I “misteri” irrisolti delle parallele via Arenula e via Cenci

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Vi ho detto della mia curiosità verso Claudio Martelli quando G.C. me lo “portò”, negli splendidi uffici di via Beatrice Cenci 9. L’ex ministro di Giustizia è un personaggio, ancora oggi, nonostante l’età, che definire complesso è una vera semplificazione. Forse è tra i più difficili da “interpretare”, nella scena politica italiana, degli ultimi decenni. Da decenni, sempre accompagnato da tale Sergio Restelli.

Dedico al quella nostra breve ma intensa frequentazione (pochi mesi del 2011), il testo della magistrale intervista che l’avv, Nicolò Amato rilasciò il 7 maggio 2012 all’ottimo Giovanni Fasanella.

Meditate gente, meditate, tenendo conto, mentre leggete, che Nicolò Amato è, da sempre, uno specchiato e colto servitore dello Stato. Amato è stato un vero nemico “strategico” della cultura dell’emergenza, amico quindi, della Repubblica, della convivenza civile e del rispetto della dignità umana. Anche quando fosse rappresentata dall’ultimo degli assassini.

Punto.

Oreste Grani

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Nicolò Amato: mi hanno cacciato per trattare con la mafia

di Giovanni Fasanella, Panorama, 7.5.12

«Fui cacciato a pedate nel sedere. Senza un perché. Ma oggi l’ho capito, grazie a documenti che non conoscevo: li avevano tenuti nascosti perché troppo imbarazzanti; avrebbero svelato aspetti inquietanti della cosiddetta trattativa Stato-mafia per l’abolizione del carcere duro». Nicolò Amato era direttore del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, quando nel 1992 Cosa nostra inaugurò la stagioni delle stragi. Il 4 giugno 1993 fu improvvisamente rimosso. A volere la sua testa fu il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, d’accordo con il presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi e con il ministro della Giustizia Giovanni Conso.

Ma perché la cacciarono?

Perché ero un ostacolo a ogni trattativa o tacita intesa con la mafia. Sono stato vittima di una trama squallida e oscena, che ha riguardato le istituzioni che rappresentavo. Dopo l’assassinio di Giovanni Falcone attuai verso i mafiosi in carcere la risposta più dura. Riaprii le carceri di massima sicurezza di Asinara e Pianosa e proposi al ministro della Giustizia Claudio Martelli l’applicazione del 41 bis ai 532 boss più noti. Poi, dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, inviai un appunto al ministro per estendere il regime duro a tutti i 5.300 detenuti di mafia: non sempre conoscevamo le esatte gerarchie mafiose.

Un detenuto apparentemente poco importante poteva essere in realtà un capo?

Sì. Bisognava impedire ai detenuti di mafia di utilizzare altri detenuti e troncare ogni possibilità di comunicazione illecita con l’esterno. Così individuai 121 carceri o sezioni di carceri in cui mettere quei 5.300 mafiosi e chiesi a Martelli di varare un solo decreto 41 bis su quelle 121 strutture invece di tanti provvedimenti ad personam.

La risposta di Martelli?

Girò il mio appunto all’ufficio legislativo e alla direzione affari penali del ministero. Una procedura del tutto insolita, visto che la mia proposta non prevedeva modifiche di legge e quindi quei due uffici non avevano alcuna competenza. Allora scrissi al ministro, chiedendogli di assumersi responsabilità dirette. Ma lui si rifiutò e si limitò a rilasciarmi una delega per l’applicazione del 41 bis. Feci quel che potevo e i provvedimenti di restrizione salirono a 1.300.

Che cosa accadde quando poi alla Giustizia arrivò Conso?

Gli scrissi che il 41 bis, essendo un decreto ministeriale, era il prodotto di un’emergenza. Perciò proponevo di sostituirlo con una legge, che avrebbe reso permanente, più efficace e più dura la risposta dello Stato alla mafia. La situazione era estremamente pericolosa. Avevamo appena scoperto il piano per l’uccisione di alcuni agenti del carcere di Pianosa, sventandolo per un soffio.

Arrivava dal carcere l’ordine di uccidere?

Sì: questo era il problema cui occorreva dare una risposta più decisa. La sicurezza sarebbe stata tanto più garantita quanto più forte fosse stato il controllo sulle comunicazioni tra il carcere e fuori, che passavano attraverso la corrispondenza e i colloqui. Chiedevo un rafforzamento della censura sulle lettere e la possibilità di ascoltare e registrare i colloqui. E inoltre che i mafiosi chiamati a deporre nei processi potessero farlo solo attraverso un collegamento audiovisivo, senza essere portati in udienza.

Reazioni?

Da Palermo Cosa nostra inviò una lettera anonima al presidente Scalfaro. Arrivò anche al Vaticano e ad altri, tra cui il ministro dell’interno (Nicola Mancino, ndr). La lettera invitava a «togliere gli squadristi al servizio del dittatore Amato», cioè a cacciarmi. Fatto gravissimo: di quella lettera non venni mai messo al corrente.

La data?

Febbraio 1993. Tre mesi dopo, visto che ero ancora al mio posto, esplose l’autobomba in via Fauro a Roma (14 maggio) e ci fu la strage di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio). Il 4 giugno venni rimosso dal mio incarico e sostituito con Adalberto Capriotti. Ma i lettori di Panorama sanno già come andò, visto che avete dato conto della testimonianza dell’ex segretario generale della presidenza della Repubblica, Gaetano Gifuni, e poi avete intervistato il vicecapo dei cappellani penitenziari, Fabio Fabbri, che ebbe un ruolo importante in quella storia: fu Scalfaro, il primo destinatario dell’anonimo, a volere la mia testa.

La sua rimozione facilitò la trattativa?

La scelta del mio successore fu praticamente affidata ai cappellani, gli stessi che avevano trattato per il Vaticano e lo Stato nel sequestro Moro. È un fatto, ma ce ne sono altri: documenti che ho potuto vedere solo di recente e che dicono in modo eloquente cosa accadde subito dopo la mia rimozione.

Quali documenti? E che cosa accadde?

Agli atti dell’inchiesta condotta all’inizio del 2000 da Gabriele Chelazzi, pm di Firenze, ci sono una serie di lettere e appunti dei miei successori, Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio, i quali proponevano al ministro Conso una serie di revoche del 41 bis. Nel giro di pochi mesi i detenuti di mafia a regime duro crollarono da 1.300 a 436.

Basta per dire che ci fu una vera trattativa? E che la revoca del 41 bis arrivò in cambio della pax mafiosa?

Tra i documenti ne ho trovato uno a dir poco agghiacciante. È un appunto in cui il Dap chiede una serie di revoche del 41 bis. Ma attenzione alla data: è del 29 luglio 1993. Nei due giorni precedenti c’erano stati gli attentati di piazza San Giovanni e alla Chiesa di S. Giorgio al Velabro, a Roma, e la strage di via Palestro a Milano. E attenzione: 5 morti, 12 feriti e danni ingenti al patrimonio artistico vengono definiti una «delicata situazione generale, che impone di non inasprire inutilmente il clima all’interno degli istituti di pena». Quindi, di revocare un ulteriore gruppo di decreti 41 bis.

Però l’inchiesta di Chelazzi non approdò a nulla.

Chelazzi morì all’improvviso (il 16 aprile 2003, ndr) mentre stava indagando; il suo lavoro si bloccò. È inquietante che nessuno abbia sentito il bisogno di riprendere il filo della sua indagine. Quei documenti sono sepolti in un archivio da quasi un decennio.

Ma lei se la sente di affermare che una trattativa ci fu?

Io non so e non posso sapere se c’è mai stato un tavolo formale intorno al quale si sono seduti mafia e Stato. Ma non c’era bisogno di alcun tavolo per discutere di certe cose. La trattativa era implicita e il patto finale era tacito, visto che l’una sapeva che cosa voleva l’altro, e viceversa.

Dunque, una trattativa implicita?

Sì, una trattativa implicita. E il prezzo pagato alla mafia furono la mia testa e la fine del carcere duro.

Lei crede che Borsellino sia stato ucciso perché si opponeva alla trattativa?

No. Gli attentati contro Falcone e Borsellino sono una storia completamente diversa. Ancora tutta da scrivere.

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