Kant e la tragedia della scuola italiana

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La tragedia della scuola italiana viene da lontano e questa cruda realtà ci da poche speranze.
C’è chi ha fatto il militare a Cuneo (Totò) e chi, come Alberto Bosi, sempre a Cuneo, ha realizzato, nell’indifferenza delle autorità preposte alla pubblica istruzione, un impresa titanica, curando per i classici Utet una nuova versione della Critica del Giudizio di Kant. Era l’anno 1993 e ci avvicinavamo a rapidi passi all’irruzione nella scena politica e “culturale” del Paese del “berlusconismo”. Non tutto l'”azzeramento del merito” in Italia  è stata colpa di Silvio Berlusconi e della sua banda. Prima di lui in molti, si sono applicati per preparare l’attuale catastrofe della scuola italiana. Dagli archivi del “Corriere della Sera” (5 dicembre 1993) leggete questo articolo e, se ci riuscite, meditate:

Kant tradotto da ignoto

l frutto di tre anni di notti insonni è lì nello scaffale, con la sua bella rilegatura in tela blu e i fregi dorati. Alberto Bosi lo guarda quasi incredulo: “Mi ha fatto sputare sangue, dice. Quattro, cinque ore di lavoro al giorno, in aggiunta alle diciotto settimanali di insegnamento. Non le dico le tensioni in famiglia. A un certo punto mia moglie si è ribellata: “O me o Kant” mi ha detto. Per fortuna è una donna di spirito, e l’ha buttata sul ridere”. Bosi compirà cinquant’anni nel’94. Non è un intellettuale di grido, non scrive sui giornali e non è mai stato invitato da Maurizio Costanzo. Vive in disparte con i suoi tre figli in quel di Cuneo, dove insegna storia e filosofia al Liceo Classico “Silvio Pellico”, lo stesso dove ha studiato Giorgio Bocca. Bene: questo Provinciale, questo Signor Nessuno, zitto zitto ha compiuto un’impresa di sesto grado superiore, da far tremare le vene ai mostri sacri dell’Accademia. Ha tradotto la “Critica del Giudizio” di Immanuel Kant per i Classici della Utet, la gloriosa collana fondata da Nicola Abbagnano. La traduzione precedente, di Alfredo Gargiulo, risale al 1906, e fu poi riveduta da Valerio Verra nel Sessanta. Un professorino cuneese a tu per tu con il gigante di Könisberg, uno dei più grandi geni di tutti i tempi. Scusate se è poco. Ma voi credete che qualcuno, nell’ambiente scolastico, se ne sia accorto? Che Bosi abbia ricevuto una promozione, un aumento di stipendio, un’onorificenza, o anche solo un telegramma di felicitazioni dalla Jervolino? Macchè. Niente di niente. A parte i complimenti dei colleghi e degli allievi più affezionati, la cosa è caduta nell’indifferenza generale. Quasi che tradurre Kant rientrasse nel normale mansionario di ogni insegnante. Bosi allarga le braccia rassegnato: “Il fatto è, dice, che non esistono collegamenti seri tra la cultura che si fa a scuola e la cultura accademica. Noi come insegnanti di liceo potremmo scrivere la Critica della Ragion Pura e metterla in un cassetto. Siamo completamente tagliati fuori. L’istituzione non solo non ci dà incentivi, ma addirittura scoraggia attivamente la ricerca. Le pubblicazioni non hanno nessun effetto sulla carriera, si va avanti solo per anzianità . Anzi, in un certo senso, se uno fa qualcosa di importante sul piano intellettuale quasi quasi è meglio che non lo dica in giro. Viene visto come un disturbatore, un vanitoso, uno che pensa soltanto a mettersi in mostra”. Così funziona Jurassic School. Altro che presidi manager, altro che privatizzazione: dopo trent’anni di riforme mancate, i nostri licei sono il regno della mediocrità , del livellamento burocratico. L’apoteosi degli ignoranti e degli scansafatiche. A Cuneo il movimento degli studenti non ha fatto presa, ma Bosi non lo vede con simpatia: “Ancora una volta, come con la Pantera, questi ragazzi stanno prendendo un grosso abbaglio. La riforma non sarà perfetta, ma è un primo passo verso il cambiamento. Adesso ho tanta paura che dopo queste proteste non se ne farà più nulla. Ripiomberemo nell’immobilismo di sempre”. Bosi ha una formazione cattolica, è stato militante della Fuci. Ha studiato a Torino con Pietro Chiodi, con Nicola Abbagnano e con Luigi Pareyson: tesi di laurea sul Cardinale Newman, il celebre teologo anglicano dell’Ottocento, che dopo essersi convertito ricevette la porpora da Leone Tredicesimo. “Newman era un religioso molto “laico”, dice Alberto Bosi, che ha anche curato un’edizione dei suoi scritti per la Utet, che affrontava in modo spregiudicato i problemi culturali della Chiesa del suo tempo”. E Kant? “Kant è meno laico di quanto si creda. Come dice Vittorio Mathieu, è un grande filosofo cristiano, forse il più grande di questi ultimi due secoli e mezzo. Non un cristiano ortodosso, ma un pensatore che cercava la verità partendo e arrivando al cristianesimo. La stessa sua visione dell’uomo come un’entità intermedia tra animale e divinità è un tema cristiano fondamentale, che Kant interpreta con straordinaria fecondità”. Ma c’era proprio bisogno di una nuova traduzione della “Critica del Giudizio”? Non bastava quella pubblicata da Laterza quasi novant’anni fa? “Riletta oggi, quella versione porta i segni del tempo che è passato, anche se Verra ha operato una serie di aggiustamenti formali. Io ho cercato soprattutto di lavorare sullo stile, sul rinnovamento della lingua, sulla fluidità dell’esposizione. Mi sono sforzato di ristrutturare almeno in parte il periodare di Kant. Non mi illudo di esserci riuscito”. È un filosofo oscuro, Kant? “Sa che cosa diceva Gargiulo? Che Kant “pensa scrivendo, ma non pensa a scrivere”. Nella sua prosa non c’è, come in Eraclito o in Hegel, la ricerca dell’aforisma, della condensazione estrema e un po’ ermetica. C’è invece la difficoltà oggettiva di un pensiero che lotta continuamente per definire i propri limiti: l’orizzonte trascendentale. È un continuo annodare e riannodare di fili, che complica enormemente il linguaggio. Ricorda un po’ la differenza tra il lavoro a maglia e il lavoro a telaio. E poi, la “Critica del giudizio” occupa un posto così centrale nell’opera di Kant che non si possono ignorare i collegamenti con le altre Critiche, e gli scritti minori”. Insomma, un lavoro enorme. Avrà avuto meno tempo per i suoi studenti del liceo. “No. Non sono mai venuto meno ai miei doveri, anche se è stata dura. Avrei avuto bisogno di andare a Berlino, a Stoccarda, a Francoforte a consultare delle biblioteche, ma il nostro contratto non prevede queste cose. Per cui ho dovuto ricorrere a complicati stratagemmi, telefonando ad amici in Germania perché mi facessero le fotocopie. È assurdo: all’universitò ci sono i sabbatici, e molti professori sono più spesso in sabbatico che in sede a far lezione. Noi insegnanti di scuola media siamo incatenati al remo anche quando avremmo vitale bisogno di studiare”. Il suo non sarà da considerare come un caso limite? “Niente affatto. Conosco molti colleghi che sacrificano gran parte del loro tempo all’approfondimento e alla ricerca. Non dico che siano la maggioranza, ma certo una minoranza consistente, mettiamo uno su dieci”. Purtroppo lo status giuridico degli insegnanti, qui in Italia, è costruito su misura per gli altri nove. “Guardi, io ho viaggiato molto all’estero, sono anche stato lettore di italiano in un’universita’ della Scozia. E le posso dire che, quanto a personale, la nostra scuola non teme confronti. Sono le strutture che versano in condizioni vergognose. Lo stesso discorso vale per l’università. Nei nostri atenei ci sono studiosi di primissimo ordine, ma lavorano porta a porta con degli emeriti somari, che hanno la stessa targhetta e lo stesso stipendio”. Ci vorrebbe, a questo punto, un po’ di sana meritocrazia. “Ne basterebbe una dose ragionevole: non occorre diventare reaganiani. Prenda il mio caso. Qualche hanno fa ho partecipato al concorso per il dottorato di ricerca in filosofia a Torino, e l’ho vinto. Dopo di che, visti i regolamenti, ho deciso che non potevo farlo. Mi davano settecentomila lire al mese e dovevo rinunciare all’insegnamento. Per quattro anni. E i miei figli come mangiavano? Andavo a chiedere l’ elemosina? Io mi sarei accontentato di poter avere accesso all’università anche solo due settimane l’anno, per partecipare a qualche seminario, mantenendo il mio incarico al liceo. O in alternativa essere messo in aspettativa con lo stipendio da insegnante: magari anche un po’ di meno, ma non settecentomila lire. Niente da fare. Ho sbattuto il muso contro una barriera giuridica insormontabile e mi sono dovuto arrendere. La rigidità dell’amministrazione, la sua incultura, fanno sì che il tempo speso per l’aggiornamento professionale venga considerato tempo perso. La scuola italiana è una sconfitta dell’intelligenza”. È pentito di aver scelto questa professione? “No, a me piace molto insegnare. Per anni non ho fatto altro. Solo che alla fine mi sono scoperto piu’ ignorante di quando ero uscito dall’ università. Ecco perché ho deciso di mettermi alla prova, di cimentarmi con Kant. Adesso che l’ho fatto, sento di insegnare meglio di prima”.

Riccardo Chiaberge

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