Fine delle larghe intese: meglio qualche “mazzata” che continuare a bere i fondi di bottiglia di Coca-cola e Wodka
Signor Presidente della Repubblica, le “larghe intese” non tengono più e volerle far tenere per forza, potrebbe essere un atteggiamento politicamente, culturalmente, socialmente “pericoloso” per la convivenza civile.
Presidente Giorgio Napolitano, si faccia da parte e lasci che le “larghe intese”, il “governissimo” vada in frantumi, liberando energia vivificatrice per l’esausta Italia. Il “neo-cattocomunismo”, pensato e voluto, principalmente, da Lei, ci ha asfissiato e resi, come cittadini e soggetti pensanti, limitatati da una mancanza d’ossigeno amico della vita e della Libertà. Rispettosamente, Le ripeto di farsi da parte, consentendo così, agli Italiani di contarsi. Anche traumaticamente. Anche se volerà qualche mazzata.
Vogliamo tornare ad essere parti che si contrappongono, piuttosto che poltiglia bituminosa, figlia dei fondi di bottiglie di Coca-cola e di Wodka. Sulla necessità, per Lei, ormai veramente e pericolosamente anziano, di prendere atto della fine di un’epoca di inganni, figli degli accordi di Yalta, ho scritto la mia il 9 aprile 2013 e, oggi, allarmato dalla gravità della situazione in cui, in troppi pre-potenti (da troppo tempo potenti), volete tenere la gioventù italiana, ripubblico i miei pensieri.
Oreste Grani
“LARGHE INTESE” O DITTATURA PARTITOCRATICA CATTOCOMUNISTA? IL 1976 E GLI ANNI DI PIOMBO
LA POLITICA È STATA DISTRUTTA DAL FANATISMO MORALIZZATORE DI GIUSEPPE GRILLO E DEL MOVIMENTO 5 STELLE O DAGLI OLIGARCHI ANNIDATI NELLE SEGRETERIE DEI PARTITI CATTOCOMUNISTI?
Signor Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il “semestre bianco” fu pensato e voluto dai Padri costituenti saggi (loro si!) e prudenti, per mille motivi. A sentirla ieri lodare le “larghe intese”, il compromesso storico, i governissimi e la cultura cattocomunista che li aveva generati, i Costituenti fecero benissimo. Lei, nel ricordare l’opera di Gerardo Chiaromonte, rimuove dal racconto il contesto socio-politico degli anni in cui avete operato. Troppa storia e troppe storie dimenticate. “Piccole storie necessarie per raccontare il passato prossimo dell’Italia” direbbero Giovanni Pellegrino, Claudio Sestieri, Giovanni Fasanella autori del libro “Segreti di Stato”, coraggioso testo, non a caso, sottotitolato: “Verità e riconciliazione sugli anni di piombo”.
Io che c’ero, ricordo bene, quelli di cui Lei parla, sono anche gli ‘anni di piombo’. Sono gli anni degli opposti estremismi, artatamente costruiti, con centinaia di giovani morti, invalidati permanentemente, sacrificati al cattocomunismo in un intreccio ancora oggi di difficile comprensione. Vittime, con altrettanti centinaia di servitori dello Stato caduti nella difesa di tutti noi e del dettame costituzionale. Tra l’altro, Gerardo Chiaromonte è morto un 7 aprile (1993) e, in molti, ricordiamo la complessità implicita in un altro 7 aprile, quello del 1979; quello delle grandi retate dei giovani estremisti dell’Autonomia; 7 aprile 1979 che viene appunto dopo, con i suoi torbidi momenti, alle “larghe intese” del 1976.
Lunga vita al Passato, signor Presidente! Lei non ha voluto o potuto aprire gli armadi. Lei non ci ha consentito durante il suo settennato di capire cosa fosse successo di sordido durante le “larghe intese”. Lo farà, obbligato da chi ormai è in Parlamento (il M5S) il suo successore. Altro che continuare a raccontare le favolette ai nipotini ingenui. È umano sperare di essere ammirati, negli anni futuri, per essere ripagati della scarsa considerazione in cui si è tenuti oggi da quelli che sanno come stavano le cose.
Cari pochi lettori di Leo Rugens, stiamo attenti agli ammiratori degli uomini, ormai passati a miglior vita, quando vogliono indicare, in essi, le fonti della qualità e i lumi della ragione destinati ad illuminare gli uomini, dove, invece, c’è solo il calcolo opportunistico e il compromesso. Per nulla storico.
Le “larghe intese” sono state, in realtà, quel fenomeno che dovrebbe andare, semplicemente, sotto il nome di cattocomunismo e che, evidentemente, per mille e mille piccoli e grandi interessi, in Italia è duro a morire. Così come sono duri a morire i gattopardi e i trasformisti. Una regola fondamentale dell’anti-democrazia, dell’anti-politica (ma Giuseppe Grillo dov’era a fare danni?), nelle decine di anni in cui anche Lei è stato un esponente della dittatura oligarchica cattocomunista, è stata quella delle alterazioni e deformazioni lessicali (prima ancora delle notizie) e l’uso distorto del vocabolario per nascondere i fatti e torlupinare la pubblica opinione. Ma non Leo Rugens forte di un solo elemento: lui, vivo e lucido, in quegli anni c’era. Le formule e gli anni di cui Lei è nostalgico e che vuole usare come esempio per il presente, furono contraddistinti, tra l’altro da una DC e un PCI avvantaggiati dal controllo sull’informazione che si erano opportunamente spartiti. Così la DC e il PCI, legati in un inconfessabile abbraccio, hanno trionfato.
Le notizie le hanno «gestite» loro e l’opinione pubblica è stata narcotizzata e Lei, era uno degli anestesisti. La guerra delle parole è stata vinta dai comunisti che hanno dominato la cultura con il dogmatismo rivoluzionario, l’ideologia dell’internazionalismo filosovietico e dell’appiattimento sociale. E i «vinti» (ma non aspettavano altro) sono stati i cattolici che si sono arresi intellettualmente, facendo leva anch’essi sul dogmatismo ma di segno religioso, fatto di sottomissione catechistica. Entrambi, nel gestire le notizie, si sono garantiti il rispetto del proprio elettorato esprimendosi con formalismo ideologico o religioso. Entrambi, con il loro connubio, hanno generato una prole ibrida, un individuo, un cittadino e un elettore a metà strada tra due modelli ben definiti: il comunista e il cattolico. Il risultato è stato un soggetto deforme, ma di grande «reputazione», un prodotto del regime: il cattocomunista.
Ma chi è stato ed è, oggi, costui? È una persona, degna di fiducia, attendibile, la cui opinione è sempre il frutto di una elaborazione politica molto «avanzata». È l’intellettuale, il quale emette giudizi ponderati e seri, profondamente morale e politicamente sicuro, sempre «progressista». Quando parla pontifica, quando fa una affermazione, è Vangelo. E il suo interlocutore, nel riferirla, dirà: «l’ho saputo da un amico fidato». È quello che, oggi in Italia, meglio d’ogni altro corrisponde all’espressione inglese: «Reliable!». Così, in quegli anni, al cattocomunista sono state aperte tutte le porte: le grandi imprese pubbliche, le banche, la pubblica Amministrazione, l’editoria, la radio e la televisione. È stata una vittoria completa che ha permesso anche una certa dose di generosità cristiana da parte dei vincitori: una vice presidenza di un ente a un liberale; la presidenza di una assicurazione a un repubblicano …
Un tale fenomeno politico ha trovato terreno fertile nella nostra storia. Il cattocomunismo, infatti, è il figlio preferito del trasformismo politico della sinistra italiana. Ma questa spiegazione non basta: c’è ben altro da dire. Il materialismo storico ci ha abituato a considerare gli avvenimenti politici alla luce dei conflitti socio-economici. Anche gli esponenti del capitalismo contemporaneo hanno dato il loro contributo critico in questa direzione. «Money makes the world go round» è il celebre motivo musicale che l’industria cinematografica, perfetta filiazione del capitalismo americano, ci ha fatto risuonare con tanta insistenza nei padiglioni auricolari. Ebbene, anche per quel fenomeno politico tipicamente italiano, ormai consacrato come «carro-comunismo», i presupposti, i precedenti, le ragioni reali, quelle che dobbiamo spiegare alla pubblica opinione, sono essenzialmente economico-finanziarie.
È un complesso fenomeno iniziato a metà degli anni ’70, si è sviluppato con i governi di solidarietà nazionale ed è ulteriormente cresciuto con la spartizione, la contrattazione, l’accordo politico e legislativo che DC e PCI, fuori e dentro il Parlamento, hanno perfezionato fino ad oggi. È vero, il cattocomunismo nostrano è figlio di una situazione di stallo politico (non vediamo l’analogia? Che minchia c’entrano Giuseppe Grillo e il M5S?): la netta contrapposizione formale tra maggioranza e opposizione, la mancanza dell’alternanza alla guida del Paese, il bipolarismo imperfetto, la democrazia bloccata. La situazione stagnante non aveva ricambio e, di fronte alla crescente minaccia del comunismo, la DC non aveva altre possibilità: bisognava convivere e cooperare con il PCI (PDL e PD?).
Il cattocomunismo nostrano, tuttavia, ha avuto origini più remote e di più vaste dimensioni internazionali, vale a dire: la netta contrapposizione delle due superpotenze, USA e URSS, la «confrontation» politica e militare tra capitalismo e comunismo, la minaccia del conflitto nucleare. Cerchiamo di ricordare insieme.
Prima ancora della Ostpolitik di Willy Brandt e con gli accordi Breznev-Nixon del 1971, le due superpotenze hanno iniziato quel processo di distensione politica ed economica che doveva rappresentare l’unica forma di convivenza internazionale per evitare la guerra atomica. Il mondo comunista e quello capitalista entrarono in rapporto sempre più stretto, collaborarono allo sviluppo economico internazionale offrendo, ciascuno, il proprio contributo peculiare: il capitalismo con la capacità d’iniziativa delle multinazionali e i finanziamenti delle massime banche mondiali; il comunismo con i vantaggi dei salari bassi, l’assenza di scioperi, i costi di produzione meno elevati e la ferrea disciplina dei regimi totalitari con milioni di morti sacrificati a questo disegno. Comunismo e capitalismo, però, rimanevano avversari ideologici, strategicamente contrapposti con, ciascuno, tanto di arsenale nucleare. AlIa morale protestante e capitalista, all’esaltazione del successo economico, e al trionfo dell’iniziativa privata, corrispondeva, sul fronte del comunismo sovietico, lo Stato autoritario, il partito comunista, il dogma politico, assieme ai servizi d’informazione, il controllo poliziesco della società, il KGB.
Per l’economia privata era un successo: si potevano fare buoni affari anche oltre Cortina; per il comunismo bisognava registrare una sconfitta ideologica temporanea, una battuta d’arresto nel controllo politico mondiale, una soluzione tattica del leninismo rivoluzionario sempre pronto a fissare delle «tappe storiche» per la conquista finale della «felicità» comunista per tutti i popoli oppressi. Così, le più grandi banche private del mondo (Morgan Guaranty Trust, Deutsche Bank, Crédit Lyonnais, Chase Manhattan Bank ecc.) finanziarono le più importanti multinazionali (Standard Oil, Shell Oil, GeneraI Electric, Siemens, Krupp ecc.) nello sviluppo della cooperazione economica con i paesi della Cortina di Ferro.
Il capitalismo occidentale aveva trovato un nuovo Eldorado: i lavoratori dei Paesi del Comecon, grazie al comunismo, costavano cinque-dieci volte di meno di quelli, ben protetti sindacalmente, dei paesi occidentali. Questo processo di cooperazione economica, contestuale e contemporaneo al processo di distensione politica, venne denunciato, nel 1978 (è l’anno in cui venne ucciso Aldo Moro), da un sindacalista canadese, Charles Levinson, che scrisse un libro, pubblicato in Italia dall’editore Vallecchi, con il simbolico titolo «Vodka-Cola». Le due più popolari bevande consumate dai russi e dagli americani venivano prese a simbolo di una impensabile mescolanza, un «cocktail» che, di fronte alla contrapposizione strategica USA-URSS e al dispiegamento di migliaia di missili con testata nucleare, suonava, in fondo, come una benefica contraddizione della politica internazionale e della Guerra Fredda.
La Chase Manhattan Bank, presieduta da David Rockefeller fu la prima, alla fine del 1973, ad aprire una succursale a Mosca. Poi vennero tutte le altre principali banche mondiali. Alla liberalizzazione del credito (che l’occidente concedeva all’URSS e a tassi d’interesse dell’1 o del 2 per cento) faceva seguito la realizzazione di tantissime iniziative industriali e produttive. Anche l’Italia venne coinvolta nel processo di «Vodka-Cola». Basti pensare alla Fiat di Agnelli, all’ENI, alla Montedison di Eugenio Cefis. C’era Lei in politica, signor Presidente non Giuseppe Grillo. Tutti gli accordi commerciali tra l’Italia e l’URSS avevano il pieno sostegno del Governo e, naturalmente, del PCI. È in questa fase che le “Botteghe Oscure” (mai termine fu più idoneo). Vodka-Cola segnò un’epoca e rappresentò una forma di colonizzazione dei Paesi del Comecon da parte dell’Occidente capitalista.
Charles Levinson ricorda che Lenin nel suo opuscolo, «L’imperialismo, fase suprema del capitalismo», citò il Crédit Lyonnais come tipico esempio di banca imperialista. L’ironia della storia – osserva Levinson – ha voluto che il Crédit Lyonnais fosse anche una delle prime Banche straniere ad aprire una filiale in un Paese socialista. Malgrado tanto interesse economico e politico, «VodkaCola» in Italia passò quasi inosservato: riproduceva, tra l’altro, un minuzioso elenco di coop comuniste, Spa, Srl ed altre società del PCI che prendevano le tangenti dalle operazioni commerciali delle imprese italiane in URSS.
Su «Vodka-Cola» calò il silenzio perché il compromesso storico DC-PCI ne sarebbe risultato in qualche modo danneggiato, il matrimonio politico tra due partiti ideologicamente contrapposti poteva disturbare il controllo sulla base elettorale di ciascuno dei due contraenti. Così, il connubio inconfessabile è rimasto fino ad oggi celato sotto un velo di ipocrisia nonostante Tangentopoli. «Vodka-Cola» è uno dei misteri d’Italia. Esattamente come Ustica o la bomba alla stazione di Bologna.L’opinione pubblica non deve sapere che cosa c’è dietro il cattocomunismo: altrimenti i voti al PDL e al PD chi glieli dà più? Gli italiani tutti rischierebbero di votare il MoVimento 5 Stelle.
Oreste Grani