interno della Procura antimafia i soliti vecchi e sporchi trucchi. La sorte che tocca a chi indaga sullo stragismo e sul “doppio livello”.

È ormai sotto gli occhi di tutti: all’interno della Procura nazionale antimafia è scoppiata una guerra intestina. Il magistrato che indaga(va) sulle stragi, Gianfranco Donadio, è stato fatto fuori (il neo capo della Procura, Franco Roberti, con una mossa che al momento appare incomprensibile, gli ha ritirato le deleghe), i verbali delle riunioni nelle quali Donadio metteva al corrente i colleghi delle sue ricerche sono stati messi “in vendita” al miglior offerente (chi li ha avuti si è pure illuso di aver fatto lo scoop). Anni di analisi, osservazioni, studi, perizie sui più tragici e inspiegati episodi di strategia delle tensione degli anni ’90, messi in piazza, come fossero pettegolezzi, derubricati a ‘teoremi’. Il suo nome, pure scritto male, finito sui titoli, come fosse dentro un mirino.

Non ci beviamo la versione di un nuovo scontro epocale tra magistrati: non è solo “cosa loro”… ed è bene ricomporre con molta pazienza il quadro di questa triste, niente affatto originale, vicenda. Qualcuno commenta, lontano dai riflettori, “siamo alle solite…”: come a dire, questa è la sorte che tocca a chi indaga sulla destabilizzazione ed entra nei suoi meccanismi interni. Lo abbiamo già visto in passato tante volte. Ad alcuni è andata molto male: ad esempio, Giovanni Falcone, ammazzato da una doppia mano, una mafiosa, l’altra occulta, perché sapeva troppo, anche degli apparati istituzionali e investigativi che lo circondavano.

La storia inizia quando un pentito calabrese, Nino Lo Giudice, decide di non pentirsi più e scappa: lascia un video che accusa pesantemente alcuni magistrati, tra cui anche Donadio, di aver usato metodi scorretti, di averlo costretto a fare nomi di persone a lui sconosciute, accredita l’esistenza di due tronconi di magistrati in lotta tra loro. Il video passa incredibilmente sui siti più importarti. Il piano evidentemente fallisce: non segue nessun terremoto, grazie anche alla riservatezza delle persone coinvolte. Ecco dunque la seconda puntata: un nuovo video del pentito, stavolta diffuso con assai minore cautela, torna a rilanciare le accuse ma già si sente che il terreno è troppo scivolo: Lo Giudice arriva a dire che Donadio gli avrebbe chiesto di accusare Berlusconi e Dell’Utri. Il tentativo di agganciare l’attenzione una più vasta opinione pubblica buttando sul tappeto quei nomi è tanto chiaro quanto sciocco: infatti non riesce.

A questo punto i registi “‘dell’operazione Donadio” cambiano strada: nel frattempo il superpentito Luigi Bonaventura, ex reggente della cosca Vrenna-Bonaventura, spiega che anche lui era stato oggetto di attenzioni da parte di uomini che gli avevano chiesto di partecipare ad una messa in scena per screditare i giudici. Bonaventura svela i retroscena della strategia dei finti pentiti, sapeva che ci stavano provando con Lo Giudice, che infatti ci casca. Il secondo piano d’attacco parte dall’interno della Procura: una talpa si “vende” i verbali delle riunioni nelle quali Donadio dà conto ai colleghi del suo lavoro. Anni di ricerche finiscono in pasto ai giornali insieme al racconto diretto o meno delle invidie e antipatie tra i magistrati: tutto in un unico grande calderone. Dai verbali si comprende che l’attenzione degli investigatori era rivolta alla ricerca della doppia mano che ha concorso, insieme a quelle mafiosa, a realizzare le stragi che hanno portato via due giudici antimafia e tante altre vittime innocenti e a destabilizzare il nostro paese negli anni bui della fine della prima repubblica.

Il vecchio e sporco trucco di discreditare chi tocca il “doppio livello” funzionerà anche stavolta? Cioè, dopo aver mandato via il magistrato che ha indagato, si fermeranno anche le indagini sulle stragi?

http://www.cadoinpiedi.it/2013/09/18/e_ormai_sotto_gli_occhi.html

Il 22 aprile 2013 pubblicavamo:

“DOPPIO LIVELLO” – DOPPIA BOMBA? UNA NOTA AL LAVORO DI STEFANIA LIMITI

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Dal profilo di Facebook della storica e giornalista Stefania Limiti, ho tratto una riflessione di Andrea Carancini (blogger a me non noto) dedicata all’ultima fatica letteraria della studiosa: Doppio livello. Come si organizza la destabilizazzione in Italia.

Alla fine del testo di Carancini troverete una nota e un interrogativo riguardante Vittorio Sbardella.

Il Vittorio Sbardella cui fa riferimento Carancini è personaggio più complesso di come si è sempre voluto raccontare – lo “squalo”, lo spregiudicato ex missino poi democristiano-andreottiano, il tangentista ante litteram, il vero re degli appalti romani, il finanziatore originario di Comunione e Liberazione e del setimanale “Il Sabato” – prima di diventare dirigente della DC, vicinissimo a Giulio Andreotti, e il primo elaboratore della teoria del “governo di larghe intese” o “governissimo”, utile a continuare, nella logica sbardelliana, a saccheggiare le casse dello Stato coinvolgendo quanto più è possibile l’opposizione di turno, Vittorio lo squalo, era stato legatissimo, per anni, all’ingegnere Enzo Maria Dantini, specialista universitario in arte mineraria. Dantini è sospettato (o forse un po’ più che sospettato) da Paolo Cucchiarelli nel libro inchiesta Il segreto di piazza Fontana, di essere coninvolto, come artificiere di alte capacità professionali, nella strage del 12 dicembre 1969.

Dantini e Sbradella, con sensibilità culturali diverse e stili di vita opposti, erano stati, da giovani, vicini al mondo militare che, impossibilitato, a volte, ad agire in prima persona esponendo così uomini dei reparti ufficiali, si affidava a civili patrioti per missioni speciali. In sintesi: Vittorio Sbardella ne capiva di esplosivi, di doppi e tripli livelli e di modalità con cui si può piegare l’avversario politico, intimorendolo.

Quando Andrea Carancini pensa che fosse opportuno interrogare Vittorio Sbardella riguardo alla strage di Capaci, pensa quello che penso anch’io da molti anni. Va quindi approfondito chi non volle farlo interrogare. Come i lanci di “Repubblica” di Lando Dell’Amico facevano intendere, lo Squalo sapeva quasi tutto su quelle stragi e i loro fini reconditi.

Oreste Grani

P.S. Lando Dell’Amico nasce a Carrara il 1° gennaio 1926. Aderisce alla Repubblica Sociale (R.S.I.) dal 1952 è giornalista al “Secolo d’Italia” (organo del M.S.I.). Passa al P.S.D.I. nel 1958 come giornalista a “La Giustizia”. Dal 1960 risulta essere agente d’ambiente e d’influenza del SIFAR.

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Andrea Carancini

Stefania Limiti, il Doppio Livello e i professionisti dell’antimafia

Da Paolo Cucchiarelli ricevo (via Facebook) e pubblico:

(ANSA) – ROMA, 16 APR – È un libro dedicato al “Doppio livello. Come si organizza la destabilizazzione in Italia” e uscito due giorni fa a delineare un nuovo scenario per la strage di Capaci. Uno scenario all’insegna delle ”false bandiere”, cioè della compresenza a Capaci di realtà diverse almeno, negli intendimenti e nelle modalità con cui la strage fu realizzata. Uno scenario doppio, ”a trappola”.

Oltre ad una attenta analisi dei ”pezzi mancanti” e di quelli ”eccessivi” nella strage del 1992 sul versante della stessa dinamica della esplosione, il volume scritto da Stefania Limiti e pubblicato da Chiarelettere riporta molte testimonianze di magistrati, come Luca Tescaroli, che ha indagato sulla strage del 1992, di Gianfranco Donadio, vice procuratore antimafia aggiunto, di politici, come Enzo Scotti ma anche l’affermazione choc dell’avvocato di Toto’ Riina, Luca Cianferoni e di un anonimo ma informato ‘gladiatore’ siciliano, un uomo ben addentro ai cosiddetti ”misteri siciliani”.

Luca Cianferoni, legale di Toto’ Riina, ipotizza una presenza ”altra” operativa nella strage di Capaci. L’avvocato del ‘capo dei capi’ afferma nel libro che ”la strage di Capaci è al 90 per cento di mafia, il resto lo hanno messo gli altri, per quella di via D’Amelio siamo al 50 e 50 per cento e per le stragi sul continente la percentuale scende vertiginosamente”.

La dichiarazione del legale è riportata nell’ultimo capitolo del volume, ”False bandiere a Capaci” , e l’autrice ricorda che già nel 2009 Riina, sempre tramite il suo legale, aveva ”ammesso di essere stato giocato” da qualcuno.

Il volume riporta anche le tesi del Pm Luca Tescaroli che ha parlato nelle sue sentenze su Capaci di ”rabboccamento” dell’esplosivo utilizzato sull’autostrada Palermo-Trapani e anche i dubbi a suo tempo maturati dall’ex ministro dell’Interno dell’epoca, Enzo Scotti, che subito dopo la strage sorvolò l’autostrada. ”Scotti ricorda che gli esperti facevano fatica a capire la dinamica, le modalità e con quali strumenti fosse
stato possibile cogliere l’istante del passaggio delle auto di
 Falcone e della scorta. Nello stesso capitolo si riporta 
l’intervista data dal procuratore antimafia aggiunto Gianfranco
 Donadio nel maggio del 2012 a Rainews (e visionabile su 
internet) nella quale il magistrato sintetizza così i fatti: “A 
Capaci c’erano due bombe”.
 L’uomo di Gladio, infine, spiega nel libro la sua lettura dei
 fatti [e ha] raccontato di quando si recava a pesca con la figlia
 piccola: ”Naturalmente – racconta – non era in grado di tirare 
su pesci e allora, per farla divertire, la armavo di canna con 
una lenza rivolta verso il basso e poi, sempre accanto a lei,
 gettavo in acqua la mia canna aspettando che la preda abboccasse
 alla mia esca. Appena sentivo che la mia canna si muoveva, 
cercavo di agganciarmi alla sua lenza così che lei potesse 
sentire il movimento e illudersi di aver pescato… quando 
tiravamo su era così felice che certo non distingueva le due 
canne … Mi creda – dice il ‘gladiatore’ all’autrice – quei 
poveri scemi piazzati nella casetta sopra la curva
 dell’autostrada credono davvero di aver compiuto un attentato 
con tutti i crismi della professionalità degna dei migliori
 artificieri militari operanti in un teatro di guerra … ma alla 
fine assomigliano molto alla mia bimba … non si sono accorti che
 altri, ben più all’altezza di tali situazioni, hanno fatto tutto
 con grande capacità, lasciando a loro solo l’effimera illusione 
di essere dei veri criminali … Credo – dice ancora – che questa 
tecnica sia stata applicata molte altre volte e che l’innocente 
inganno della canna da pesca possa spiegare non solo i segreti
 di Capaci”. (ANSA).

Personalmente, senza volere con ciò sminuire il libro della Limiti, mantengo le mie riserve sul conto di un magistrato come Luca Tescaroli. Mi sono sempre chiesto, infatti: come mai i magistrati incaricati della pubblica accusa per la strage di Capaci (Tescaroli era tra questi) all’epoca non convocarono, neppure come persona informata sui fatti, l’andreottiano Vittorio Sbardella dopo che, sull’agenzia “Repubblica” (da non confondersi con l’omonimo quotidiano), da lui controllata, venne pubblicata, per ben due volte, nei giorni immediatamente precedenti la strage, la “predizione” che ci sarebbe stato un “bel botto”? La citazione più completa del clamoroso episodio, la troviamo nella “Cronologia” curata da Vinciguerra per la Fondazione Cipriani.

21 maggio 1992

Sull’agenzia giornalistica “Repubblica”, diretta da Lando Dell’Amico, compare un primo articolo nel quale si commenta l’impossibilità di giungere ad un accordo fra i partiti per l’elezione del capo dello Stato: “C’è da temere a questo punto – si legge – che qualcuno rispolveri la tentazione tipicamente nazionale del colpo grosso. Le strategie della tensione costituiscono in questo paese una metodologia d’uso corrente in certe congiunture di blocco politico. Quando venne meno la solidarietà nazionale e il sistema appariva anche allora bloccato, ci ritrovammo davanti al rapimento Moro e alla strage della sua scorta. Non vorremmo che ci riprovassero: non certo per farci trovare un Andreotti a gestire ancora l’immobilismo del sistema (visto che i tempi sono mutati e Andreotti è politicamente deceduto) ma magari uno Spadolini e uno Scalfaro “quirinalizzati”.

22 maggio 1992

Sull’agenzia “Repubblica”, diretta da Lando Dell’Amico, compare un secondo articolo, dopo quello del giorno precedente (vedi nota), nel quale si scrive: “Avremo dunque la candidatura obbligata di Spadolini? Manca ancora perché passi in modo indolore questa candidatura del partito trasversale, qualcosa di drammaticamente straordinario. I partiti, cioè, senza una strategia della tensione che piazzi un bel botto esterno – come ai tempi di Moro – a giustificazione di un voto d’emergenza non potrebbero accettare di autolegittimarsi”.

Se ricordo queste cose, naturalmente, non è per accusare Sbardella (che, oltretutto, è pure defunto): lui, all’epoca, contrariamente a quanto fatto intendere molti anni dopo da opinionisti che vanno per la maggiore, la strage cercò di evitarla (fu la Cassandra della situazione). Lui, come andreottiano, non fu un carnefice: nonostante le sue entrature nei servizi, fu una delle vittime dei complotti dell’epoca!

Ricordo tutto ciò, invece, perché, come ha più volte scritto Vinciguerra, i magistrati che indagano sulle stragi, spesso e volentieri, si guardano bene dall’interrogare certe persone particolarmente informate sui fatti (colpevoli o innocenti – come è il caso di Sbardella – che siano)!