Non tutte le “multinazionali” sono uguali. Non sempre lavorare per loro è sinonimo di abilità professionale. Anzi…
Oggi entro nel merito di una realtà dell’uso formativo e quindi, a volte, strategico, dei cosiddetti “business case”. Lo faccio per rispondere, implicitamente ad una mia esigenza personale (con quello che ci si adatta a fare quotidianamente, vuoi vedere che uno, senza accorgersene, si sta sporcando, veramente, le mani?) ma anche nel tentativo (ingenuo o inutile?) di suggerire, a chi ne sentisse la necessità, spunti di riflessione su “chi sono” e da “dove vengo”.
Il racconto, a cui sono stato tirato per i capelli, delle mie esperienze di vita e professionali ha lasciato nell’ombra il fatto che sono stato, moltissimi anni fa, un (come si chiamavano allora), “personal manager” della Rank Xerox, multinazionale americana. Forse, sono stato il più giovane “personal manager” d’Italia (era il 17 settembre 1973 quando mi insediai a Napoli e sono, del 1947) di una azienda di quella qualità e patrimonio imprenditoriale. La Rank Xerox serviva, solo in Italia, 29.000 clienti (noleggiava “tecnologia sofisticata” financo alla VI Flotta-Usa che stazionava nel Mediterraneo) ed era classificata azienda metalmeccanica.
Torniamo ai business case. Ho conosciuto, da dentro, meccanismi formativi e addestrativi che all’epoca erano considerati all’avanguardia: erano i primi anni ’70, l’autunno caldo e lo Statuto dei Lavoratori (Legge 300) avevano rivoluzionato il mondo del lavoro. Personalmente avrei preferito aver conosciuto il geniale Adriano Olivetti ma, mi accontentai (si fa per dire, perché sto parlando di un vero “numero uno”), come Direttore della Formazione a cui fui “sottoposto”, di Dante Bellamio. Ho avuto il privilegio e la buona sorte di essere formato da un vero genio della “cultura”, usata come strumento strategico per fare e far fare, lecitamente ed eticamente, profitto. Scavando quindi nel mio passato (40 anni addietro), trovo business game, business case appresi con tecniche di roll play con telecamere a circuito chiuso che, ancora oggi, sembrerebbero strumenti evoluti. Mi dilungo in questi dettagli perché spero si deduca, da questi spunti autobiografici, che l’incursione che mi preparo a fare nel cosiddetto mondo concreto e degli affari, poggia, per quanto mi riguarda, su basi scientifiche e di esperienza personale. Gia all’epoca, nel mio agire per formare, on the job, le donne e gli uomini che mi venivano affidati, usavo spunti didattici presi da film di successo o di particolare valore culturale. Così faccio oggi provando a lasciare, nell’amica rete, messaggi valoriali espliciti per tutti, impliciti per alcuni, in bottiglie di vetro trasparente, per chi si sentisse sicuro navigante ma, dico io, visti i tempi e la complessità degli avvenimenti, possibile naufrago.
Il primo film che suggerisco è Insider, un caso di etica applicata. Jeffrey Wingand lavora come capo ricercatore e dirigente alla Brown & Williamson, azienda produttrice di tabacco. Quando decide di non poter più rimanere in silenzio di fronte alle manipolazioni cui assiste, Jeffrey viene messo di fronte ad una situazione irreversibile: o si adegua e resta o perde il posto. Nel maggio del 1994, lo Stato del Mississipi, insieme con altri 49 Stati americani, decide di intentare una causa contro le sette principali industrie americane di tabacco, chiedendo un risarcimento per le spese mediche sostenute da milioni di persone, affette da malattie provocate dal fumo. Nello stesso anno Lowell Bergman, fumoso produttore di un programma di attualità chiamato 60 minuti (trasmesso dalla CBS), bisognoso dell’aiuto di uno scienziato che decodifichi alcuni documenti riguardanti la Philip Morris, entra in contatto con Wingand. L’uomo rivela al giornalista che le multinazionali aggiungono al tabacco sostanze tossiche (soprattutto una sostanza chimica chiamata cumarina) che, vengono utilizzate, oltre i limiti del consentito, per provocare assuefazione nel consumatore. Lowell convince l’uomo a testimoniare contro le industrie del tabacco nel processo intentato dagli Stati americani alle multinazionali e gli propone di registrare un’intervista per il suo programma. I due uomini, soli contro tutti, ingaggiano una dura battaglia contro il potere delle multinazionali. Da quel momento la loro vita cambia: Wingand viene abbandonato dalla moglie, diffamato, arrestato, minacciato di morte. Lowell non riesce a mandare in onda la sua intervista, a causa delle pressioni della CBS sui produttori dello show e si licenzia. Malgrado tutto, Wingand testimonia contro la sua ex società, diventando il testimone chiave di un processo, conclusosi con un accordo nel quale le multinazionali del tabacco si sono impegnate a versare un indennizzo di ben 246 miliardi di dollari alle vittime.
Da questa storia (assolutamente vera e raccontata benissimo in un articolo di Marie Brenner, apparso su Vanity Fair) è stata tratta la sceneggiatura di Insider. Il film è un instant movie, duro e affascinante che si può tranquillamente considerare come uno dei capolavori indiscussi della cinematografia americana degli ultimi dieci anni.
Il film ripercorre i sei anni cruciali (dal 1993 al 1999) della vita di Jeffrey Wingand e di Lowell Bergman. Due personalità antitetiche (un intellettuale newyorkese e un uomo del profondo sud americano) eppur vicine, costrette, dagli eventi, a sostenersi e a combattere fianco a fianco. È anche la storia in cui l’etica personale dei protagonisti si incarna in una battaglia per la giustizia.
Altro esempio su cui riflettere è The Corporation. Il film è tratto dal libro di Joel Bakan, professore di diritto alla University of British Columbia, Vancouver in Canada, The Corporation: La patologica ricerca del profitto e del potere. La tesi, dimostrata mediante l’esplicazione di esempi realmente accaduti, è che le società di capitali (le “corporation”) sono autorizzate dalla legge ad elevare i propri interessi su tutto e tutti senza porsi alcun limite né pratico né tanto meno morale. Il raggiungimento a tutti i costi degli obiettivi economici porta non solo alla distruzione degli individui e dell’ambiente in cui essi vivono ma anche dei componenti delle società stesse, come dimostrano i recenti scandali ai danni degli azionisti in America ma anche ciò che è accaduto dentro le nostre mura. Terzo assioma, dipendente dai due precedenti, è che ormai i governi – di qualunque ispirazione politica essi siano – hanno rinunciato a controllare le società di capitali ed anzi, in alcuni casi, è vero proprio il contrario.
Il film, girato da Mark Achbar assieme a Jennifer Abbott, espone molti esempi storici e recenti di come le corporation usino agire. Il coinvolgimento dell’lBM nella gestione de i campi di sterminio nazisti (forniva dei macchinari che “aiutavano” gli aguzzini a contare e catalogare le proprie vittime); lo scandalo del latte contaminato in Florida da un prodotto chimico della Monsanto; l’aberrazione della guerra dell’acqua in Bolivia quando il locale governo ne aveva appaltato lo sfruttamento – anche di quella piovana! – ad una multinazionale americana. Sono tutti esempi della assoluta mancanza di scrupoli di dette società.
Rispetto al lavoro di Moore – che viene anche intervistato – questo film ha un’anima decisamente più no-global. Ne sono testimoni gli interventi di personalità come Milton Fridman. Nel film si ascolta, ad esempio, anche un broker di Wall Street il quale candidamente confessa che subito dopo l’attentato del 11 settembre la prima cosa a cui ha pensato è stato all’aumento del prezzo dell’oro ed ai guadagni che avrebbe fatto…
Anche le “corporation” hanno una responsabilità sociale esattamente come un padre ed una madre di famiglia hanno verso i propri figli. Questo è ciò che personalmente penso da quando, avendo avuto la possibilità (avevo superato, negli stessi giorni, i test di ammissione all’IBM nell’uffici di Via Abruzzi, 3 a Roma), scelsi la Rank Xerox perché ritenevo che fosse detentrice di un brevetto (la Xerografia) che avrebbe, negli anni successivi, contribuito a rompere la cultura del segreto: un documento, infatti, duplicato conforme all’originale, diffonde l’informazione e rompe il monopolio del sapere e dell’oppressione di alcuni uomini su altri. Un contributo positivo dell’impresa verso la società in generale è assimilabile a un investimento a lungo termine in cui si viene, per così dire, “riconosciuti” dal pubblico e dal mercato per i comportamenti effettivi e non per gli annunci pubblicitari. Per concludere: ci sono multinazionali e multinazionali; l’IBM o l’ITT non sono state la stessa cosa, per il progresso e la convivenza civile della Rank Xerox; così come oggi, non sono la stessa cosa la Luxottica e la Lottomatica. Spero che, per ora, basti.
Oreste Grani