“A mezzanotte va, la ronda del piacere…” Ma che combina l’ex Lothar, Claudio Velardi, per cui la rete, da qualche ora, lo “cerca” con tanta insistenza?

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Ieri, dopo 116 giorni (è stato postato il 20 agosto 2014) di quasi indifferenza alle informazioni e considerazioni contenute nel pezzo “CLAUDIO VELARDI, DETTO: ‘A TRIVELLA” dedicate alla figura di Claudio Velardi (ex Lothar dalemiano e ispiratore della consorteria lobbistica “Reti”), i “grafici” specifici del post, si sono impennati del 28.600%! Oggi, alle ore 16:00, va ancora meglio tanto che siamo al 400% del risultato di ieri! Vediamo a mezzanotte (Che poi, in questo blog, sono le 23:00!) di quanto “sale” il nostro piacere.

Probabilmente, in un recondito “gomito” del labirinto, affascinante e misterioso, denominato “rete”, qualcuno ha scoperto il post e, in modo più autorevole del nostro marginale e ininfluente blog, lo ha messo in evidenza. Amo, per questo, l’amica rete anche se, in un momento della mia vita, mi ha fatto soffrire, obbligandomi a divenire “pubblico”. Invecchiando, ormai, penso che non tutto il male venga per nuocere. Ad esempio, in queste ore, se penso all’onesto e appassionato politico (oltre che tifoso della Roma) Roberto Cuillo e all’arroganza con cui, un Velardi qualsiasi, lo aveva trattato, nei giorni della loro difficile convivenza politica e professionale, a Palazzo Chigi, durante il Governo D’Alema, godo come un “pazzo” a sapere di poter dire la mia, apertis verbi, di un personaggio quale Claudio Velardi. Di lui e della sua attività sempre al soldo di qualcuno. E, mentre dico la mia, rimanere, in trepida attesa (si fa per dire!), di querele od altro.

Oreste Grani/Leo Rugens

Alle ore 23:00 del 16/12/2014 sono comparsi i dati dell’innalzamento dei grafici relativi al post citato e alla figura di Claudio Velardi: + 89.150% (ottantanovemilacentocinquanta).

Con questi indici di “gradimento”, il PD renziano, ha trovato il candidato (trasversale è dire poco) al Quirinale.

Tiriamo avanti. In attesa di sapere perché tanta gente vuole  sapere del “nostro eroe”.


CLAUDIO VELARDI, DETTO: ‘A TRIVELLA

Standard Oil o ENI o Total è lo stesso

Contro ordine, compagni, Claudio Velardi non riceveva soldi (li riceve ancora?) dall’Eni perché si intende di geo politica come abbiamo ventilato nel post: Cosa sapeva di tanto importante sull’IRAQ (o di geopolitica) Claudio Velardi, da meritarsi, da parte dell’ENI, pingui parcelle di consulenza? ma perché ha fatto, a suo tempo, il funzionario del Partito Comunista Italiano, in Lucania. Punto. Se non lo sapete, ve lo ricordiamo noi, in Lucania, fino al 2030, si estrarrà petrolio. In quella terra, c’è ovviamente ben piazzato, l’ENI ma ci sono altri e tra gli altri la francese Total. Cose complicate, come tutto quanto ruota intorno al petrolio perché, come diceva il grande trafficante di armi armeno, Calouste Gubelkian, “ogni goccia di petrolio genera una goccia di sangue”. E, viceversa, diciamo noi, nella nostra semplicità. Il sangue, può essere metaforico e stare per “salute” e “inquinamento”. Ecco di cosa si interessava (si interessa?) in Lucania l’ex compagno Claudio Velardi per conto dell’ENI! Di salute e di inquinamento. Vediamo di essere circostanziati nell’evocazione perché sia chiaro, tra l’altro, il movente per cui la “saccente crapa pelata” odia tanto gli esponenti del M5S nazionale e, riteniamo, a maggior ragione, gli eletti quali rappresentanti dei cittadini lucani alla Camera e al Senato: il Senatore Vito Petrocelli e la Deputata Mirella Liuzzi Così ci dicono le nostre fonti che, come avete ormai capito, sono ben informate.

Come siamo soliti fare, entriamo nella nostra “macchina del tempo”, la tariamo sul 7 luglio 2012 e, semplicemente, andiamo a leggere l’articolo a firma di Manuele Bonaccorsi, “Basilicata, il petrolio rende poveri“, comparso sulla rivista Left. Left, se non ci sbagliamo, in inglese, vuol dire “sinistra” cioè la parte politica, per cui e con cui, si è, negli anni, qualificato e arricchito proprio il nostro eroe, Claudio Velardi. L’articolo di Bonaccorsi risulta documentato e mai smentito da nessuna delle realtà “giuridiche” citate nel pezzo. Fonte aperta, attendibile, quindi. Vuol dire che se vogliamo sapere perché mai denaro (moltissimo – un milione – secondo le voci popolari), in parte anche pubblico (lo Stato partecipa l’ENI al 30%) finisse bonificato, ogni anno, dalla Direzione Eni guidata da Stefano Lucchini nelle tasche (o nel c/c di Reti) di un personaggio “inutile” come appare Velardi a chi minimamente si dovesse intendere di strategia e di managerialità, dobbiamo chiederci quale sia la condizione generali di turlupinatura dei cittadini lucani. Se infatti, perché nulla cambi rispetto ai “quattro euro” che gli vengono attualmente riconosciuti (in realtà sono 0,2465753 euro al giorno, pro capite, che vengono versati ai lucani sotto forma di contributo carburante caricati in una apposita card) si decide di pagare Claudio Velardi, ci deve essere pure una ragione. In redazione ci chiediamo e chiediamo al senatore Petrocelli e alla deputata Liuzzi di appurare, a norma di legge, perché si ingaggia un voltagabbana di questa dimensione che, ad esempio, culturalmente, politicamente, professionalmente ha preferito e ha fatto di tutto perché  quel genio della Renata Polverini andasse a governare la Regione Lazio piuttosto che Emma Bonino? Cosa serve “il dire e il fare” di un tipo come Velardi per ragionare di diritti sacrosanti, di equità, di fine di una condizione di povertà di una intera regione? Cosa ha saputo fare Renata Polverini, ben consigliata dal nostro, per il Lazio e per i suoi abitanti? Cosa ha saputo fare Claudio Velardi per la Campania e per Napoli? Perché uno che non ne ha azzeccata una (se non i “cazzi propri”) deve essere lautamente sostenuto con il denaro pubblico? Ma, forse, tutto questo chiedere conto e suggerire ai castigamatti del M5S di appurare come stiano le cose, è superato dagli eventi perché a tagliare il budget di Velardi e dei suoi, potrebbe già averci pensato il responsabile della Divisione Pubblic Affair dell’ENI, Pasquale Salzano. O, meglio, ci auguriamo che la decisione l’abbia presa la dottoressa Camilla Palladino, in comune accordo con Claudio Descalzi. Se così non fosse, sarebbe il caso di evocare, come soluzione taumaturgica per la Lucania e i nostri mari, di fronte a tanta testardaggine da parte della dirigenza dell’Eni, il detto popolare: “tanto va Velardi al lardo, che ci lascia lo zampino”.

Oreste Grani/Leo Rugens

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Basilicata, il petrolio che rende poveri

In Basilicata si trova il più grande giacimento di oro nero d’Europa. Ma anche il maggior numero di indigenti d’Italia. Il governo prevede di raddoppiare la produzione e promette un fiume di investimenti. Ma nella regione domina lo scetticismo. Sono lontani i tempi di Mattei: «Qui l’Eni non ha portato sviluppo. Solo inquinamento»

Si narra che Enrico Mattei si oppose all’uso di macchine per il movimento terra per scavare le fondamenta del petrolchimico di Gela, nel lontano 1959. L’uomo che fece grande l’Eni aveva un obiettivo: dare lavoro al maggior numero di persone del luogo. «Era convinto che il problema principale dell’economia locale fosse la disoccupazione e la sotto occupazione. Decise perciò di utilizzare solo uomini: 4mila manovali, un esercito armato di badile e piccone, scavano le gigantesche fondazioni dell’impianto di Gela», racconta in un suo libro (Eni, Cronache dall’interno di un’azienda) Marcello Colitti, allora capo del centro studi di Eni. Nel suo ultimo discorso a Castelferrato, in Sicilia, poco prima che il suo aereo si sfracellasse al suolo in circostanze misteriose, Mattei disse: «Sarà necessario che tornino molti di coloro che sono andati all’estero, perché avremo bisogno anche di loro». Altri tempi, altra era. Quando, intorno al petrolio, nascevano scuole, strade, piccole imprese, asili. In una parola: sviluppo. Oggi invece, nell’ultima epopea petrolifera italiana, l’Eni sembra una delle sette sorelle americane che Mattei odiava tanto. E la Regione che sta diventando il Texas d’Italia, la poverissima Basilicata, sembra maledire quell’oro nero che sta sotto terra, il bacino petrolifero di terraferma più grande d’Europa. Le buche che forniscono il 6 per cento dell’intero fabbisogno energetico nazionale, i lucani le richiuderebbero con piacere. Perché finora non hanno portato né lavoro, né ricchezza. Ma solo inquinamento. Molti fumi e nessun arrosto. Poveri sul petrolio Bastano pochi dati per fornire un quadro disarmante.  Al centro oli di Viggiano, centro nevralgico delle attività estrattive lucane, l’Eni impiega solo 230 addetti. Altri duemila, circa, lavorano nell’indotto, ma in maniera molto saltuaria. Il sito della Regione Basilicata pubblica ogni giorno i dati degli addetti presenti dentro l’impianto: lunedì 2 luglio, nel centro oli, lavoravano solo 43 dipendenti Eni e 527 “contrattisti”, circa un quarto del bacino di addetti. Infatti, sui duemila “salutari” del petrolio, solo mille hanno un contratto a tempo indeterminato. E solo la metà vive in Basilicata. La regione del petrolio, sede anche di multinazionali come Barilla e Ferrero – e specialmente di Fiat, che qui ha prodotto 5 milioni di Punto – ha il più alto numero di poveri in Italia: il 30,1 per cento delle famiglie. Secondo l’ultimo rapporto di Banca d’Italia ha un Pil in discesa da ormai due anni e un numero di inattivi doppio rispetto alla media italiana. E, quasi in beffa alle promesse di Mattei, dalla Lucania si continua a emigrare. Ora che la produzione di petrolio potrebbe raddoppiare, passando da 80mila a 175mila barili al giorno, in Lucania si tirano le somme, vantaggi e svantaggi, pro e contro, di oltre 15 anni di difficile convivenza con gli idrocarburi. Il sindacato alza le barricate: «L’Eni non ha fatto nulla per favorire la nascita di un indotto locale», denuncia Alessandro Genovesi, segretario regionale della Cgil. «Il petrolio non ci ha portato nessun vantaggio, se non un aumento del 40 per cento delle malattie respiratorie, per questo ci opponiamo con forza all’ipotesi di un raddoppio della produzione», attacca Vito Mazzilli, presidente del Wwf Basilicata. E anche il governatore regionale, il democratico Vito De Filippo, strenuo difensore del petrolio lucano, mette i puntini sulle i: «Il petrolio non porta necessariamente occupazione e sviluppo, è un’attività invasiva, con effetti negativi e perdita di chance per il territorio. Solo in presenza di un programma concreto di investimenti occupazionali e infrastrutturali daremo il via libera all’aumento della produzione».

Ultima occasione

La verità è che chi più guadagna dal petrolio lucano è il fisco. Il prelievo complessivo sul greggio estratto è di circa il 65 per cento, tra Irap, Ires, Iva e accise. A cui si aggiungono i dividendi che il colosso petrolifero versa nelle casse dello Stato. Non è un caso, dunque, che col recente decreto sviluppo il governo abbia cercato di incamerare nuove entrate proprio dall’aumento dei barili estratti dai pozzi lucani. Dei nuovi introiti, sostiene il governo, una parte dovrà essere utilizzata «per lo sviluppo di progetti infrastrutturali e occupazionali di crescita dei territori di insediamento degli impianti produttivi e dei territori limitrofi». Le royalties pagate a Regione e Comuni si fermano invece al 10 per cento (ma fino al 2009 erano ancora più basse, appena il 7): le più basse d’Europa. Dal 1998, anno di apertura dei primi pozzi, ad oggi, i lucani hanno incassato circa 800 milioni di euro. Soldi usati per la sanità, l’università, per tappare i buchi di una regione ricca di industria e di povertà. Quasi per nulla spesi in progetti di sviluppo duraturi. E in parte sprecati in una “idrocarburi card” da 90 euro l’anno di benzina, consegnata a tutti i residenti lucani dotati di autovettura. Dall’aumento della produzione i lucani potrebbero ricavare qualcosa come 6 miliardi di euro entro il 2030, data nelle quale si prevede l’esaurimento dei pozzi. «È un’occasione da non sprecare, l’ultima forse per questa Regione, destinata a uscire dal sostegno dei fondi strutturali europei», afferma Genovesi della Cgil. «Bisogna puntare alla costruzione di una filiera dell’estrazione a km zero, che faccia sviluppare intelligenza e know how sul territorio. Pensando anche al futuro, all’uscita dal petrolio, alla nascita di un distretto energetico verde». Secondo il sindacato, infine, bisogna investire nella qualità del lavoro e nella sicurezza ambientale: «Vogliamo realizzare un contratto di sito, che metta clausole sociali negli appalti. Oggi, infatti, quando ogni due o tre anni cambiano gli appalti di Eni, non esiste alcuna certezza di reimpiego per i lavoratori lucani dell’indotto. E serve, infine, una rete di monitoraggio terza, indipendente, sulle emissioni. E ancora, la costituzione di un presidio fisso del 118 e dei Vigili del Fuoco, l’aumento della zona di rischio e un centro antiveleni nel vicino ospedale». Diritti e misure di prevenzione semplicissimi, che nella Basilicata delle occasioni mancate sembrano ancora miraggi.

Ambiente

Divisi tra favorevoli e contrari alle estrazioni, i lucani sono d’accordo almeno su una cosa: il petrolio pulito non esiste. Se ne sono accorti nell’aprile del 2011 22 operai di Viggiano, impegnati in un capannone a pochi metri dal centro oli. A fine turno, verso le 17, cominciano ad avvertire bruciori agli occhi e alla pelle. Molti si piegano su se stessi per vomitare. Finiscono tutti in ospedale. Forse a causa dell’idrogeno solforato, emesso dagli impianti di Viggiano, dove il petrolio grezzo viene separato dallo zolfo, producendo fumi velenosi. «Le rilevazioni di inquinamento dell’area sono carenti e non indipendenti», attacca Mazzilli del Wwf Basilicata. «I dati ufficiali sembrano tutti sotto le soglie di pericolo, ma di poco: è come avere la febbre a 37 per tutta la vita. E non sono dati indipendenti: le rilevazioni le fornisce solo l’Eni. Non esiste un registro tumori e dell’agenzia regionale per l’ambiente, che pure dovrebbe valutare con indipendenza l’inquinamento, non ci fidiamo». L’agenzia, infatti, ha una propria centralina di rilevazione solo dallo scorso anno. Ed è stata toccata dall’inchiesta “La Fenice”, nel 2011. L’accusa: i dirigenti dell’Arpab nascondevano i gravi danni ambientali procurati dall’inceneritore di Melfi, proprietà della multinazionale francese Edf. Se a questo si aggiunge l’indagine “Totalgate” (mazzette per la realizzazione di un nuovo impianto petrolifero a Tempra rossa, controllato dalla francese Total), si capisce che non c’è da stare tranquilli.

Sproporzioni

Il presidente della Regione, però, ci tiene a frugare ogni dubbio: «La rilevazione dell’inquinamento funziona benissimo, ha standard tecnologici elevatissimi. Certo, inizialmente il monitoraggio ambientale non era tarato sul livello del più grande giacimento europeo di greggio. Neppure la Lombardia o la Bavaria sarebbero stati pronti», si difende De Filippo. Il problema è che è molto difficile, per una Regione con un bilancio di due miliardi di euro e 500mila abitanti, trattare con un’azienda con un fatturato di 109 milardi, 6 miliardi di utili e 75mila dipendenti. La sproporzione è lampante. E l’Eni non è più l’azienda totalmente pubblica di Mattei, che cercava sviluppo per il territorio e non profitti. «Per questo chiediamo un intervento dell’esecutivo, per firmare un memorandum che porti a questa regione lavoro e sviluppo. Il governo, d’altronde, controlla il 30 per cento dell’azienda». Solo che l’Eni di un tempo non esiste più. Oggi, in Basilicata, si avvale come consulente di Claudio Velardi, ex spin doctor di D’Alema a palazzo Chigi, ex funzionario del Pci proprio in Basilicata, oggi lobbista di professione. «Credo si occupi di comunicazione istituzionale. Ha contattato anche me», racconta il presidente De Filippo. Non si capisce, insomma, dove finisca la politica e dove cominci l’impresa.

Manuele Bonaccorsi, Left, 7 luglio 2012

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