Zlabya, l’appassionata di Chomsky, è una collaboratrice “autentica” ma, visti i tempi, prudentemente, usa uno pseudonimo
Dopo lo scherzetto che vi abbiamo fatto di una Valentina Nappi (facendolo di fatto anche a lei che si è perciò incazzata e ci ha intimato di smetterla di attribuirle i nostri “pensieri”) che ci scriveva condividendo con noi le sue opinioni sui più diversi argomenti, non vorremmo che voi pensaste che “Zlabya e il suo gatto” fossero un’altra nostra invenzione. Non solo Zlabya esiste (ricorderete sicuramente la rubrica di scelte fotografiche metaforiche che per un periodo hanno gratificato questo blog e che la nostra bella, intelligente e sensibile “gattara” ha promesso di riprendere) ma, come potete leggere, da qualche giorno, abbiamo scoperto che ha una vera passione per uno dei massimi linguisti del mondo: il “pensante” Noam Chomsky. Questa passione e conoscenza, portano, Zlabya a pescare brani e, nello sceglierli e pubblicarli per voi/noi a guidarci nella vasta e complessa produzione dell’attento e originale commentatore/analista di politiche interne statunitensi ed internazionali.
Quando Zlabya, scelto il brano, usa il “grassetto”, ci sembra che stia svolgendo un ulteriore servizio di “zoommata” su alcuni temi che ci sentiamo stimolati ad ampliare. Ad esempio, nel post “Noam Chomsky. Fabbricare l’opinione”, Zlabya (o il suo gatto?) evidenzia la frase “…quindi bisogna spronarla e per spronarla occorre spaventarla” riferendosi alla gente.
Ringraziando l’oggetto della passione di Moujroum/Imhotep (è il gatto di Zlabya che ha due nomi e che, beato lui, perdutamente innamorato se la gode come a noi non è dato di fare), proviamo a rispondere allo stimolo ricevuto. Zlabya è doverosamente e adeguatamente seria quando tratta i pensieri di Chomsky sullo “spavento indotto” ma noi che non siamo Zlabya ne tantomeno Chomsky, scegliamo di essere più leggeri ed effimeri e ci ritiriamo dietro le parole di Francois Truffaut a proposito di un grande maestro di quanto attinente “lo spavento da indurre” ma, in questo caso, a semplice scopo “ludico”: Alfred Hitchcock.
Dice Truffaut di Hitchcock: “Quest’uomo che meglio di ogni altro ha filmato la paura è lui stesso un pauroso e suppongo che la sua riuscita sia legata a questo tratto del suo carattere. Lungo tutta la sua carriera Alfred Hitchcock ha provato il bisogno di proteggersi dagli attori, dai produttori, dai tecnici, perché le minime debolezze o i più piccoli capricci di uno di essi poteva compromettere l’integrità di un film. Per lui il modo migliore di proteggersi era quello di diventare il regista da cui tutte le star sognano di essere dirette; diventare il produttore di se stesso;saperne di più, dal lato tecnico, degli stessi tecnici.
Gli restava ancora da proteggersi dal pubblico e per questo Hitchcock ha cominciato ad affascinarlo terrificandolo, facendogli ritrovare tutte le forti emozione dell’infanzia quando si gioca a rimpiattino dietro i mobili della casa tranquilla, quando si sta per essere presi a mosca cieca, quando la sera nel proprio letto, un giocattolo dimenticato su un mobile diventa una forma misteriosa e inquietante.
Tutto questo ci porta al suspence che certi – senza negare che Hitchcock ne sia il maestro – considerano come una forma inferiore di spettacolo mentre è, in sé, lo spettacolo. Il suspence è prima di tutto la drammatizzazione del materiale narrativo di un film o almeno la presentazione più intensa possibile delle situazioni drammaticheUn esempio. Un personaggio esce di casa, sale su un taxi,e corre verso la stazione per prendere un treno. È la scena normale all’interno di un film medio. Ora, se prima di salire sul taxi quest’uomo guarda il suo orologio e dice:” Mio Dio, è spaventoso, non prenderò mai il treno”, il suo percorso diventa una pura scena di suspence, perché ogni semaforo, ogni incrocio, ogni vigile, ogni cartello stradale, ogni frenata, ogni movimento della leva del cambio vanno a intensificare il valore emozionale della scena. L’evidenza e la forza persuasiva dell’immagine sono tali che il pubblico non si dirà: “In fondo, non ha poi così fretta”, o meglio: “Prenderà il prossimo treno”. Grazie alla tensione creata dalla frenesia dell’immagine, l’urgenza dell’azione non potrà essere messa in dubbio. Una tale decisione di drammatizzazione non può funzionare senza arbitrarietà, ma l’arte di Hitchock sta proprio nell’imporre questa arbitrarietà contro cui si ribellano a volte gli “spiriti forti” che parleranno allora di inverosimiglianza. Hitchock dice spesso di non curarsi della verosimiglianza.
Per la verità, organizza i suoi intrecci partendo da una straordinaria coincidenza che gli fornisce la situazione forte di cui ha bisogno. Poi, il suo lavoro consiste nel nutrire il dramma, nell’annodarlo sempre più stretto dandogli il massimo di intensità e di plausibilità prima di scioglierlo molto rapidamente dopo che ha raggiunto il parossismo.“
Questo nella finzione cinematografica pensata e voluta dal regista.
Nel “film” del potere, nella rappresentazione della pace e della guerra, della sopraffazione di alcuni su altri, spesso nessuno scioglie niente e il parossismo è la condizione in cui “i produttori” pretendono di far vivere gli “spettatori paganti”. Grazie Truffaut, grazie Hitchcock, grazie Chomsky, grazie soprattutto a Zlabya a al suo gatto Moujroum/Imhotep.
Oreste Grani/Leo Rugens sempre più invidioso del gatto.