Catturati nello spazio i primi “vagiti” del Big Bang

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Tra un dirottamento fantasma, rombi di guerra in Ucraina e “Attanasio cavallo vanesio Renzi” in visita a Parigi e a Berlino , irrompe una notizia che val la pena di approfondire: “Catturati nello spazio i primi segnali del big bang”. Così dicono, gli scienziati di Boston. Se fosse vero, saremmo vicini a “vedere” l’inizio di tutto”. “Molte persone trovano arduo accettare che l’universo possa essersi originato dal nulla. Insistono che debba essere esistito qualcosa prima del big bang che lo giustifichi, e che è necessario un Dio, o un Essere Supremo, per aver creato l’Universo. Tuttavia, questa credenza si basa su un’idea errata della natura del big bang. Contrariamente a molte opinioni correnti, il big bang non fu l’esplosione di una massa informe in un vuoto preesistente:secondo la moderna fisica, esso fu all’origine non solo della materia e dell’energia, ma anche dello spazio e del tempo. Il tempo stesso, dunque, iniziò ad esistere con il big bang. Se questo è corretto, allora domande del tipo: “Che cosa esisteva prima del big bang?” o “Che cosa ha causato il big bang?” sono prive di significato. Non c’era un prima“.

Paul Davies in “Un solo universo o infiniti universi?” Di Renzo Editore. 

Alla notizia e a ragionamenti di questa portata, aggiungo un testo che mi è caro perché è tratto dai materiali selezionati per la didattica prevista per la Scuola di Intelligence che sto ideando:  “Luce ed ombra” per addestrare gli uomini a vederci chiaro.

Leo Rugens

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«In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era una massa informe e vuota e le tenebre erano sulla superficie dell’abbisso». Ma «Dio disse: “Sia la luce” e la luce fu. Dio vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre». La luce riempie, dunque, un vuoto senza forme.

Ma quale è il senso di questi enigmatici versetti della Genesi? «Ritengo che la forma prima e corporea, che alcuni chiamano corporeità, sia la luce […]. Essa è capace di moltiplicare se stessa e di propagarsi istantaneamente in ogni direzione. Ora, qualunque cosa produca questo effetto o è luce oppure è partecipe della natura della luce. Quindi: o la corporeità è la luce stessa oppure essa agisce in quel modo e conferisce le dimensioni alla materia in quanto partecipa della natura della luce e agisce in virtù di essa. Ma, in verità, non è possibile che la forma prima conferisca le dimensioni alla materia in virtù di una forma ad essa posteriore; dunque, la luce non è una forma posteriore alla corporeità, ma è la corporeità stessa». Come dire: per ottenere l’intero universo è stato sufficiente a Dio creare un unico punto luminoso, e da questo punto, privo di dimensioni, è scaturita una sfera di luce, dotata di estensioni e misure: le forme delle cose “contratte” in quel punto iniziale si sono via via “dispiegate”, un po’ come fa la grande pianta dal piccolo seme, dando origine al mondo così come noi lo conosciamo.

Dopo Einstein molti cosmologi amano ripetere che possiamo “risalire” fino al Big Bang, la grande esplosione e, proprio come i teologi della tradizione ebraico cristiana si figuravano che tutta la specie umana fosse scaturita da un unico uomo, essi congetturano che l’intero universo sia disceso da quella singolarità iniziale dello spazio tempo. Le parole che abbiamo citato a commento dei versetti iniziali della Bibbia potrebbero, a prima vista, essere state pronunciate in qualche convegno di cosmologia scientifica seppur con qualche “lieve” correzione: per esempio, la luce non si propaga “istantaneamente”, piuttosto la sua velocità è molto alta rispetto a quelle di cui abbiamo usualmente esperienza. Echeggiarono invece per la prima volta nei collegi della Oxford medievale. Sono tratte, infatti, dall’opuscolo De luce di Roberto Grossatesta (Robert Greathead,11751253) maestro secolare della scuola francescana, poi arcivescovo di Lincoln.

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La tentazione di leggerlo come un precursore della teoria “corpuscolare” della luce formulata da Newton, se non della conversione della materia in energia teorizzata dalla Relatività einsteiniana, è certamente forte: ma non bisogna dimenticare che per Grossatesta il mondo in cui viviamo scaturisce da una sorta di compromesso tra la natura semplice e inestesa della luce originaria e il processo di “moltiplicazione infinita” che fa sì che la materia diventi qualcosa di esteso e di molteplice. Termine medio tra l’infinito e il punto; l’universo del De luce ha le fattezze di una sfera finita al cui centro si trova la luce nel suo massimo splendore, mentre al limite la luce giunge al massimo della rarefazione, il che le impedisce di diffondersi oltre. Questo limite è il firmamento che riflette la sua luce verso il centro, occupato dalla terra, il nostro habitat naturale. Le sue stelle «non splendono invano», come dirà in pieno Seicento John Milton nel Paradiso perduto, poiché «tramontano e risorgono / in modo che la tenebra totale, attraverso la notte, / non riconquisti l’antico dominio ed estingua la vita».

Roberto di Lincoln rientra così nella grande tradizione dell’orientale lumen, la “luce d’Oriente”, quel tipo di speculazione che l’Occidente cristiano riceve dai Padri greci della Chiesa, attraverso la mediazione di monaci siriaci, teologi bizantini, mistici irlandesi, grandi iniziati ebrei e arabi, questi ultimi non insensibili al fascino dell’India. Ma non c’è solo la componente teologica. La metafisica della luce di Roberto è anche una fisica in cui la matematica ha fatto irruzione. Le figure geometriche quelle stesse utilizzate dall’ottica dei Greci conservata e approfondita dagli Arabi sono le forme della propagazione della luce, ma, poiché la luce definisce ogni corpo, definiscono anche «tutte le cause degli effetti naturali» mediante «linee, angoli e figure».

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E se è Dio che dà forma alle cose, ne segue che Egli è, innanzitutto, il massimo geometra. L’idea che solo la matematica consenta di spiegare i fenomeni, celesti o terrestri che siano, costituisce il filo rosso che lega Grossatesta a Galileo o a Newton, convinti che il Signore dell’universo compili « il grande libro del Mondo» in caratteri geometrici. Ma nel racconto biblico alla luce si contrappongono le tenebre “informi e vuote”, che vogliono anch’esse la loro parte: «se infatti il termine luce significa qualcosa, il termine notte [=tenebre] non può non significare anch’esso qualcosa», almeno così ragionava, qualche secolo prima di Grossatesta, Fredegiso di Tours (morto nell’ 834 dell’era cristiana). E poiché la teologia cristiana, seguendo in ciò il pensiero ebraico, ha interpretato l’opera di Dio di cui parla la Genesi come creazione dal nulla, Fredegiso concludeva nella sua epistola De nihilo et tenebris che «il nulla stesso significa qualcosa».

A prima vista parrebbe che Fredegiso non faccia altro che distruggere un mito (l’identificazione delle tenebre col nulla) opponendogli altri miti (le sue presunte prove bibliche): in realtà, egli lancia una sfida sia alla logica che al senso comune. Se infatti siamo convinti di poter parlare sensatamente del “nulla”, quella parola deve aver per noi un significato determinato, deve cioè significare qualcosa, anche se sembrerebbe che l’esistenza competa necessariamente all’essere e debba venir esclusa dal nulla. La vicenda dello “zero” è il corrispettivo matematico di questo “paradosso” logico: mancanza di un “segno” (una cifra che indica una quantità) o segno di una mancanza?

In un trattato della fine del Quattrocento leggiamo ancora che «come l’asino vorrebbe essere un leone, lo zero si dà arie e pretende di essere una cifra», anche se «il simbolo “0” denota il nulla». E zero viene associato al matto dei tarocchi, poiché questo arcano, scrive in pieno Settecento Court de Gébelin, «come il nostro zero, non conta quando è solo, e non ha che il valore che conferisce alle altre Carte […], quasi a dimostrare che nulla è in grado di esistere senza la Follia». I filosofi sembrano esistere per cercare di dissipare la Follia: si deve a Bertrand Russèll, in un capitolo dei suoi Principles of Mathematics (1903); l’analisi forse più sottile del “paradosso” di Fredegiso e la giustificazione logica dello zero: la classe vuota (e quindi lo zero) viene operativamente definita impiegando un qualsiasi “concetto contraddittorio” come “diseguale da se stesso”, sicché nessun oggetto X apparterrà a tale classe, poiché di ogni oggetto X si deve appunto affermare che non è “diseguale da se stesso”. Con il che si rendono superflui i tentativi filosofici di giustificare lo zero di una data grandezza come la minima grandezza del genere: nessun piacere non è un minima di piacere, proprio come un punto, che veniva definito ancora nel Seicento “uno zero dei segmenti”, non è affatto un segmento, ecc.

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Nel caso di una situazione fisica come è la polarità luce e tenebra altrettanto inutile è definire la tenebra come il minimo di luce, anzi fuorviante (proprio come sarebbe fuorviante affermare che “Achille era il più forte dei suoi nemici”). Quella caratterizzazione delle tenebre ricorrente nella Scolastica medievale era funzionale all’idea della positività della luce, che sottende non poche raffigurazioni del divino e se “Dio è luce” la vita è luce e il bene è luce. Viceversa le tenebre si associano al male e nel Caos primordiale o Notte si aggira la Morte. Analogamente il silenzio è assenza di suono, la malattia assenza di salute, ecc. Dei due fenomeni di ciascuna coppia, uno solo viene visto come dotato di effettiva esistenza, mentre l’altro non è che lo “zero” del primo. Osservava nel 1952 l’epistemologo Ludovico Geymonat, che < la preoccupazione che stava alla base di queste concezioni era sempre la medesima: di non riconoscere una vera esistenza al fenomeno negativo, per non dover concludere, con Fredegiso, che anche il nulla in qualche modo è». La scienza attuale, continua Geymonat, ha però riabilitato Fredegiso: «il problema non è più […] quello di spiegare la singolare esistenza che dovrebbe connettersi ai fenomeni nulli, ma di chiarire il concetto generale di “esistenza dei fenomeni” entro cui si inserisce come caso particolare anche l’esistenza delle coppie di fenomeni che si escludono a vicenda […]. Si cerca per esempio di provocare il fenomeno luce, come si cerca di provocare il buio (sono ben note le tecniche per creare modelli sempre più perfetti di camere oscure): si sperimenta sulle onde sonore come si sperimenta sulle onde silenziose aventi la medesima natura delle onde sonore; si studia operativamente il fenomeno salute, come si studiano operativamente le innumerevoli malattie che i logici medioevali avrebbero preteso riunire nell’antico concetto di absentia sanitatis». La divinizzazione della luce è stata però un felice errore, se ha condotto in Occidente alla fisica matematica di Galileo e di Newton.

E vero: ma l’approfondimento delle stesse teorie ottiche potrebbe alla fine rovesciare quel “dogma”, sicché una Storia della luce potrebbe concludersi con le parole che lo storico Vasco Ronchi usa per il finale della sua: «alla parola luce non rimane che il significato di assenza di buio», cioè uno zero di tenebra. Questa non sarebbe altro che la forzatura speculare di quella criticata da Fredegiso. Sicché, guardando ad Oriente (estremo), con ragione si potrebbe ricordare che il Tao (la Regola) «fa comparire uria volta l’oscuro e una volta il chiaro» e dell’unità soggiacente cogliamo ora yang e ora yin: proprio come, nel Fiat Lux della Cosmologia di Robert Fludd, potremmo anche leggere la tenebra come figura e la luce come sfondo. «Al crepuscolo il gallo annunzia l’aurora: il sole risplende a mezzanotte»: in una poesia Zen c’è forse il senso della cosmogonia della luce e delle tenebre. In breve, un grandioso disegno alla Escher.