Ieri era il 29° della Strage di Fiumicino (1985) e non ci vogliamo dimenticare di chi è stato amico di Gheddafi a sua volta protettore e finanziatore del terrorista Abu Nidal
Qualche giorno addietro, dalla Turchia, abbiamo sentito blaterare, il nostro Capo del Governo, di “paura e di coraggio”. Argomento serio, dicotomico, attinente, come potete immaginare (nulla è prioritario ma certamente la paura e il coraggio nelle loro dinamiche costanti non vanno sottovalutate), a quanto ci proponiamo di far insegnare nella Scuola di Intelligence che – lentamente – andiamo a realizzare.
Ci avrebbe fatto piacere che il premier Matteo Renzi, dalla Turchia, avesse avuto il coraggio di dire che neanche in Italia (dove spesso se lo meriterebbero per il motivo opposto) è giusto arrestare i giornalisti solo perché chiedono di sapere come stanno le cose o denunciano scandali o scrivono per allertare i cittadini dei pericoli che corre la libertà di opinione. Figurarsi in Turchia dove, invece, fanno il loro dovere. È anche vero che quel furbone di Recep Tayyip Erdoğan ha aspettato a fare la sua retata di persone che gli rompevano i coglioni il giorno dopo la visita di Renzi. Questa è la prova che la nostra diplomazia andava cercando per poter dichiarare che, nel Mediterraneo, ci stimano, ci rispettano e che, in qualche caso, ci temono. Comunque ci avrebbe fatto piacere che questi principi di rispetto delle libertà il “mezzo toscano” li avesse enunciati davanti a Erdoğan che, anche nei giorni precedenti gli arresti non ci sembrava ben disposto con la libera informazione e, in generale con chi gli si opponeva culturalmente e politicamente.
La verità è che si è ripetuta la vecchia storia di un malinteso senso di quella semplificazione para-intelligente del pensiero dell’autore del “Il Principe” che va sotto l’enunciato, “il fine giustifica i mezzi”. Anche durante la recente visita in Turchia il nostro rappresentante (per fortuna “a tempo determinato”) Matteo Renzi, ha fatto “pippa” su l’aria “poco libertaria” che tira da quelle parti. La verità è che, da troppi anni, prevale, da parte italiana, la connivenza fantozziana con il potente di turno o con chi si presume di poter fare affari. Questa del fine che giustifica i mezzi la consideriamo, da sempre, una piccola paraculata utile solo a tentare di mascherare l’assenza assoluta di una qualunque strategia geo politica elaborata autonomamente e capace di delineare un nostro ruolo altro dall’essere lo zerbino mediterraneo o il comprimario di affari spesso costruiti artatamente per poter far girare tangenti, “estero su estero”. Che pretende di diverso questo farneticatore di Leo Rugens? Se uno è “Fantozzi” non può non comportarsi come farebbe “Fantozzi”. Se uno cerca complici per far soldi, quelli trova. A volte trova solo i complici e neanche i soldi come nel caso (Libia) che segue. La verità è che, viceversa, i mezzi anticipano il fine, come insegna il grande stratega Mohandas Karamchand Gandhi, costruttore dell’Indipendenza Indiana (1947) e vincitore dell’Impero Inglese. Cosa non secondaria e mai abbastanza ricordata, lui sì fratello massone affiliato alla Loggia – progressista e democratica – “Thomas Paine”. Punto. Se fai il lecca culo durante quello che vorresti spacciare per un momento tattico, come unico risultato otterrai che gli altri si sollazzino con la tua lingua. Punto. Sempre che tu, il lecchinaggio lo sappia fare come più aggrada al tuo padrone di turno. Così è stato, ad esempio, nel caso del rapporto osceno con Muammar Gheddafi e la sua cricca.
Ieri, 27 dicembre 2014 (noi siamo fatti così!), ricorreva il 29° anniversario della strage di Fiumicino (17 morti e oltre 100 feriti nel corpo e nella mente) che, per chi non lo sapesse o non lo volesse ricordare, è in Italia. Vienna è in Austria e anche il suo aeroporto fu attaccato, nelle stesse ore, il 27 dicembre 1985, dagli uomini di Sabri Khalil el Banna, detto Abu Nidal. A Roma e a Vienna. Sempre con la protezione politica, logistica e finanziaria di Gheddafi che si libererà del capo terrorista, espellendolo dalla Libia (perché lo raccogliesse, a Baghdad, Saddam Hussein), solo il 20 aprile del 1992. Ma già all’epoca delle stragi qualcuno di noi, in particolare nei nostri servizi, leccava il culo al beduino e ai suoi (come poi si è visto) inutili figli. Anche l’attacco alla Sinagoga di Roma del 1982, dove morì il piccolo Gadiel Gay Tachè, fu opera di Abu Nidal e, di fatto, quindi di Gheddafi. Così l’attacco al “Caffè de Paris”, in piena via Veneto, a Roma, nel settembre del 1985. Per non parlare dei 15 feriti, tra i passanti, quando gli assassini mandati dalla coppia Gheddafi/Nidal, attaccano la sede romana della British Airways, sempre in quei giorni. Tutte storie che i nostri servizi tolleravano in una visione miope della strategia mediterranea e poi perché, come diciamo sempre … i nostri uomini della sicurezza hanno il vizio di “attaccare l’asino dove il padrone vuole”. E il padrone, in Italia, era ed è, l’oligarchia partitocratica che “piazza” quelli che reputa più fedeli ed acquiescenti a dirigere i “servizi”.
Alla fine, ci siamo ritrovati presi a calci in culo da tutti e con l’amaro in bocca di aver nettato il deretano di quel lurido cammelliere. In queste ore, ad esempio, va ricordato che quel delinquente abituale di Silvio Berlusconi (che si aggira sempre più libero nel nostro Paese), fu l’amico più intimo e servile del terrorista Muammar Gheddafi. Va ricordato perché, il teleimbonitore lombardo, mai più possa avere una qualche responsabilità politica in Italia. Va ricordato, inoltre, che suo fratello Paolo, quando Gheddafi imperava, si proponeva per costruire alberghi lungo la litoranea libica prospiciente il mare nostrum, pacificato (non ci si crede, eppure queste teste di cazzo che farneticavano di affari con la Libia quando il sottoscritto sosteneva che Gheddafi sarebbe sparito, quanto prima, dalla faccia della Terra, sembravano dei tipi normali, anzi, affidabili agli occhi di molti disperati imprenditori) dal patto sancito tra il grande statista Silvio Berlusconi e il cammelliere Muammar Gheddafi. Con il dettaglio dei 5 miliardi di dollari che gli italiani avrebbero dovuto dare alla combriccola DI MALFATTORI ITALO-LIBICI PERCHÉ SE LA SPARTISSERO, ESTERO SU ESTERO. Altro che il ritorno di Forza Italia. Altro che il “Patto del Nazareno”. Berlusconi, accordandosi affaristicamente, culturalmente, politicamente con il dittatore assassino Muammar Gheddafi è come se si fosse macchiato (concorso morale?) delle stesse stragi che il cammelliere ordinava, finanziava, consentiva. Da queste parti pensiamo che Silvio Berlusconi e suo fratello Paolo siano stati, anche nella vicenda libica, dei traditori di quello che ancora avanza (nonostante loro) del nostro sgarrupato (ma ancora da noi amato) Paese. Lo pensiamo sempre e in particolare in queste ore che ci riportano all’anniversario delle Stragi di Vienna e Fiumicino. Punto.
Oreste Grani/Leo Rugens
CHE FINE HA FATTO IL TRATTATO DI AMICIZIA, SOTTOSCRITTO A BENGASI, IL 30 AGOSTO 2008, TRA LA LIBIA E L’ITALIA?
Scriveva Eraclito: “Chi è desto vive in un mondo unico e comune a tutti; chi dorme si ritira in un suo mondo particolare“. Ogni tanto, invecchiando, mi chiedo: “sogno o son desto?”
Mi è accaduto recentemente di dover consultare un fascicolo che avevo denominato, prudentemente e con il solito pizzico di preveggenza (il dossier era stato istruito nel luglio 2008 poche settimane prima della firma dello storico trattato di Amicizia e Cooperazione tra la Libia e l’Italia), “La Libia dopo Gheddafi, dopo Berlusconi, dopo Guarguaglini”. Confrontate, cortesemente, le date con quanto poi è accaduto. Ovviamente, potete anche non credermi. Per me, fa lo stesso, perché in verità, le cose sono andate così come ve le racconto. Un, due e tre: fante, cavallo e re! Tutte e tre, fuori campo, entro pochi anni dalla previsione che mi era sembrato opportuno e facile fare. Questo, è ciò che conta. Il resto è una punta di vanità degli uomini a cui è capitato spesso di essere inascoltati.
Dentro al dossier, insieme alle solite notizie di fonte aperta, ho ritrovato l’informazione/indizio che non riporto volutamente essendo lo spunto, da cui ero partito, un fatto di marginale significato per i più e, viceversa, elemento di previsione certa per me e i miei collaboratori del tempo. Glisso anche per il gusto che ancora provo a ricordarci, nella struttura allocata a San Lorenzo in Lucina, persone capaci di esercitare “l’arte di estrarre dalla realtà quello che c’è ma non si vede” a differenza dei troppi che, “attaccando l’asino dove il padrone vuole“, difficilmente intra-vedevano al di là della punta delle scarpe. Il dettaglio/informazione/indizio che, di cui parlo, mi aveva consentito di prevedere, con assoluta certezza, la fine del gioco delle tre carte tra Silvio Berlusconi, Muammar al-Gheddafi e il gruppo di “costruttori/imprenditori” che ambivano mettere le mani sul bottino rappresentato dai cinque miliardi di dollari che gli accordi bilaterali prevedevano che l’Italia pagasse. Il trattato impegnava il nostro “colpevole” Paese, nei successivi 20 anni, a versare 250 milioni di dollari all’anno, di risarcimento alla Libia per i misfatti perpetuati durante il periodo coloniale. Per essere precisi, solo tre miliardi di dollari (2,35 miliardi di euro) era previsto che fossero girati a imprenditori italiani per la costruzione della autostrada costiera (1.700 chilometri) che doveva collegare Rass Ajdir – Imsaad. Che pappata!
Tutti disponibili a subire qualunque cosa dal dittatore Gheddafi pur di mettere le mani, estero su estero, su un bel gruzzolo, fonte di possibile “nero”. Si trattava di costruire una superstrada a due corsie più una di emergenza (per le autoambulanze, dico io visto come si è messa ora la situazione) in ciascuna direzione, comprensiva di ponti, incroci e attraversamenti, completa delle dotazioni di sicurezza. Altra pappata quella della sicurezza! L’arteria sarebbe andata dalla Tunisia all’Egitto. Quali geni della scenaristica geo politica mediterranea si annidavano, solerti, in quegli anni, alle spalle del nostro duce di turno, il cav. Silvio Berlusconi e di suo fratello Paolo? Possiamo un giorno, quando andrà in pensione, vederlo in faccia, questo analista d’intelligence che tutto il mondo ci invidia? Possiamo provare a chiedergli per chi lavorava, in realtà, in quegli anni ? Quale nostro competitore storico, nel Mediterraneo, secondo voi, attenti e specializzati lettori di questo blog, “coltivava” l’estensore dei rapporti che tanto hanno ingannato la nostra comunità? Chi rassicurava i nostri politici/affaristi sulla stabilità del regime libico/gheddafiano che “non appariva in alcun modo in discussione”? Chi affermava che non c’erano segnali di rigetto della persona di Gheddafi nell’opinione pubblica libica? Chi ha agito con leggerezza tale da consentire al Servizio di incorrere in uno dei flop maggiori della sua storia (in politica estera), bucando totalmente le informazioni rispetto alle rivoluzioni del Nord Africa e nel Maghreb? Come è possibile che (come afferma Piero Messina nel suo libro – mai smentito – “Il cuore nero dei servizi”) poche settimane prima della rivolta in Tunisia e della crisi ancor più drammatica libica, i nostri analisti presentassero al COPASIR, focus rassicuranti sulla stabilità dell’area? Chi, tra i politici, consentì all’ammiraglio Bruno Branciforte, alla vigilia della riforma del 2007, con i licenziamenti e i prepensionamenti scattati nel servizio segreto militare, di far perdere, quasi totalmente, alla futura AISE, la sua capacità di analisi e di sensibilità in loco? Chi consentì a Branciforte di accecarci alla vigilia (in questo campo, tre/quattro anni, sono “un batter di ciglia”) di così importanti avvenimenti?
Torniamo al business che intanto, della sovranità e degli interessi dell’Italia e di un suo ruolo nel Mediterraneo e in Africa, non gliene frega un cazzo a nessuno. Mentre si decideva di depredare gli italiani, solo all’annuncio, di questi business, il 16/8/2010 alle ore 9.45, Milano Finanza, nelle sue notizie caldissime, evidenziava che gli accordi con la Libia spingevano, in alto, Impregilo e Astaldi. Tutti su di giri in Piazza Affari. Che pappate! Che fine ha fatto tutto questo? Che fine hanno fatto questi ciucci presuntuosi dotati di tali capacità di analisi da addirittura “pesare” la rapidità di quegli incassi previsti, vista la stabilità del regime e l’autorevolezza, sulla “cassa”, di cui disponeva (da buon dittatore) Gheddafi? Avevano ragione quei giornalisti specializzati (in realtà era una giornalista, tale F.G . di cui riporto solo le iniziali per una forma estrema di pudore nello sfottimento che si merita) intendendo, però, quando alludevano ad una cassa sicura, a quella “da morto” per Gheddafi!
In quegli stessi giorni, agosto 2010, mentre era atteso a Roma “il re dei re”, tende e corani annessi, le polemiche giornalistiche si spostarono su altro per motivi che ancora mi sfuggono: l’Unità in testa, richiama l’attenzione sui rapporti d’affari “televisivi”, tra il solito Silvio Berlusconi e il solito Tarak Ben Ammar. I giornali sono tutti interessati a gossip su scambi d’affari “multimediali” con Gheddafi che dovevano passare per NessmaTV e PrimaTV. In quei giorni, troviamo il solito avvocato Ghedini impegnato a smentire. “Becchime per i polli”, direbbe l’americano Michael Ledeen. Avendo, anche questa volta, lui che se ne intende, ragione.
Che fine ha fatto tutto questo?
Leo Rugens