La cultura fa PIL
Varando la nuova Finanziaria, il ministro Tremonti ha detto che la cultura non dà da mangiare. Non è chiaro se le esatte parole che ha pronunciato siano «Con la cultura non si mangia», «La gente non mangia cultura» o «La cultura non dà da mangiare». In ogni caso, il senso è lo stesso: la cultura, nella visione del ministro, non produce benefici materiali, ma rappresenta un costo.
Queste parole le leggiamo su Famiglia Cristiana il 22.11.10 e, nel seguito del pezzo, una confutazione (vedi articolo originale).
Così invece, il 16.9.14, Francesco Sylos Labini:
Anche in Francia la situazione, sebbene diversa e certamente più solida, sta diventando rapidamente molto critica. I risultati dell’ultimo bando per progetti di ricerca di base sono stati catastrofici: considerando l’assenza di altri fondi, solo l’8,5% dei progetti di ricerca verrà finanziato. La situazione di sotto finanziamento non solo rende il personale demotivato ma molti laboratori non possono proprio più lavorare. Per questa ragione un gruppo di scienziati francesi ha fondato il movimento “Sciences en marche” che sta organizzando una grande marcia in bicicletta che inizierà contemporaneamente dalle varie città della Francia e si concluderà con una manifestazione a Parigi il 17 ottobre (vedi originale).
La prima impressione è che, anche sul versante della cultura, della ricerca e dell’istruzione, la Francia sia stata contagiata dal morbo italico, inclinando verso un processo di “italianizzazione” già ben rappresentato dai comportamenti sentimentali degli ultimi due presidenti della Repubblica, più interessati al pilu che al PIL.
Il fatto sbalorditivo è che nessuno dotato di senno, o che abbia solo sfogliato Istruzione e sviluppo di Carlo Cipolla, può negare che lo sviluppo economico sia storicamente legato al livello culturale degli attori in gioco: politici, manager e lavoratori, per essere chiari. Eppure c’è chi ritiene che tagliare i fondi alla ricerca o, peggio, distribuirli senza criterio sia una buona idea.
Certo, a volte può capitare che al desiderio di istruzione, anzi al “dovere” di essere istruiti si leghino comportamenti un po’ eccessivi, come illustra Cipolla citando il fenomeno del Protestantesimo che “affermò una cultura libresca contro tutte le statue e la pompa del Cattolicesimo che rappresentavano il metodo tradizionale di comunicazione di una società largamente analfabeta. «Il Protestantesimo sottolineò l’importanza della lettura della Bibbia e delle opere dei riformatori: calcinò i dipinti murali per rimpiazzarli con i dieci comandamenti; frantumò statue e vetrate dipinte. Il suo furioso iconoclastismo nasceva dal desiderio di rimpiazzare un mezzo tradizionale di comunicazione con un altro»” (pag. 59).
Tuttavia, e le statistiche sono inoppugnabili, più un paese ha o ha avuto un alto tasso di alfabetizzazione e maggiori o inevitabili sono, sono state, le possibilità di sviluppo economico e tecnologico. Nel caso dei Paesi scandinavi, per esempio, ci si trovò, a Rivoluzione industriale in corso, nella condizione in cui l’offerta di persone istruite era superiore alle immediate necessità ed opportunità economiche ma ciò fu sfruttato per realizzare un rapido piano sviluppo dei paesi stessi.
Tuttavia non sempre le cose filano per il verso giusto e, per esempio, la rapida industrializzazione della Gran Bretagna causò un fenomeno inverso, in quanto, “offrendo maggiori possibilità di impiego per ragazzi, la Rivoluzione industriale aumentò il costo-opportunità dell’istruzione e di conseguenza influenzò negativamente la domanda della stessa. Così in Inghilterra, fino alla metà dell’Ottocento, mentre l’economia si espandeva, l’educazione popolare ristagnava“; la nazione che aveva inventato il telaio meccanico si trovò a perdere rapidamente terreno nei confronti delle altre potenze oltre a dover affrontare notevoli tensioni interne, conclude Cipolla.
Tornando alla nostra Italia, parlare di Rivoluzione industriale fa venire pensieri tetri, non fosse altro perché dimostriamo addirittura una assoluta o colpevole incapacità persino di accedere ai fondi che l’UE mette a disposizione delle PMI per lo sviluppo tecnologico.
Qualcosa non va, questo è chiaro. Le ragioni sono innumerevoli: mancanza di formazione delle classi dirigenti; assenza di criteri meritocratici nella selezione delle stesse; corruzione (idem), per non parlare della malavita organizzata che agisce senza alcun contrasto (avete mai sentito Renzi pronunciare in proposito una parola?).
Certo non ci consola che al di là delle Alpi, i vicini francesi vedano profilarsi all’orizzonte uno scenario a noi ben noto (per tacere dell’incubo Le Pen) e c’è da interrogarsi quali siano le ragioni di tale declino, ragioni sicuramente culturali, aggiungiamo noi.
C’è da domandarsi se non esista qualche legame tra la crisi attuale e i comportamenti sfacciatamente aggressivi tenuti, per esempio, nel caso Battisti o nel caso Gheddafi o nel caso Ustica o nel caso Iperion… oppure che la radice della crisi risieda in un fenomeno ben noto agli antropologi denominato “contagio culturale” (corruzione, guerre per bande all’interno delle istituzioni, bushismo, lussi e pilu) vista la prossimità o promiscuità con molte realtà italiche.
Insomma, potessimo, marceremmo volentieri, a piedi o in bicicletta, su Parigi, al fianco di tanti onesti e seri scienziati; per ora ci limitiamo, si fa per dire, a diffonderne l’iniziativa (sciencesenmarche.org), auspicando una analoga mobilitazione nazionale anzi, una vera e propria chiamata alle armi della ragione rivolta ai nostri concittadini, scienziati e non, e un appello al dialogo ai vicini fratelli francesi.
Dionisia
P.S. Dimostrando la classica e tutta moderna distanza tra scienza e arte, consigliamo ai curatori del sito di affidarsi a qualche grafico e illustratore, per evitare che un cittadino dotato di un minimo buon gusto non rimanga troppo impressionato.