“Umiltà”, ovvero la dimensione necessaria di un Intelligence culturale
Più di sette anni addietro (ottobre 2005- novembre 2006), presso gli uffici di Piazza San Lorenzo in Lucina dove era insediata una delle strutture (Kami Fabrica di idee) nate per incubare il progetto che per semplicità ho chiamato, per voi lettori, Strategia di Sicurezza Nazionale, già trattavo, con i collaboratori che mi apparivano più promettenti, la materia che definisco “Intelligence culturale” e di cui mi interesso, “da sempre”. Forse è ora di definire, per chiunque nell’ombra o nei meandri elettronici continui ad interessarsi improvvidamente di me e delle persone a me care, cosa intendo quando dico, “da sempre”. Come ho raccontato altre volte, mai smentito, il “da sempre”, è dal novembre del 1968 (quarantacinque anni compiuti!) perché, è in quelle giornate che fui iniziato al complesso mondo dell’Intelligence, da Carmine Mino Pecorelli, in Via Tacito 50 a Roma e da persona a lui vicina che, risultandomi ancora in vita, non cito.
Perché (annoiandomi un po’), dedico il tempo prezioso di un uomo anziano, quale ormai sono, a questo racconto e a queste circostanze? Semplicemente perché mi giunge notizia che, nel vuoto spinto che alcuni hanno scelto di frequentare (forse immaginandoselo più “concreto” del mondo che un pre-figuratore, un po “troppo patriota”, poteva offrire), “questi qualcuno”, non perdono l’occasione di stare zitti su circostanze complesse (!) e di esclusiva pertinenza della Comunità. Anzi, mi risulta che, senza pudore, rivendicano primogeniture di scritti ed elaborazioni concettuali. Per denigrarmi arrivano a formulare analogie del sottoscritto con personaggi, oggi scomparsi, ma le cui azioni in vita tutto possono ricordare, tranne la mia riservatezza. Riservatezza che “coltivavo” e “praticavo” almeno fino a quando il perfido Amalek, il 14 febbraio 2012, non mi ha costretto, diffamandomi, a difendere il mio onore e, cosa peggiore, mettendo a repentaglio la sicurezza, non tanto mia, quanto quella della mia famiglia.
La frugalità del mio stile di vita, l’assenza assoluta di ogni accumulo di ricchezze, personali e dei miei cari, le estreme difficoltà in cui ho dovuto far sopravvivere i criteri informatori del necessario cambiamento del paradigma culturale che ha sempre condizionato i Servizi di Sicurezza del nostro Paese, sono e saranno sempre i buoni e credibili testimoni che, in qualunque momento fosse necessario, mi soccorreranno a smentire nemici interessati della Repubblica e della democrazia e quei “deboli di fede” che, coscientemente o improvvidamente, continuano ad offendermi con questi accostamenti. È questo trattamento ritengono di potermelo riservare, dopo aver scelto, nei momenti drammatici vissuti, la condivisione della strada coi i calunniatori, i violenti, i propagatori della massima forma di calunnia che si possa proferire nei miei confronti: accusarmi di essermi appropriato di ciò che non mi spettava e che, anzi, era di altri. Come avete capito pochi, attenti e affezionati lettori della prima ora di Leo Rugens, posso accettare di tutto, ma non che, me ancora vivo, si provi a fare scempio di Verità. Ogni pensiero attinente l’Intelligence culturale è stato, nei quarantacinque anni di cui ho parlato, prodotto da me grazie, certamente alla intelligenza e la ricchezza culturale che ho saputo scovare in tanti collaboratori che, non a caso, ho sempre definito “vanghe dalla punta d’oro”. Quando negli anni ho coperto il nome di un collaboratore, come ho detto mille volte anche in Leo Rugens, l’ho sempre fatto per proteggerlo da danni futuri. L’accostamento con il mio nome, soprattutto dopo il 14 febbraio 2012 e le troppe cene offerte da “professioniste” del Grande Gioco a dilettanti dei “grovigli sentimentali e delle maldicenze”, sarebbe stato deleterio per chi aveva da sempre necessità di comparire più che essere. Chiudo qui, determinato a non subire nessuna forma di pressione esplicita o larvata. Nel ribadire che nella vita ho avuto altro da fare che appropriami dell’opera dell’ingegno di altri, colgo l’occasione per affermare, ultimo romantico statalista, che considero tutto quello che è stato “prodotto”, con me, grazie a me o al mio saper agire, anche in modo estremamente spregiudicato, della Repubblica Italiana. Senza eccezione alcuna.
Tutte le persone che mi hanno frequentato e che hanno interagito, chi in semplicità, chi in modo complesso, con la progettualità legata alla problematica afferente la Scuola di intelligence che avrei voluto creare e donare al mio Paese, hanno sempre saputo che si agiva per la Repubblica e solo per la Repubblica, in rispetto del dettame costituzionale. Le “cose” mie, tue, nostre, vostre, loro le lasciamo ai mafiosi (e la “cosa” non dovrebbe riguardare nessuno di noi) e ai cittadini smarriti, senza Patria. Noi rimaniamo senza beni, materiali ed intellettuali, fino alla Morte. Anche perché, cari e affezionati lettori, sostenevo, anni prima che Papa Francesco lo affermasse, che ” le bare non hanno tasche”. Lo dico con il massimo rispetto del Grande gesuita, un po’ francescano che molto autorevolmente ha affermato recentemente che “i sudari non hanno tasche”. Dico tutto questo per amore di Verità. Come, altrettanto, dicevo che “nessuno deve rimanere indietro”, prima che lo dicessero gli esponenti del M5S, per il semplice motivo che questa espressione è patrimonio della “Fratellanza mazziniana”, da più di duecento anni. Dico questo nella speranza di non dover scoprire che qualcuno dei contemporanei ritiene di potersi appropriare anche di queste espressioni, rivendicandone il copywrite.
Oreste Grani