A proposito di ISIS, una riflessione di Aldo Giannuli sull’ideologia antiterrorista

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… non pensate di uscire indenni dai metodi di cui vi servite. È possibile che il fine giustifichi i mezzi, ma c’è un prezzo da pagare e il prezzo siamo di solito noi stessi

Chi avesse avuto il piacere di vedere il film “A Most Wanted Man – La spia” di Anton Corbijn – tratto dal romanzo di John Le Carré Yssa il buono – con un crepuscolare Philip Seymour Hoffman, non ha potuto non apprezzare un passaggio chiave della narrazione, ovvero il tentativo da parte dell’agente dell’antiterrorismo Günther Bachmann (Hoffman) di “arruolare” l’islamico cattivo, il dott. Faisal Abdullah, dopo averne a suo tempo arruolato il figlio.

Faisal Abdullah è un predicatore o intellettuale o “islamico moderato”, all’apparenza, che dietro la facciata di musulmano dialogante destina una percentuale dei fondi che raccoglie a fini caritatevoli per finanziare il terrorismo. Bachmann riesce a ottenere le prove della sua colpevolezza e quando sta per incastrarlo, potendo così ricattarlo e quindi “arruolarlo”, interviene a tradimento la CIA che rapisce il dottore malandrino in una scena da extraordinary rendition del tutto simile a quella che, in quel di Milano, portò al rapimento di Abu Omar.

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Lo spettatore che non frequentasse il “mondo reale” o che non avesse letto Come funzionano i servizi segreti di Aldo Giannuli rimarrebbe sicuramente interdetto dalla spregiudicatezza di un Bachmann il quale intende la lotta al terrorismo in un modo in parte antitetico a quello spacciato comunemente sulle colonne dei quotidiani o nei film di 007.

Bachmann dal canto suo si giustificherebbe dicendo che ogni mezzo è buono per raggiungere il fine, anche se ciò dovesse violare un po’ di leggi e causare un po’ di morti. Facciamolo dire ad Aldo Giannuli:

L’ideologia antiterrorista parte da un errore di base; individua il suo nemico in un criminale che ha delle motivazioni politiche, mentre si tratta, al contrario, di un soggetto politico che fa ricorso a metodi sicuramente sanzionati. Questo, ovviamente, non significa rinunciare all’aspetto repressivo (comunque inevitabile), né scegliere necessariamente la linea della trattativa o tantomeno della resa, ma affrontare lo scontro subordinando l’aspetto repressivo a quello politico. La politica può fornire gli strumenti per penetrare e dividere l’avversario, privarlo di alleati, scoraggiarlo e indurlo ad abbandonare il conflitto armato.

In questo approccio gioca pesantemente l’influenza dei servizi segreti che, come abbiamo detto, sono i deuteragonisti dello scontro. I servizi, come ogni altro attore, sono portati a enfatizzare l’indispensabilità del proprio ruolo. Ma l’uomo dei servizi e il combattente clandestino si assomigliano molto di più di quanto ciascuno dei due non sarebbe disposto ad ammettere. Fatte salve le ovvie differenze politico-ideologiche, sono entrambi combattenti nell’ombra che usano l’arma psicologica prima di qualsiasi altra. Soprattutto, c’è una ambiguità di fondo per la quale ciascuno ha nell’altro il nemico, ma anche il potenziale alleato.

Per comprendere questo particolare atteggiamento psicologico dei servizi, proponiamo la «metafora di Bin Ladin»: qualsiasi militare sogna di ucciderlo in un conflitto campale, qualsiasi poliziotto sogna di ammanettarlo e portarlo in tribunale. L’uomo dei servizi sogna di reclutarlo. Il combattente irregolare, da parte sua, è indotto necessariamente a cercare l’alleanza di un qualche servizio segreto che lo aiuti nella lotta. Dunque il suo nemico è il servizio segreto del suo Paese ma un altro servizio segreto può essere il suo alleato.

Durante il Novecento, i servizi segreti di tutto il mondo hanno usato i movimenti di lotta armata come «mezzo di contrasto» della loro azione […]

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I servizi segreti non sono affatto nemici dell’insorgenza in quanto tale e dei suoi metodi clandestini in nome della legalità, ma, più semplicemente, sono nemici della propria insorgenza, e disponibilissimi ad appoggiare quella di altri Paesi contro i propri avversari.[…]

Carlo Galli sostiene che l’asimmetria del conflitto fra Stato e terrorismo si pone come difformità anche sul piano dei valori (oltre che su quello degli armamenti e dello status). Al contrario, almeno per quanto riguarda i servizi, questa contrapposizione valoriale non esiste e i due fenomeni sono perfettamente speculari. Ed è a partire da questa considerazione che possiamo ricostruire la storia del «terrorismo» nel XX secolo.

Loretta Napoleoni, esaminando il fenomeno dal punto di vista economico, lo divide in tre fasi: il finanziamento, la privatizzazione e la globalizzazione. La prima fase fu un prodotto indiretto della Guerra fredda e giunse nei tardi anni Settanta, quando le organizzazioni terroristiche cercavano (e con successo) di autofinanziarsi con rapine, estorsioni, contrabbando ecc. La fase della globalizzazione è giunta alla fine degli anni Novanta con la deregolamentazione dei mercati finanziari internazionali, che ha fatto sì che le organizzazioni terroristiche più importanti diventassero soggetti pienamente integrati nei flussi di capitale finanziario.

Dal punto di vista dei servizi segreti, ovviamente, il terrorismo è uno dei settori di intervento di primissima importanza; la il loro scopo, più che debellare il terrorismo (obiettivo che riguarda la propria insorgenza interna), è quello di attuare il più vasto controllo mondiale del fenomeno da potere usare in funzione delle proprie strategie. (Come funzionano i servizi segreti, pagg. 246-249)

Difficile immaginare che il mondo diventi un posto migliore visto come funziona il mondo reale.

A differenza degli attori, che mimano la realtà, gli agenti la costruiscono.

Dionisia

P.S. La rete ci ha chiesto un parere circa lo spropositato acquisto di armi che pone l’Arabia Saudita al primo posto nel mondo. Ebbene, siamo proprio certi che tali armi, oltre a generare cospicue tangenti, rimarranno tutte in dotazione delle forze armate saudite?

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