Basta! Cominciate a chiedere al Web, oltre a “quanto si guadagna”, “cosa” si dovrebbe fare nei servizi segreti e soprattutto “come” si può servire l’Italia

  Gillo Pontecorvo

Come riferisco da tempo, non passa giorno che qualcuno non chieda, al disponibile web, “quanto si guadagna nei servizi segreti”. Da mesi do il mio contributo a questa ossessiva e interessata curiosità, argomentando sulla complessità della materia e degli ambienti che la gestiscono. Oggi provo a porre il problema, sperando così di aiutare tanta ingenuità a trovare risposte necessarie prima di provare a candidarsi a tale missione, di cosa sia necessario elaborare, nel proprio inconscio, prima di “fare domanda”. Ad esempio, ai miei superficiali “disoccupati”, suggerisco di chiedersi, oltre “quanto potrò guadagnare”, “cosa” sperano di andare a fare e, soprattutto, “perché”. Partiamo da delle considerazioni legate al “perché” e all’interesse nazionale, elaborate dal giudice Rosario Priore, di cui vi ho, tante volte, dichiarato la mia profonda stima. In una articolata intervista rilasciata e raccolta da  Giovanni Fasanella perché divenisse un libro (Intrigo Internazionale di Giovanni Fasanella e Rosario Priore, edizione Chiarelettere), Priore, a proposito di “interesse nazionale” e “ragion di stato”, ci offre questi stimoli:

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“…Ma che cos’è in realtà la «ragion di stato»? Può darmene una definizione?

La definizione più sintetica ed efficace resta quella dei Romani: la salvezza della Repubblica, la salus rei publicae che genera la legge suprema, ovvero suprema lex esto. Si tratta di una norma metagiuridica che pone a suo fondamento e suo fine un bene che è condizione sine qua non per l’esistenza e la fruizione di tutti gli altri. Del resto, in una recente sentenza della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi su un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato – tra la presidenza del Consiglio e la magistratura milanese -, si afferma, con estrema chiarezza, proprio questo antico, ma sempre valido principio romano: tutto quanto tocca la salus rei publicae è escluso da qualsiasi sindacato giurisdizionale. 

Però, mi scusi, il concetto di «salute pubblica», in Italia, non è proprio chiarissimo.

Giusto. Perché in Italia appare un concetto molto relativo, di durata effimera, dipende dai regimi e dalle maggioranze politiche. A differenza di quello che succede in altri paesi democratici dell’Occidente. Negli Stati Uniti, per esempio, il concetto di «salute pubblica» dura dalla proclamazione dell’indipendenza. In Francia, Gran Bretagna e Spagna forse da qualche secolo in più, dalla nascita dei rispettivi stati unitari nazionali o di forti confederazioni nazionali.

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Essendo il nostro un paese più giovane, con una struttura statuale più fragile, il concetto di «salute pubblica» è assai più relativo?

Direi addirittura sfuggente. È il segno di un paese incompiuto perché dal 1861 non ha ancora raggiunto gli obiettivi primari di una comunità nazionale, quali la creazione di una classe dirigente omogenea e preparata ad affrontare le realtà del mondo contemporaneo, la saldatura degli interessi economici, una durevole politica estera basata sulle costanti di geopolitica della nostra penisola. In altre parole, siamo ancora tremendamente provinciali. Lo Stato è purtroppo lo specchio di una comunità arretrata che ha sempre ispirato i suoi comportamenti a una moralirà – anzi, amoralità che spesso travalica nell’immoralità e nell’illegalità – di partito, di fazione, di contrada, di «famiglia», di clan anche criminali. Da noi non si comprende il significato di cittadino, tanto meno scorgiamo bons citoyens, come si vedono in tutti i paesi d’Europa e da secoli.

E allora su che cosa si fondano la «ragion di stato» e la nozione di «interesse nazionale» in un paese come il nostro?

È difficile dirlo, perché essendo il nostro un paese giovane, «a recente democrazia», e quindi più immaturo e fragile di altri, e per di più non autosufficiente quanto a risorse, il contenuto del concetto di «interesse nazionale» è determinato dalle necessità economiche (e dai capricci dei detentori delle ricchezze), dagli schieramenti e dalle alleanze sovranazionali. Quindi è un concetto mutevole, soggetto a frequenti variazioni. Di conseguenza, anche quello di «ragion di stato», dal momento che non è altro che la tutela dell’interesse nazionale.

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Ma necessità economiche e alleanze politico-militari, come abbiamo visto, nella storia italiana anche recente sono due elementi molto spesso in conflitto tra loro.

È proprio questo il punto. Qui si determinano le rotte di collisione. La definizione del concetto di «ragion di stato» e di «interesse nazionale», che negli altri paesi – lo ribadisco – è ancorata a costanti storiche geopoliriche e quindi a grandi disegni strategici, da noi dipende dal mutare degli uomini di governo e dalle condizioni politiche del momento. Per cui, spesso, a determinarlo è persino il prevalere di interessi di correnti o di consorterie o di lobby. Quindi il nostro interesse nazionale appare di natura effimera, quasi caduca, tanto da non meritare di essere considerato dalla storia, bensì solo dalle cronache.

Ma nonostante la loro mutevolezza, «ragion di stato» e «interesse nazionale» restano concetti metagiuridici, al di là del diritto?

Certo, sono concetti squisitamente politici e quindi metagiuridici, non deducibili dal corso di un affare giudiziario. Lei si immagina un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni che si permettesse di valutare le linee di politica estera, finanziaria e militare del proprio paese? O addiritrura di uno stato estero?

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 Però può farlo quando quelle linee generano reati. O no?

Questo è il punto dolente, che il legislatore dell’ultima riforma dei servizi di informazione, quella entrata in vigore nel 2008, ha tentato di risolvere, elencando una serie di condotte «non punibili» se opera di uomini dei servizi nell’esercizio delle proprie funzioni. Per sua natura, un servizio di informazione agisce, deve agire anche in un ambito di illiceità: sottrarre un documento, falsificarne altri, violare domicili privati, sedi diplomatiche di altri stati, intercettare comunicazioni telefoniche e radio, corrompere fonti a tutti i livelli per ottenere informazioni e via elencando. Sono tutte operazioni «non bagnate», in cui non scorre il sangue, che ogni servizio segreto che si rispetti deve necessariamente eseguire. Ma non dimentichiamo che ci sono paesi occidentali di antica tradizione democratica, più antica e solida della nostra, che ammettono, tra le attività dei propri servizi, anche «operazioni bagnate», in cui è consentito mettere a rischio, in casi estremi, l’incolumità e la vita delle persone.

Fino a qui, Rosario Priore.

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Più modestamente, ribadisco  che, senza aver chiaro il fine ultimo (servire il Paese e non il dio denaro!), è inopportuno avvicinarsi “all’arte del saper dire di no“, ovvero, l’intelligence culturale. Perché, di questo si tratterà (saper dire di no!), nei prossimi anni, nell’ambito della necessaria ricostruzione del Servizio: rinunce, rinunce e ancora rinunce. Un servizio che dobbiamo augurarci, sempre meno segreto, sempre più “intelligente e colto” e, soprattutto, meritocratico. Ma, come diceva quel genio del ministro Tremonti, con la cultura non si fanno i soldi. Per questo, lui, i suoi frequentatori e stretti collaboratori, con i “servizi segreti” si davano da fare, poco per l’interesse nazionale, la ragion di stato e molto per i “cazzi propri”.

Oreste Grani