Tolleranza zero per i politici e i criminali approfittatori. Massimo rispetto per i lavoratori della Coop 29 giugno
La malattia di cui soffro e a cui ogni tanto, tra le righe, faccio riferimento, è di natura tale per cui (in soldoni) e in alcune condizioni, produco un eccesso di adrenalina, con tutte le conseguenze del caso. Da ieri, una di queste condizioni (un eccesso di novità o di fatti inaspettati e stupefacenti può essere motivo sufficiente scatenante la crisi adrenalinica) si è verificata e, ancora, il malessere mi perdura. La sorpresa “sorprendente”, si riferisce a come possa accadere che uno come Massimo Carminati (figura emblematica di un criminale nazisteggiante) possa avere rapporti di malaffare lobbistico con gli esponenti del mondo cooperativistico (la Coop 29 giugno) che ha, tra i suoi sostenitori affettuosi ed estimatori, tra gli altri, Giancarlo De Cataldo, figura specchiata di “magistrato investigatore” e di conoscitore, come pochi, della vicenda giudiziaria, politica, culturale, sociale denominata “Banda della Magliana” di cui il Carminati è stato uno degli esponenti più importanti per complessità della personalità criminale e per i legami appunto con gli ambienti eversivi che per anni hanno bagnato di sangue la convivenza civile di questo nostro Paese.
Giancarlo De Cataldo, coautore della serie “Romanzo Criminale” è anche, da tempo, collaboratore dell’organo ufficiale della Coop 29 giugno di cui parliamo. Gli arresti di ieri dicono – quindi – che, un raffinato e colto indagatore quale è certamente Giancarlo De Cataldo non si è reso conto in che strano luogo “culturale” si trovava quando curava la rubrica che gli era stata offerta dai suoi amici (così loro – la Coop 29 giugno – formalmente si esprimevano nel descrivere i rapporti di collaborazione e di amicizia, appunto, che intercorrevano con uno dei massimi indagatori/conoscitori della Banda della Magliana) sulla rivista/house-organ della on-lus. Quindi, dopo gli arresti di ieri, dobbiamo presumere che Salvatore Buzzi, presidente della 29 Giugno, era sodale di Massimo Carminati (e fin qui ci siamo in quanto tutte e due ex detenuti) e, contemporaneamente, raccoglieva la stima e la fiducia dell’uomo che più di ogni altro, a mio giudizio, sapeva, per averlo investigato, quale fosse stato il grado di pericolosità del nazista Carminati? E a voi non sembra sufficiente per avere un attacco adrenalinico che mi minaccia il cuore?
Come è ridotto questo Paese? A quando, solo il 10% degli aventi diritto al voto si esprimeranno? Perché anche “una cosa bella”, civile, costituzionalmente coerente, come la COOP 29 giugno, deve finire a “puttane”? Perché nella terra di Dante, Leonardo, Michelangelo, Vivaldi, Mazzini, Pertini dobbiamo fare questa fine? Per me che dovrei sapere tante cose e che mi sono fatto vecchio sapendo leggere cosa c’è sotto, sopra, dietro agli avvenimenti complessi, la Coop 29 giugno era una cosa pulita, esempio di come si può non mollare in un momento come questo. Per loro e per favorire la loro funzione produttiva e sociale, sarei stato pronto a fare qualcosa perché svolgessero il ruolo sociale e coerente con il dettame costituzionale che prevede, appunto, il recupero delle donne e degli uomini che hanno sbagliato.
Gianni Alemanno, lo diciamo e lo scriviamo da anni, è normale che fosse al centro di ciò che il fido Mancini ordiva, per se e per lui.
Lo scriviamo da sempre.
Che il figlio del “pinguino” Domenico Gramazio (si chiama Luca e fa il politico di professione da quando è bambino) si desse da fare, era quasi scontato.
Che Mokbel fosse un tipaccio, lo sapevano pure i sassi.
Che l’ex oppositore – da sinistra – alla Giunta Alemanno, Daniele Ozzimo (oggi ex – si è dimesso- Assessore alle Politiche Abitative nella Giunta Marino) sia, in realtà, un ladro di Pisa, ci può pure stare. Anzi, questi comportamenti sono proprio la consuetudine: per il popolino elettore si litiga alla luce del sole ma, sotto, ci si spartisce la cosa pubblica.
Ma che persone come Angiolo Marroni, Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Lazio (altro collaboratore ed estimatore della COOP 29 giugno), non si accorgessero di questo sodalizio fascio/mafioso/sinistrorso che emerge dagli arresti di ieri, rimango basito e, quindi, adrenalinizzato.
Che Franco Panzironi, ex AMA, sia coinvolto in affari con criminali quali Mancini e Carminati, ci può stare perché i rifiuti e malavita, in Italia sono una sola cosa. Come De Cataldo e Marroni, anche Walter Veltroni sarà caduto dalle nuvole sentendo l’annuncio in televisione. Walter Veltroni non ritengo che sia stato un pupo ingenuo ma certamente non lo posso pensare indulgente nei confronti di chi fosse in tresca con Massimo Carminati.
Cito Walter Veltroni perché, richiesto, difficilmente direbbe della “29 giugno” cose diverse da quelle che scrivo io. Nonostante che alcune figure coinvolte nell’inchiesta (Luca Odevaine) siano funzionari che si sono fatti la strada – di discesa – stando proprio vicini a Walter Veltroni, quando era Sindaco della Capitale.
Le Banche con cui opera la “29 giugno” sono sostanzialmente Banca Etica e Banca Prossima. Due tra i pochi Istituti che possiamo definire trasparenti.
La guardiania delle porte d’ingresso dell’Università Roma Tre (per fare un esempio tra i tanti possibili), è uno dei servizi prestati dagli uomini e le donne della COOP 29 giugno. Donne e uomini che oggi sono oltre un migliaio. Donne e uomini che oggi, senza ombra di dubbio, trasecolano e sentono minacciato il loro futuro di fronte alle notizie diffuse dalla Procura Generale di Roma. Donne e uomini eredi di quel gesto intelligente che fu la messa in scena dell’Antigone di Sofocle, un 29 giugno, nel Carcere di Rebibbia. Gesto che, se fosse in me, rifarei fare anche perché, grazie a quel gesto teatrale e la lunga strada intrapresa, è arrivato il riscatto per centinaia di persone che avevano sfidato e violato la Legge. Ma che, per Legge, hanno diritto a non essere espulsi, per sempre, dalla società degli umani.
Il ragionamento non vale per chi ha utilizzato la sofferenza e il bisogno dei ex carcerati. Per cui in attesa che mi passi la crisi adrenalinica, sarei per distinguere tra chi si è impadronito del diritto degli ultimi a non essere lasciati soli e indietro, e i mille lavoratori della “29 giugno” che devono poter continuare a guadagnarsi il pane secondo il motto “qui non si fuma, si lavora!“.
Oreste Grani/Leo Rugens una volta tanto sorpreso e non lietamente.
LA STORIA del GRUPPO “29 GIUGNO”
La Storia
Quando tutto ebbe inizio

Era il 29 Giugno 1984 il giorno in cui si tenne a Rebibbia il convegno “Le misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna” e da qui l’anno successivo la costituzione della nostra Cooperativa, ma per dare un senso compiuto e “storicizzare” meglio l’evento bisogna partire dall’anno precedente.
Il Penale di Rebibbia, fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano, era un carcere ove gli spazi di libertà interna erano notevoli e la gran parte dei detenuti trascorrevano il tempo con relativa “tranquillità”, tesi soltanto ad ottenere in un futuro più o meno lontano i benefici introdotti dalla riforma penitenziaria del 1975, quali i permessi , il lavoro all’esterno, la semilibertà.
Era però un carcere isolato dal territorio; vi erano pochi operatori volontari che frequentavano l’Istituto, non vi erano corsi di formazione se non i soliti per elettricisti, che mai avrebbero dato uno sbocco lavorativo ai partecipanti.
Il 1983 fu un anno di gran fermento all’interno dei penitenziari italiani, in quanto dopo la lunga stagione del terrorismo e l’inizio dei cosiddetti pentimenti che avevano consentito nel corso del 1981 e 1982 di far arrestare moltissimi terroristi di sinistra e di destra, andava crescendo all’interno delle carceri speciali il numero di coloro che dichiaravano di abbandonare la lotta armata, senza però denunciare i complici: era l’inizio del fenomeno della “dissociazione” che fu vista con straordinario interesse dal Governo, dai parlamentari e dagli amministratori locali. Ed iniziarono così a nascere all’interno dei penitenziari delle sezioni denominate “Aree omogenee”, ove venivano trasferiti coloro che si dissociavano dal terrorismo, con una duplice finalità: tutelare fisicamente chi si dissociava e fare da polo di attrazione per tutti quei terroristi che, sebbene si definissero “irriducibili”, nutrivano seri dubbi sulle prospettive di una lotta armata contro lo Stato.
Nel 1983 si era insediato il governo Craxi, uno dei più longevi nella storia della Repubblica e Guardasigilli era stato nominato un avvocato bresciano esponente della sinistra democristiana, Mino Martinazzoli. Direttore Generale delle carceri era divenuto Nicolò Amato, che solo pochi mesi prima aveva sostenuto l’accusa come PM in alcuni importanti processi per terrorismo celebratisi a Roma e quindi era oltremodo sensibile al fenomeno della dissociazione.
Grazie alle “Aree Omogenee” crebbe nell’opinione pubblica l’interesse verso le carceri e per la prima volta i detenuti si proponevano come attori propositivi, suscitando interesse e curiosità verso larghi settori del mondo politico. Anche nel mondo cattolico iniziò una diversa attenzione non più delegata alle suore di carità. E noi a Rebibbia assistevamo a questo fenomeno come semplici spettatori: non avevamo niente da cui dissociarci per sperare di conquistare spazi di libertà, non avevamo portatori di proposte politiche ed in più l’interesse dell’opinione pubblica si accendeva soltanto se qualche detenuto, che beneficiava di un permesso, non rientrava in carcere. Nell’autunno di quell’anno venne data ai detenuti un’opportunità per rendersi protagonisti. Infatti Ennio De Dominicis, regista teatrale, propose alla Direzione del carcere di effettuare un laboratorio teatrale con i detenuti per l’allestimento dell’Antigone di Sofocle.
La scelta dell’Antigone non fu casuale: infatti vi è simboleggiata la nascita del carcere come luogo di separazione ed isolamento e c’è in primo piano il dilemma se sia giusto ribellarsi a leggi che non rispettano i principi morali comuni, vedi la ribellione di Antigone a Cretone per dare sepoltura ai suoi fratelli e per questo condannata al carcere a vita per aver violato, in nome delle leggi divine, che imponevano di dare sepoltura ai morti, un editto del dittatore volto a dileggiare la memoria dei due defunti.
L’iniziativa fu accolta con favore dalla popolazione detenuta e molti si proposero chi come attore, chi come costumista, chi come scenografo e chi per altro ancora. E così iniziò una lunga stagione di studio del testo, adattamento e prove e piano piano iniziò a crearsi un “gruppo” che iniziava ad uscire dall’ottica individuale per iniziare a pensare in modo collettivo.
La Direzione del carcere sostenne l’iniziativa e non fu cosa semplice superare le resistenze custodialistiche di gran parte degli agenti di polizia penitenziaria, che vedevano la nostra sperimentazione teatrale solo come un aumento del loro carico di lavoro, cosa in parte anche vera.
E l’iniziare ad essere gruppo permise di superare con successo non poche difficoltà organizzative, si iniziò anche a pensare di far uscire da quelle mura le proposte dei detenuti, i progetti, di approfittare così, delle nuove aperture che si stavano creando grazie all’azione e alle proposte delle Aree Omogenee. Si iniziò anche a pensare di non fare della rappresentazione dell’Antigone un episodio isolato, ma di approfittare dello spettacolo teatrale per avanzare delle proposte in tema di applicazione della legge di riforma penitenziaria del 1975 che in molte sue parti, vedi lavoro, formazione, apertura del carcere all’esterno, era rimasta lettera morta o quasi.
Ne parlammo con la direzione del carcere che, subito, appoggiò l’iniziativa e, in accordo con la magistratura di sorveglianza, si cominciò ad organizzare un convegno a ridosso della rappresentazione dell’Antigone, nel quale esporre le proposte per attivare compiutamente la legge di riforma penitenziaria.
E così iniziò un duplice impegno: il giorno a scrivere a politici, amministratori, magistrati, imprenditori, sindacalisti per iniziare un percorso di comunicazione e il tardo pomeriggio in sala teatro a provare e riprovare l’Antigone. E d’improvviso le giornate non furono più lunghe. Vennero coinvolte moltissime persone e iniziarono anche corsi di studio innovativi; voglio solo ricordare un corso di economia tenuto dal prof. Massimo Finoia e un corso per il conseguimento della maturità magistrale tenuto da Laura Lombardo Radice e Germana Vetere.
Incontrammo, in quei mesi di preparazione moltissime persone e tutte contribuivano ad affinare ed arricchire le numerose proposte, tanto che nel dicembre 1983 incominciammo ad avanzare formalmente a tutti gli interlocutori la proposta di organizzare, all’interno di Rebibbia, un convegno che avesse come momento di riflessione la riforma penitenziaria del 1975 e il ruolo della comunità esterna.
Era una proposta quanto mai utopica e avveniristica, quella di organizzare un convegno con tematiche proposte dai detenuti ove interloquire con la comunità esterna tutta, ed ovviamente Luigi Turco, l’allora direttore, fu dalla parte dei detenuti con tutto il suo peso ed il suo indubbio prestigio.
Arrivarono le prime risposte interlocutorie e finalmente a maggio arrivò la sospirata autorizzazione della Direzione Generale delle carceri e della magistratura di sorveglianza di Roma per lo svolgimento di un convegno all’interno del carcere. E così l‘impegno di tutti aumentò: prove dell’Antigone, preparazione della relazione di apertura del convegno, organizzazione dello stesso, autofinanziamento delle spese vive e in tutto questo percorso ci fu vicina un’operatrice volontaria, Nicoletta Di Feo, che tanto si prodigò per facilitare i rapporti con l’esterno.
Visti i progressi da noi effettuati con il laboratorio teatrale si decise, d’accordo con il regista, di debuttare alla fine di Giugno e fu scelto lunedì 25 giugno per la prima dell’Antigone di Sofocle e venerdì 29 Giugno per lo svolgimento del convegno.
Ed iniziò così un mese di giugno frenetico e piano piano tutto il carcere ed anche gli operatori penitenziari, finché i più refrattari, furono coinvolti nell’iniziativa, grazie anche all’abnegazione dell’allora vicedirettore Maria Pia Frangiamore, che passava intere giornate con noi per eliminare tutti quei piccoli problemi che, con un’ottica puramente burocratica, alcuni operatori ponevano quotidianamente.
Nel mese di maggio, fra le varie persone che incontrammo per la preparazione del convegno vi fu Angiolo Marroni, allora vicepresidente della Provincia di Roma, che subito sposò con entusiasmo la nostra iniziativa e, come primo segno tangibile di sostegno, la Provincia di Roma con una delibera finanziò tutte le spese relative all’organizzazione delle due manifestazioni, dato che la Direzione Generale delle carceri autorizzava il tutto ma non tirava fuori una lira e fino ad allora ci eravamo autofinanziati per francobolli, la carta, la scenografia e altre piccole cose necessarie per i due eventi.
Vorrei spendere due parole su Angiolo Marroni. Il nostro rapporto iniziò con una lettera nella quale esponevamo al Vicepresidente della Provincia di Roma le nostre problematiche. Lui ricambiò con una visita a Rebibbia e da allora Marroni, prima come Vicepresidente della Provincia di Roma poi come parlamentare regionale del Lazio, è sempre stato presente all’interno delle carceri romane, guadagnandosi la stima non solo dei detenuti comuni e politici, ma anche degli operatori penitenziari e di tutti coloro che credevano nella possibilità di rendere concreto il dettato costituzionale e cioè che il condannato, anche per i più gravi reati, ha comunque diritto a un percorso riabilitativo e di reinserimento sociale. Ed ora, a vent’anni dal suo primo ingresso in un istituto di pena, Angiolo Marroni è stato eletto all’unanimità dal Consiglio Regionale del Lazio garante per i detenuti, giusto e doveroso riconoscimento ad un uomo che con delibere, leggi e semplici visite ha saputo interpretare i bisogni di cittadinanza della popolazione detenuta. E Marroni in questo rapporto ha ricevuto tantissimo, tanto che i suoi migliori amici sono fra persone detenute o ex detenute.
E il 25 giugno ci fu l’atteso debutto. Lo spettacolo fu rappresentato all’interno della seconda sezione del carcere: il palcoscenico si incuneava tra gli spettatori invitati, mentre i detenuti della sezione ed anche gli altri potevano vederlo dai ballatoi dei piani superiori. Eravamo tutti molto emozionati ed anche consapevoli della nostra pochezza come attori e si può dire che quasi tutto lo spettacolo poggiò su Roberto Bianchedi che interpretava in modo istrionico Creone, e su Roberto Zanzarelli che dava vita ad un visionario Tiresia. Roberto Zanzarelli fu quanto mai prezioso per l’allestimento delle due manifestazioni poiché seppe trascinare dapprima il gruppo teatrale e poi pian piano coinvolse quasi tutti i detenuti verso le problematiche che intendevamo affrontare nel corso del convegno e questo compito fu tutt’altro che facile.
Vi erano numerosissimi ospiti e fra gli altri ricordo Francesco Cossiga, allora Presidente del Senato, Martino Martinazzoli, Guardasigilli, e Pietro Ingrao ex Presidente della Camera.
E fu un successo, per noi, per il nostro regista, per tutti coloro che avevano creduto e collaborato con la nostra sperimentazione e dal punto di vista della sicurezza non vi fu la minima sbavatura.
Il successo fu tale che replicammo l’Antigone altre due volte: una prima volta nel luglio 1984 (ne parla Loredana Mezzabotta nel suo intervento) una seconda volta il 26 febbraio 1985 (ne parla stupendamente Pietro Ingrao in un articolo apparso su L’Unità e ripubblicato da Il Manifesto). E dopo pochi giorni si tenne il convegno, organizzato all’interno della quarta sezione.
I detenuti del carcere erano circa 220 e tutti avrebbero voluto partecipare al convegno, ma per ragioni di sicurezza la direzione Generale consentì solo 30 ingressi e come scegliere fra tanti? In una forma di sperimentazione democratica mai vista prima nei penitenziari e sempre con Luigi Turco favorevole: i 30 detenuti furono scelti liberamente da tutti in un’affollata assemblea in sala teatro; la scelta cadde fra coloro che più si erano impegnati per organizzare le due manifestazioni.
Anche la relazione introduttiva al convegno, che ebbi l’onere e l’onore di scrivere, fu sottoposta al vaglio dell’assemblea dei detenuti, emendata, arricchita e ricordo con particolare piacere che la parte più delicata, quella ove si trattava la questione della riforma degli agenti di custodia, fu approvata a larghissima maggioranza pur fra qualche mugugno e imbarazzo; non fu facile far capire ai più che detenuti ed agenti di custodia facevano parte dello stesso universo e migliorare la vita degli uni voleva dire migliorare la vita degli altri.
Ricordo ancora il caldo afoso di quel 29 Giugno e l’ultimo problema che per poco non fece saltare tutto. Il magistrato di sorveglianza Simonetta Matone aveva autorizzato l’ingresso in carcere di ben 300 persone e la possibilità per un detenuto dell’area Omogena del carcere giudiziario di Rebibbia di assistere ai lavori. Ed ecco l’intoppo; alle 14 si guasta la porta carraia del carcere, il convegno iniziava alle 15 ed allora Luigi Turco, credo con incoscienza temeraria, ordinò che la porta carraia fosse lasciata aperta. Dal luogo ove si teneva il convegno alla porta carraia vi sono circa 100 metri senza cancelli e sebbene noi tutti sapessimo del problema e della decisione del direttore ed alcuni avevano fine pena lunghissimi, nessuno approfittò della situazione, anzi posso dire con certezza che nessuno pensò di approfittarne.
E che dire del fatto che tutti e 30 i detenuti partecipanti ai lavori parlarono in modo collettivo, tralasciando il problema personale? E si che si era a contatto con autorevoli esponenti del mondo politico e penitenziario.
I lavori durarono circa quattro ore senza interruzione, senza brusii di sottofondo, con una attenzione che personalmente mai ho più vista in convegni e dibattiti, ove gli ospiti erano consapevoli di star vivendo un’esperienza fino a quel momento unica; noi invece eravamo solo presi dall’ansia che tutto filasse liscio , senza intoppi.
Noi in quel momento non capimmo la portata dell’evento che ci vedeva protagonisti; lo capimmo il giorno dopo dai media che avevano dato grande risalto al Convegno.
Nel corso del dibattito avanzammo, fra le varie proposte, quella di poter costruire una cooperativa di lavoro con soci detenuti, alla quale gli Enti locali avrebbero potuto affidare commesse di lavoro per gli alti fini sociali, in modo da poter consentire l’uscita al lavoro esterno o in semilibertà di quei detenuti che, essendo a lungo separati dalla società, non avevano opportunità per reperire un’offerta di lavoro. Nel corso del Convegno che vide la presenza di molti politici, magistrati e operatori penitenziari, fra gli altri vorrei ricordare oltre al già citato Marroni, Ugo Vetere, allora sindaco di Roma, Mario Gozzini, Giovanni Galloni, Alessandro Margara, Edmondo Bruti Liberati, Giuliano Vassalli, Luciano Violante, la nostra proposta fu ripresa e sostenuta in molti interventi. La nostra particolare settimana a Rebibbia ebbe ampio risalto sui media, l’interesse verso di noi e le nostre tematiche crebbe e, senza fermarci un attimo, proseguimmo gli incontri con amministratori e sindacalisti, portando avanti la nostra idea di costituzione di una cooperativa con soci detenuti.
Sperimentammo con successo anche una forma associativa di lavoro; infatti in 6 detenuti aprimmo la partita Iva e in accordo con la direzione del carcere demmo vita ad un laboratorio artigianale interno per il confezionamento dei pomodori. In poco più di un mese di faticosissimo lavoro producemmo oltre 60.000 barattoli di pomodoro, che, grazie anche ad un articolo di Pietro Ingrao su L’Unità furono acquistati dal comune di Roma.
Riuscimmo a pagare tutti i fornitori e ad avere un piccolo utile che ripagava in parte le nostre fatiche, ma il nostro scopo principale, quello di poter dimostrare che era possibile l’auto imprenditorialità fra detenuti, era stato raggiunto e questa era la cosa più importante. E in questa sperimentazione tanta parte ebbe Cosimo Rega.