Edoardo Montolli e la sua versione sul caso Kercher/Guede/Knox/Sollecito

Baskerville

Se Giocchino Genchi ha scelto Edoardo Montolli per scrivere, a quattro mani, il capolavoro/bibbia “Il Caso Genchi – Storia di un uomo in balia dello Stato”, Aliberti editore, ci deve essere stata pure una qualche ragione. Oltretutto, le 983 pagine, hanno la prefazione di Marco Travaglio che di giustizia, tribunali e “capacità investigative” se ne intende da quando era – professionalmente parlando – “bambino”. Edoardo Montolli, quarantenne lucido e informato come pochi suoi coetanei, scrive di crimini, da sempre. Bene, se è vera la tesi di Leo Rugens sull’attendibilità delle fonti, mai Genchi avrebbe scelto “un superficiale” per redigere la sua difesa strategica e con essa il doveroso ristabilimento della verità relativa alle sue attività professionali; mai Travaglio avrebbe offerto la sua prefazione ad un binomio di “chiacchieroni”. Ritengo quindi, a prescindere dal mio giudizio che poco conta, estremamente affidabile il pensiero/ricostruzione di Edoardo Montolli sulla tragica fine di Meredith Kercher, legata a quella del suo assassino Rudy Hermann Guede, e dei suoi “non assassini”, Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Ve la propongo e richiamo – al tempo stesso – ancora una volta, l’attenzione dovuta ai criteri di reclutamento, selezione, formazione del personale adibito alle attività investigative. Temo che, anche questa volta, come per il “Pirata Pantani” (PANTANI, FORSE, È STATO UCCISO: LA “PERFEZIONE” DEL CRIMINE È SPESSO LEGATA ALLA “IMPERFEZIONE” DELLE INDAGINI) e mille altri casi, ci si trovi di fronte ai danni del dilettantismo degli investigatori. Con tutto quello che ne consegue dove, alla fine, per capire se ci si trovi in presenza di prove vere, false o autentiche, ci vuole per forza una super esperta-principessa del Foro quale è Giulia Bongiorno. Se non puoi pagare il talento e l’autorevolezza del avvocato Bongiorno, ti si può “fare notte” e qualcuno, per sciatteria o inadeguatezza professionale, può buttare la chiave della tua libertà. Per sempre.

Oreste Grani/Leo Rugens


Storia di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, due ragazzi travolti dalla giustizia

Ecco come i due giovani studenti finirono nei guai in una fredda mattina di novembre. Una girandola suggestiva di sospetti, con un dettaglio che gli inquirenti hanno sempre trascurato: Raffaele non conosceva Rudy Guede, unico condannato per il delitto. E Amanda l’aveva incrociato solo un paio di volte

La mattina del 2 novembre 2007 una donna si presenta alla polizia postale di Perugia. Dice che il giorno prima ha ricevuto una telefonata anonima che annunciava la presenza di una bomba a casa sua. Ha chiamato i carabinieri che non hanno trovato nulla di anomalo. Senonchè, poco prima, in giardino, il figlio ha trovato due telefoni cellulari. Si è insospettita ed è venuta a denunciare l’episodio. I poliziotti identificano i numeri di telefono, la scheda appartiene a una giovane italiana, ma non la usa lei. L’ha data ad una delle sue tre compagne di stanza, una ragazza inglese, Meredith Kercher,  ventidue anni, originaria di Soutwark, Londra, studentessa all’Università di Leeds in Studi Europei, giunta in Italia due mesi prima grazie al programma Erasmus. Due agenti vanno a controllare. Siamo in via della Pergola, a poco meno di un chilometro da dove i cellulari sono stati ritrovati.  Lì fuori c’è un’altra delle studentesse che convive con Meredith, Amanda Knox, che di anni ne ha venti.

È appena arrivata all’appartamento col suo nuovo fidanzato, con cui si frequenta da una decina di giorni, Raffaele Sollecito. Ha dormito a casa di lui. Quando è tornata ha trovato la finestra di una stanza rotta da una pietra: deve esserci stato un ladro. Raffaele ha già chiamato il 112.

Anche le altre due ragazze italiane, Laura e Filomena, che stanno in via della Pergola, hanno dormito via, una è proprio fuori città. Dovrebbe almeno esserci Meredith, ma la sua stanza è chiusa. Arrivano gli amici delle due. Dov’è Meredith? Dall’interno non risponde. Bisogna sfondare la porta.

Il corpo sta sul letto, un piede che esce dal piumino. Ha la gola tagliata. Tutt’intorno è pieno di sangue. L’indagine inizia col sospetto, non con indizi, non con prove. Sospettano che non ci sia alcun ladro. Dicono che i vetri rotti siano una sceneggiata, che non fosse facile salire dalla finestra da fuori. Eppure basta mettere i piedi sulla grata del piano di sotto, appoggiarsi su un chiodo a mezz’aria e uno esperto lo può fare in un attimo. Ma, se la tesi è questa, nel mirino non può finire che l’unica altra persona che aveva le chiavi di casa: Amanda.

Lei non parla bene l’italiano. Il 6 novembre, al termine di un doppio lungo interrogatorio svolto senza avvocato, Amanda Knox viene fermata per omicidio. Con lei finisce in manette anche Raffaele. Il caso fa il giro del mondo: una vittima inglese, un’indagata americana. A loro si aggiunge presto un nuovo straniero: il datore di lavoro di Amanda, Patrick Lumumba,musicista congolese titolare di un pub, entrato nella vicenda per via di un sms male interpretato e infine indicato da Amanda come l’autore del delitto, proprio nel corso nel lungo interrogatorio senza avvocato. Un’accusa bizzarra se fatta per sviare le indagini da se stessa, visto che Amanda si è autocollocata sulla scena del crimine. Dirà che aveva avuto pressioni, non sarà mai creduta e verrà condannata a tre anni per calunnia. Purtroppo, ricorderanno i suoi difensori, qualcosa la sera del verbale deve essere andato storto, perché «non c’è né una registrazione, né un video» e concluderanno: « quella fu una falsa confessione».

Di fatto passano dieci giorni e un docente svizzero racconta di essere stato nel pub di Lumumba la sera dell’omicidio, confermandone l’alibi. Il musicista è dunque innocente ed esce di scena. Il 19 novembre 2007 il caso potrebbe chiudersi: viene ordinato l’arresto di Rudy Hermann Guede, 21 anni, originario della Costa D’Avorio. Il suo dna è ovunque sulla scena del crimine: nel cadavere, sul polsino della manica della felpa di Meredith, su un cuscino. E sulla carta igienica usata nel bagno, dove Rudy non ha tirato lo sciacquone.

Possibile che uno entri in casa per rubare e vada in bagno? Sì. Lo ha già fatto: stessa tecnica, una pietra per rompere i vetri e poi, una volta dentro, è andato in gabinetto. È stato una volta ospite da quelli del piano di sotto di via della Pergola: là, sul water si era proprio addormentato.

Il caso, si diceva, potrebbe chiudersi qui: la scena del crimine è piena delle sue tracce. Di Amanda e Raffaele non c’è invece nulla. Anzi, a dirla tutta, Raffaele non conosce Rudy e Amanda lo ha visto solo due volte. Però c’è quel verbale: perché Amanda Knox si è collocata sulla scena del crimine? Si potrebbe pensare al panico della studentessa, il panico di chi non sa più cosa rispondere alle domande degli inquirenti. Invece, l’ipotesi accusatoria è più suggestiva: in sostanza, si teorizza un vano tentativo di coinvolgere la vittima in un’orgia(che più avanti nei processi diventerà lite), tentativo finito male con lo sgozzamento di Meredith. Amanda, Raffaele e Rudy: tutti coinvolti nel delitto.

La suggestione, tuttavia, non è prova.

Guede intanto è scappato: lo rintracciano il Germania, da cui lo estradano il 6 dicembre. Chiede il rito abbreviato: verrà condannato definitivamente a 16 anni per omicidio in concorso.

L’inchiesta, nonostante presenti diverse anomalie, è data subito per chiusa. Di più. Si comincia a ricamare sulla “generazione persa” di Amanda e Raffaele. Il blog del ragazzo viene sezionato da criminologi e opinionisti televisivi, si mettono a nudo gli sguardi, le presunte pulsioni sessuali dei due fidanzati, si favoleggia di fiumane di comportamenti. E, Amanda, bellissima e giovanissima, diventa di volta in volta una “volpe” o una “strega”, o ancora una femme fatale, una mangiauomini: tutte cose ancora una volta molto suggestive.

Solo che con le prove non c’entrano.

Ma poi, le prove, arrivano. Sono due: un gancetto del reggiseno di Meredith trovato nella stanza del delitto, su cui ci sarebbe il dna di Raffaele. Il gancetto non lo hanno trovato subito, ma a 46 giorni da quando Raffaele era finito in prigione, in una scena del crimine mai sigillata. La seconda prova è ancora più sorprendente: la presunta arma del delitto. La ritrova un poliziotto in un cassetto della cucina della casa di Raffaele. Si tratta proprio del primo coltello che l’agente ha preso in mano: ha aperto il cassetto e, tra tanti, a occhio, gli è sembrato il coltello giusto, compatibile con le ferite. “Intuizione investigativa” dirà lui. “È stato fortunato” sosterrà in aula il sostituto procuratore Giuliano Mignini. Perché proprio su quel coltello sarà trovato il dna di Amanda sul manico e quello di Meredith sulla lama. In sostanza, il coltello usato per uccidere Raffaele se lo sarebbe riportato a casa e, dopo averlo pulito, lo avrebbe riposto nel cassetto in cucina, in mezzo agli altri.

Pare surreale. Ma il cerchio si chiude. Forse. Il 5 dicembre 2009 Amanda prende 26 anni, Raffaele 25.

Però, certo, non si è mai visto un delitto in concorso tra complici che si sarebbero visti per la prima e unica volta sulla scena del crimine. E poi, cominciano ad osservare i nuovi periti, siamo sicuri che siano stati rispettati tutti i protocolli di sicurezza per il repertamento del dna, siamo sicuri che sul coltello ci sia proprio il dna di Meredith? Perché l’errore è sempre dietro l’angolo. In appello le due prove, coltello e gancetto del reggiseno, vengono fatte a pezzi dai professori universitari, Carla Vecchiotti e Stefano Conti. Assolti. Dopo1427 giorni di carcere Amanda e Raffaele escono dal carcere. Lei fila subito in America. Lui sta qui. Non si aspetta certo che la Cassazione annulli la sentenza. Tantomeno che in appello bis arrivi addirittura una nuova condanna. Ora la Cassazione ha annullato senza rinvio. Innocenti. E per sempre. «Nessuno si deve più permettere di chiamarmi assassino» ha detto Raffaele. Ha chiesto il minimo: in fondo, tra sospetti ed errori, gli è stata rubata la gioventù.

Edoardo Montolli

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