Renzi e il macellaio

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Come se niente fosse, il “rullo compressore mediatico”, manovrato dal rozzo, già violentatore di donne, Denis Verdini, artefice, tra le altre scelleratezze, dell’accordo a Siena, attuato (complici non pochi cretini, annidati “artatamente” nelle pseudo Liste Civiche e Stefano Bisi prestato alle pseudo logge massoniche “fiorenti” in Toscana), nella primavera del 2011, tra l’inutile Alessandro Nannini (comunista, da sempre, per l’occasione “infiltrato” nel PDL) e Franco Ceccuzzi (comunista da sempre lasciato nel PD perché la pantomima partitocratica fosse compiuta), massimo responsabile, di fatto, del  “complotto” del “non scoperchiamento”, al tempo opportuno, della cloaca MPS, è lasciato operare, nel silenzio generale della stampa di regime (cioè tutta!), perché la condanna a morte della comunità italiana venga eseguita. I giovani cittadini “deputati e senatori” organizzati nel M5S, ritengono che il carnefice sia il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e si lasciano andare ad inutili attacchi verbali, dimostrando i limiti di un “candore” che, in qualche modo, andrà risolto. Il BOIA, cioè chi svolge l’attività del cieco esecutore del rito crudele del taglio della testa degli oppositori alla tirannide, è Denis Verdini. Il presidente Giorgio Napolitano è, semplicemente, il Re. Il Boia, il Mastro Titta, è Denis Verdini, con l’aggravante del fatto che mena cinici fendenti per imporre alla guida del Paese, il vanesio ignorante (per questo ancora più pericoloso), Matteo Renzi. Come,dal 25 marzo 2013, inascoltato (se non dal solito Leo Rugens) sostiene Roberto Napoletano, direttore del Il Sole 24 Ore.

Riportiamo in fondo alcuni nostri post a prova certa di quella affermazione, onesta e impegnativa, dell’intelligente giornalista economico. Giudicate voi, alla luce della gravità della situazione generale in cui versa il Paese (non c’è segno alcuno di miglioramento se non per chi è già ricchissimo!), se è il caso di “inorridire” per un epiteto (boia), indirizzato contro il bersaglio sbagliato. Il carnefice (il boia) della Repubblica, è il rozzo, già violentatore di donne, Denis Verdini.

Oreste Grani

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ROBERTO NAPOLETANO, IL SOLE 24 ORE: “BASTA, L’ORA È GRAVISSIMA. RENZI È UN IGNORANTE”. LEO RUGENS: “È ORA DI AMMUTINARCI”.

Il direttore dell’autorevole “Il Sole 24 Ore”, Roberto Napoletano, ieri 25 marzo 2013, durante la trasmissione televisiva “Piazza pulita”, con un atteggiamento fermo e giustamente preoccupato, ha dichiarato: “Renzi è un ignorante. Sono rimasto sorpreso che non sapesse chi fosse Donato Menichella. Mi dite come uno senza le basi culturali della storia economica italiana può guidare questo Paese in una fase così complessa?”

Mi scuso con i lettori nell’eventualità che io abbia omesso altre espressioni. Sicuramente il significato era questo. Finalmente si comincia a parlare chiaro. Gli ignoranti, i politici senza cognizioni tecniche non possono e non devono assumere alcuna responsabilità in una tempesta a mare forza 10, come ormai incombe su di noi. Il capitano deve essere di “lungo corso” per saper tenere il timone oltre che indicare generiche e velleitarie rotte.

Il 2 novembre 2012 postavo l’articolo che segue.

IENE, ROTTAMATORI E IL PERICOLO DEGLI INCOLTI (MATTEO RENZI) AL POTERE

“I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e clientela ma per noi comunisti la passione non è finita”.

Così rispondeva Enrico Berlinguer in una famosa intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari nel 1981.

Quella presunta diversità rivendicata dall’onesto segretario del PCI, è morta.

Le macchine dei partiti, tutte, si sono rotte e i comunisti con i loro valori sono archiviati per sempre.

 Gli eredi di Lenin, Stalin, Beria, Togliatti a volte contraddittori e disinvoltamente pragmatici sempre subordinati nei loro comportamenti umani e sociali alle esigenze della rivoluzione e del Partito, una volta con approccio prevalentemente ortodosso, altre volte, senza escludere alleanze perverse con il loro nemico di turno, nella storia, hanno dato corso a spietate repressioni giustificate dalla ragione di Stato o dalla necessità di rottamare avversari interni alla loro stessa organizzazione.

Il sogno iniziale comunista muore nel momento stesso in cui da un’ipotesi di democrazia libertaria si trasforma nella cupa realtà della dittatura e dello Stato monopartitico voluto ed interpretato dal criminale dei criminali Iosif  Vissarionovic Dzugasvili detto Stalin.

La burocrazia che ne ha ereditato i simboli e la residua passione politica, in URSS, nel mondo e in Italia, in particolare, è ormai, da anni, tutta impegnata, come dice Alberto Statera “… nella rude attività predatoria della riorganizzazione, business oriented, del Paese”.

Finché c’è stato un business da taglieggiare.

E questa attività spietatamente ienesca (solo le iene cacciano con questa determinazione e in modo così coordinato) ci ha condotto oltre il cinquantesimo posto nella classifica del Corruption Perception Index, sempre per citare Alberto Statera.

Uno degli eredi della burocrazia formatasi a Mosca è Massimo D’Alema che è ancora in giro, nonostante lo scioglimento dell’impero sovietico. Baffino ci promette di riuscire a mettere insieme Pierferdinando Casini e Nichi Vendola per il benessere degli italiani.

Sempre a giudizio di D’Alema la persona più adatta per “rifare l’Italia” è Bersani.

Massimo D’Alema inoltre ci rassicura che “un grande partito, il PD, (sic!) quale noi siamo, deve riuscire a mettere insieme Casini e Vendola”. Pronto gli risponde Vendola, rinfrancatosi per la recente assoluzione: “Non rottamare D’Alema e riciclare Casini”. E questo sarebbe coniugare, come sostiene Vendola, modernità e libertà?

Perché dovrebbe essere salvifico per il Paese, stremato dalla speculazione internazionale, metter pace tra l’omofobo pseudo cattolico Casini e Vendola paladino dei matrimoni gay?

La sinistra rischia di non avere neanche i voti della lobby omosessuale che, in Sicilia, come si è visto, è stata tutta a favore di Crocetta e per nulla a sostegno del SEL.

Torniamo a Massimo D’Alema: “Figlio di partito per eccellenza. Nel senso, letterale, di essere figlio di militanti del Partito Comunista, da un padre che descrivono così diverso da lui per impulsività ed estroversione e da una madre che ancora oggi vigila con rigore, sia pur amoroso, sulle sue scelte politiche. Ma anche, e forse soprattutto, figlio di partito nel senso che il PC è tutto quello che ha conosciuto nella vita, dalla militanza giovanile alla lunga gavetta nelle sedi lontane da Roma. Questo è, in poche righe, quello che si è sempre raccontato di Massimo D’Alema, il ritratto fissato nell’opinione pubblica e rafforzato da una certa area di fastidio, da una sicura antipatia e, perché no, dagli ormai celebri baffi, che hanno permesso di coniugare il suo volto con quello di ‘carabiniere’, ‘finanziere’, ‘impiegato’ e così via – tutte variazioni dello stesso concetto: quello del funzionario di partito”.

Scriveva così nel dicembre del 1995 Lucia Annunziata, giornalista apprezzata in Francia fino a vedersi conferire, anche lei come Franco Bassanini, la Officier dans l’Ordre National de la Légion d’Honneur e stimata in Telecom fino a meritarsi, dieci anni dopo,100mila euro per una consulenza sull’Egitto.

Perché dovremmo affidarci per inoltrarci in un terreno ignoto come quello che si delinea nei prossimi anni per l’Italia e per l’Europa, a un impiegato dell’ex PCI prossimo alla pensione?

Il termine rottamazione è disgustoso e degno del violento mondo capitalistico prefigurato in uno splendido romanzo di Upton Beall Sinclair “La giungla” del 1906 sulla scandalosa condizione dei lavoratori ai mercati di bestiame di Chicago. Il libro, che fu definito da Jack London la capanna dello zio Tom degli schiavi salariati, fu recensito da Churchill e per esso Shaw ebbe parole di viva ammirazione.

L’incolto Matteo Renzi usa il termine “rottamazione” di cui non conosce l’implicita crudeltà ma nella sostanza ha ragione quando dice che è ora di liberarsi dei troppi D’Alema, Annunziata, Bassanini, Bersani.

E dei loro amici francesi.

L’ora è gravissima. Fermiamoli, finché siamo in tempo. Anche ammutinandoci.

Oreste Grani

Donato Menichella (1896-1984)

Dopo la laurea presso l’Istituto di Scienze Sociali Cesare Alfieri di Firenze, venne assunto nel 1920 all’Istituto nazionale per i cambi con l’estero. Nel luglio 1921 entrò nei ruoli della Banca d’Italia dove si occupò delle pratiche relative alla liquidazione della Banca Italiana di Sconto. Nell’ottobre 1924 passò alla Banca Nazionale di Credito: lì diresse gli uffici di liquidazione della Sconto fino al 1929, in seguito la rappresentanza di Roma. Nel 1931 divenne Direttore generale della Società Finanziaria Italiana, holding del gruppo Credito Italiano. Direttore di entrambe le sezioni dell’IRI nel 1933, Direttore generale dall’agosto 1934, si dimise nel novembre 1943. Nel dopoguerra fu Direttore generale della Banca d’Italia dall’aprile 1946. Dal maggio 1947, data in cui Einaudi divenne ministro, esercitò le funzioni di governatore. Fu nominato Governatore nell’agosto 1948; le sue dimissioni ebbero effetto nell’agosto 1960.

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