Stefani Limiti, studiosa di cose complesse, aggiunge, ancora una volta, un tassello alla ricerca della verità sul Caso Moro
Stefania Limiti, studiosa di cose complesse e di avvenimenti politici di difficile lettura, ha costruito (si capisce faticosamente) e raccolto (compare sul “Il Fatto Quotidiano” di ieri 16 ottobre 2015) una magistrale intervista sulla questione – mai risolta definitivamente – del sequestro e della esecuzione di Aldo Moro.
Non ho le certezze che sembra avere (se capisco bene) la Limiti rispetto al disegno ordito dalla CIA perché avendo conosciuto personalmente alcuni membri di spicco delle Brigate Rosse (Adriana Faranda, Valerio Morucci, Lanfranco Pace) mi riesce difficile immaginarli consapevolmente al servizio degli americani. Certamente potrebbero essere stati filodiretti e trattati a mo’ di marionette. Comunque, vedo difficile una tale semplificazione anche perché mi sembra di ricordare che la “colonna romana” (in accordo con la Direzione Strategica di Mario Moretti) arrivò a mettere a punto il rapimento di Moro – a via Stresa – “dopo” che da un baretto a Corso Rinascimento da cui si poteva vedere il portone d’ingresso della residenza di Giulio Andreotti, alcuni brigatisti si erano resi conto che militarmente quel intervento era difficilissimo (se non impossibile) visto l’itinerario che la scorta e la vettura con a bordo Andreotti percorreva la mattina per portare verso “i palazzi” il divo. Fatta “l’inchiesta” (così i terroristi chiamavano la raccolta delle informazioni che precedevano le aggressioni) si decide per Moro dopo aver scartato l’ipotesi Andreotti che, come tutti sappiamo, in politica estera e per quanto riguarda quel senso dello Stato che giustamente viene ricordato nell’intervista essere una peculiarità di Moro, era tutt’altro personaggio: il giorno e la notte, il diavolo e l’acqua santa.
Tendo ad escludere (consapevole di potermi sbagliare di molto) che gli eventuali pupari sia intervenuti nella fase ideativa del gesto eclatante. Viceversa, sono state possibili interferenze “estere”, a cose avvenute. Non a caso uno dei passi salienti dell’intervista è quello relativo allo stupore degli ambienti legati al Governo Palestinese quando apprendono che è Moro l’oggetto dell’attacco. Tutti ma non lui avrebbero dovuto colpire, sembra ancora pensare Bassam Abu Sharif.
Lui no perché, come è ben sottolineato da Stefania Limiti, Moro era uno che di intelligence destinata ad essere l’anima segreta di un paese che volesse godere della più elementare sovranità ne capiva come pochi (in Italia) e questo capirne, pur in presenza di un uomo di “polso” (quale era), non aveva nessuna inclinazione ad un uso illecito dei servizi. Moro concepiva l’intelligence come una testa pensante capace di coadiuvare chi fosse legittimato a condurre politicamente la Repubblica difendendola e sottraendola alle interferenze di chi, viceversa, la avesse voluta asservita ad interessi terzi. Almeno così mi sono fatto l’idea che le cose stessero nella testa di Moro. Ma i vertici dei servizi (Sisde e Sismi) che erano in servizio quando Moro viene sequestrato erano guidati da dei vermi che di amore per la Patria, da buoni pi-duisti, non sapevano che farsene e che al massimo passavano il loro tempo non a tramare ma a vedere come utilizzare (dico io per fare soldi da spartirsi), ad esempio, 8 (otto!) appartamentini negli stessi palazzi di via Gradoli dove si scopri essere il covo strategico di Mario Moretti e di Barbara Balzerani. Gli appartamenti erano intestati in modo incontrovertibile alla Capture Immobiliare, fondata ed amministrata da Aldo Bottai (chi era costui e che fine ha fatto?), che verrà scoperta essere società di copertura quando, 16 anni dopo, fu indagata e messa sotto sequestro allo scoppio dello scandalo dei fondi neri SISDE (ve l’ho detto che gli appartamentini servivano principalmente per lucrare) del 1993. Uno dei tanti scandali direte voi ma forse tra i più illuminanti visto come, mollichella dopo mollichella (si fa per dire visto le cifre), si arriva fino a trovare 14 miliardi di lire su vari conti personali di funzionari infedeli e soprattutto 35 miliardi di lire a San Marino. Mollichella dopo mollichella si arriva fino all’arch. Adolfo Salabè che si prestava a far sparire quei fondi ed altri con mille attività para-immobiliari che nulla avevano a che fare con la sicurezza dello Stato. Le operazioni immobiliari che siano appartamentini per attività sessuali o altro, sono una costante dei servizi tanto è vero che, mollichella dopo mollichella (e che mollichelle), passando per la caserma Zignani (quella a Roma in piazza Zama) dichiarata fondamentale dal gen. Mario Mori (lo stesso?) per le sorti della sicurezza nazionale in quanto non bastava il “mammarozzone” di via Lanza e bisognava traslocare a piazza Zama uffici strategici per la sicurezza della Repubblica (si è visto quanto e come da allora la Repubblica sia sicura in mano ai grassatori e ai loro amici partitocratici)si è arrivati fino alla “lista Anemone”. Il Paese e la Capitale si vede come sono al “sicuro” dagli appetiti dei troppi Massimo Carminati, stranoti a via Lanza e a Piazza Zama ma lasciati sempre fare fino al paradosso che gente che non poteva non sapere chi fossero i nuovi padroni di Roma sono anche passati, per volontà ipocrita di Gianni Alemanno, ad interessarsi della sicurezza del Comune di Roma. Cioè della Capitale, cioè del regno di Carminati, Buzzi, Odevaine e Casamonica.
Negli organi statutari della società Capture Immobiliare compare il signor Gianfranco Bottel (che fine ha fatto?), manager della Gattel, a sua volta struttura dei servizi segreti civili per le attività simulate (ma ci dite una buona volta, decine di anni dopo, che cazzo facevate con questo dedalo di appartamentini se non farvi fare qualche “servizietto” da eventuali avvenenti inquiline e accumulare fondi con cui retribuire fonti che non informavano di nulla perché spesso non esistevano o corrispondevano a vari “vattelapesca” con cui facevate ai mezzi?) e per gestire l’ordinaria amministrazione. Cioè gli stipendi e le indennità di cravatta di tutti i nulla facenti del mondo tranne ai personaggi alla “Antonino Arconte” a cui non si doveva riconoscere di aver svolto attività per il Paese, vera o non vera la storia relativa alla “cartolina di mobilitazione” datata 2 marzo 1978 che allertava in relazione al sequestro (ancora da avvenire!) dell’onorevole Aldo Moro, le nostre strutture di intelligence in Medio oriente. Tengo a ricordare che Antonino Arconte ha sempre fatto non solo il nome di Stefano Giovannone (per sedici anni – dal 1965 al 1981 – Capo Centro a Beirut del SIFAR-SID-SISMI), quale destinatario della sua missione ma anche (e questo pochi lo colgono e lo approfondiscono) quello del colonnello Mario Ferrario che alcuni anni dopo decise di “impiccarsi” con la cintura dell’accappatoio appendendosi – atipicamente – ad un termosifone, nel suo bagno, mentre, in quel momento della sua vita professionale, stava indagando (ritengo io) sulla scomparsa del giudice Paolo Adinolfi (cortesemente, un giorno, ci dite che fine ha fatto quell’onesto servitore dello Stato dal momento che qualche pentito, amico o complice degli assassini, potrebbe ricordarsi di lui se qualcuno – ogni tanto – chiedesse di lui e di quella storia misteriosa?) e il cui labirinto investigativo è ben descritto dallo schema che ancora una volta pubblico. Ferrario e Giovannone quindi e non solo Giovannone che, se la memoria non mi tradisce, è la persona a cui nella lettera autografa scritta in prigionia, Moro fa riferimento quando cita per farsi capire in “codice” dal compagno di partito Erminio Pennacchini, all’epoca sottosegretario alla Giustizia, in che direzione si dovesse avviare la trattativa per lo scambio: Olp e comportamenti già tenuti altre volte.
Giovannone è un’altro che se ne andato senza raccontare nulla quando, viceversa, avrebbe dovuto/potuto chiarire molto non solo su Moro ed Antonino Arconte ma anche e soprattutto su Italo Toni e Graziella De Palo, anche loro tragicamente abbattuti. Ogni volta che devo vedere/ascoltare la pubblicità dello smagliante treno “Italo” provo fastidio e cambio canale pur di non farmi emergere, nel mio già troppo affollato e stanco cervello, quel nome “Italo” che a me ricorda l’ennesimo tradimento dello stato partitocratico asservito agli interessi di tutti tranne che dei sui cittadini onesti. Grazie a Gianni De Gennaro, in quel momento direttore del DIS (2011), ne sappiamo un po’ di più ma forse anche su quella storia è giusto tornare e provare a chiarire da chi, dove, quando, perché i due inviati furono lasciati uccidere. Dico sempre a me stesso: si sono liberati il napoletano Ciro Cirillo dalle grinfia di Giovanni Senzani ma si lasciano morire i Moro, i Toni e le De Palo.
Limiti non molla e, passo dopo passo, mi sembra che si avvicini a dare quel contributo alla verità che nessun governo, dopo quel 9 maggio 1978, ha voluto offrire doverosamente ai cittadini. Silenzio di Stato e indifferenza a quella tragica svolta della nostra storia patria. Da quel giorno del ritrovamento a via Caetani, è stato un susseguirsi di donnette e omettini, nani e ballerine, di avidi grassatori, di cocainomani, di viziosi ricattabili, di ladri di denaro pubblico che si sono voluti bere, oltre che fiumi di alcool, l’Italia intera, da Milano a scendere.
Buona lettura.
Oreste Grani/Leo Rugens
“Aldo Moro, patto con i palestinesi per evitare attentati in Italia. La Cia impedì le trattive e ordinò la sua morte”
Ancora oggi va su e giù per il Medio Oriente il vecchio capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Bassam Abu Sharif. Tu sai che è a Beirut, arrivi lì ma lui parte. Poi vai a Gerico, dove abita, ma lui scappa in un’altra delle città infuocate di questo pezzo di terra devastato: però alla fine accetta, grazie agli auspici di un comune amico, alto dirigente del Comitato nazionale per il Diritto al ritorno, e risponde alle domande di ilfattoquotidiano.it in una lunga conversazione telefonica che si snoda in varie tappe per un mesetto circa. Gli spiego che voglio riportarlo indietro nel tempo, quando lui era uomo chiave dei rapporti internazionali dei palestinesi, e che qui da noi il dibattito sull’amicizia dell’Italia per il suo Paese è sempre aperto e ruota attorno a una figura chiave, quella di Aldo Moro. “Eh sì … ovvio …”, mi dice interrompendomi, “Moro è stato un vero patriota”.
Dunque, per favore, ci aiuta a capire meglio cosa accadde tra l’uomo del compromesso storico e i dirigenti palestinesi? “Lo faccio volentieri” dice, ma subito premette: “Non insista troppo sulle date… ah le date! Sapesse quante carte sono andate perdute a Beirut durante la guerra civile, e poi i nostri spostamenti. Tutto è successo troppo tempo fa e i segni della guerra sul mio corpo sono ben chiari”. Mr Sharif è incappato in un pacco bomba che gli fu recapitato nel 1972 a Beirut e gli sfigurò il volto, portandogli via la mano destra. “Moro – mi spiega – voleva rendere l’Italia più forte economicamente, politicamente e anche, in un certo senso, tecnologicamente. Voleva rendere l’Italia libera dalla subdola dominazione statunitense. Era consapevole che nel vostro paese venivano fatte azioni illegali alle spalle degli stessi ufficiali italiani. Era perfettamente informato di cosa accedeva nelle basi aeree e navali della Nato e degli Usa che voi ospitavate. Gli americani arrivarono al punto di avere le loro prigioni segrete in Italia. Mi pare che recentemente la cosa è diventata pubblica, non è così?”.
Moro era consapevole che nel vostro Paese venivano fatte azioni illegali e di quel che accadeva nelle basi Nato
Solo in parte, gli dico, pregandolo di ritornare indietro nel tempo: “Sì, sì ha ragione, Aldo Moro. Era un italiano orgoglioso, provò a rafforzare i servizi segreti che considerava una istituzione fondamentale per sostenere l’azione dei governi: credeva che le scelte dell’Italia, nel rispetto degli interessi nazionali degli italiani, spettassero solo ai suoi governi. E noi lo rispettavamo moltissimo per questo suo temperamento”.
I vostri rapporti con Moro passavano solo attraverso il colonnello Giovannone (dal 1972 referente dei Servizi, o almeno di una parte di essi, in Libano)?
“E’ noto che il ruolo di Stefano Giovannone fu centrale ma l’approccio di Moro alla questione palestinese fu il risultato di una serie d’iniziative coraggiose prese da alcuni ufficiali della vostra intelligence che conoscevano molto bene Beirut negli anni ’70. All’inizio erano contatti tesi a realizzare iniziative di carattere umanitario: l’invio di aiuti sanitari, di medici volontari o di farmaci. Poi si stabilirono relazioni politiche più complesse.Ci furono moltissimi incontri tra esponenti palestinesi e rappresentati dell’Italia, a Beirut e a Roma, dove si trasferì il capo dei servizi dell’Olp
Ci furono moltissimi incontri tra esponenti palestinesi e rappresentati dell’Italia, a Beirut e nella vostra capitale Roma. L’Olp, per rafforzare la collaborazione, inviò in modo permanente un nostro uomo a Roma, Abu Iyad (il suo nome era Salah Khalaf), il capo dei servizi segreti dell’Olp e una delle figure preminenti della dirigenza palestinese, anche se Moro …” – Bassam Sharif non tradisce l’orgoglio della sua vecchia appartenenza – “si rese conto rapidamente che era necessario intrecciare rapporti con il Fronte popolare di George Habash per rafforzare la sicurezza italiana. Abu Iyad incontrò diversi ufficiali e gli diede la sua parola d’onore. Una sola volta anche Aldo Moro incontrò i vertici dei nostri servizi, insieme a Abu Iyad, per mettere a punto l’accordo (Lodo Moro) che firmò George Habash. Moro sapeva che la strada migliore e più breve per evitare il coinvolgimento dell’Italia in fatti che non la riguardavano passava attraverso il Fronte popolare. Così nacque quell’accordo senza precedenti con il quale noi ci impegnavamo a evitare operazioni militari in Italia. Infatti, da allora nessuna azione da parte nostra fu condotta sul suolo italiano. L’accordo guardava anche al futuro”.
In che senso?
“Prevedeva una fase 2, un’evoluzione dei nostri rapporti; in pratica erano state programmate iniziative per il rafforzamento della cooperazione sulla base del sostegno italiano al diritto di autodeterminazione del popolo palestinese. Si pensava a un futuro nuovo per il Mediterraneo. Fu una vittoria di Moro che gli americani e gli israeliani non gradirono affatto. Anzi, erano davvero molto arrabbiati, per loro l’accordo con i palestinesi era un sostegno ai ‘terroristi’. Gli israeliani volevano usare l’Europa per la loro caccia ai palestinesi: figuratevi se potevano accettare la politica di Aldo Moro. Di fatto avviarono una guerra contro di lui e contro l’Italia”.Moro prevedeva poi un’evoluzione dei rapporti Italia-Palestina. Usa e Israele si arrabbiarono molto. E avviarono una guerra contro di voi
Lei cosa sa delle trattative condotte per salvare la vita di Aldo Moro? Qualcuno vi chiese di mediare?
“Di certo so che le Brigate rosse volevano trattare e liberarlo. Quando Moro fu rapito noi fummo davvero sorpresi. E lo fummo ancora di più quando apprendemmo della rivendicazione delle Brigate rosse. Eravamo increduli, davvero le Brigate rosse? Non potevamo crederci. Nessuno ufficialmente ci chiese qualcosa. Noi ci sentimmo obbligati a fare ogni tentativo per salvare la vita di Moro, cercammo di fare quanto era in nostro potere, lo abbiamo sempre detto pubblicamente. La prima telefonata arrivò nel mio ufficio di Beirut. Qualcuno ci chiese di intervenire e trattare. Non so chi fosse la persona dall’altra parte, ci diede un numero per tenere i contatti che fino ad allora non avevamo mai usato. Non so francamente a chi appartenesse quell’utenza, non so se dall’altra parte ci fosse un agente dei servizi o un funzionario del ministero, non posso davvero dirlo perché non lo so. Certamente l’argomento delle nostre conversazioni era la salvezza di Aldo Moro. Per noi liberare Moro era fondamentale, avevamo di lui un’altissima opinione come uomo e come politico ed era a favore della nostra autodeterminazione, disapprovava la politica di Israele ed era molto simile a uno dei leader europei che sentì il dovere di condannare l’occupazione della Palestina, penso a De Gaulle”.Quante telefonate ci furono?
“Diverse, l’uomo che chiamò l’ultima volta ci disse espressamente che i rapitori di Moro lo volevano liberare, aveva una gran fretta, si sentiva che era sotto pressione, che era in uno stato di grande ansia, ‘hurry up, we don’t know what to do’, disse, sbrigatevi, non sappiamo più che fare”.A Beirut era pronto un aereo per i brigatisti dopo la liberazione del presidente Dc. Ma intervenne una terza parte e il telefono non squillò più
E’ vero che all’aeroporto di Beirut era pronto un aereo? Anche Carlos lo ‘Sciacallo’, il famoso terrorista di nome Ilich Ramirez Sanchez, reclutato e poi ripudiato da Sharif, parlò di un estremo tentativo di salvare Aldo Moro che ebbe come scenario la pista dell’aeroporto di Beirut dove un executive dei servizi segreti italiani attese invano, l’8 e il 9 maggio del 1978, che a Roma si sbloccasse qualcosa: brigatisti liberi contro la vita di Moro.
“Certamente, l’aereo a Beirut era pronto. Le Brigate rosse chiesero un accordo che comprendesse l’uso dell’aereo. Ma tutto fu improvvisamente interrotto nonostante la loro volontà di rilasciare Moro. Una terza parte, fortemente contraria, anzi intenzionata a liberarsi di Aldo Moro e della sua politica d’indipendenza, riuscì ad impedire le trattative. Per questo quel telefono non squillò più”.Lei sostiene che qualcuno si mise in mezzo, dunque che c’erano interferenze dirette, infiltrati o contatti in grado di avere notizie su quanto si stava muovendo?
“La situazione era perfetta per la penetrazione di un gruppo come le Brigate rosse. In giro per l’Europa c’erano militanti brigatisti legati a Carlos che stavano cercando di organizzare un suo gruppo autonomo, dopo la famosa azione di Vienna (l’incredibile assalto al quartiere generale dell’Opec organizzato da Carlos nel 1975) e la spaccatura con Wadi Haddad (un attivista espulso dall’Olp nel 1973). La situazione di quei gruppi era porosa e offriva l’opportunità di forti, fortissime infiltrazioni.La Cia giocò un ruolo eccezionale nella penetrazione di gruppi come le Brigate rosse in Europa, senza avvisare i governi europei. Insisto: ordinarono la morte di Moro
La Cia giocò un ruolo eccezionale nella penetrazione di questi gruppi in Europa, era una partita che giocava in proprio, senza avvisare i governi europei, ovviamente. Insisto: ordinarono la morte di Moro. Intervennero per interrompere le trattative che erano ancora in corso, erano quasi fatte. Certamente chi ha ammazzato Moro non era amico della nostra lotta di liberazione. Ed ora mi scusi, devo salutarla, ho troppo da fare, qui siamo dentro una nuova Intifada. Gli israeliani stanno diventando selvaggi: sparano direttamente sui bambini, qui da noi c’è l’orrore”.
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Caro Leo Rugens, grazie per la sua attenzione e per aver ricordato molte cose importanti nel suo commento alla intervista a Sharif. Di ‘certezze’ nel caso Moro ce ne sono poche, alcuni elementi, messi insieme, hanno la forza logica della verità. Io non ho mai detto o scritto di brigatisti al ‘servizio degli americani’: questa è una stupidaggine che non ho mai neanche pensato. Lei cita nomi di brigatisti che io non ho mai evocato accanto ai disegni CIA. L’ex portavoce del Fplp fa un riferimento interessante alla ‘porosità’ dei gruppi brigatisti e della facilità di infiltrarli: se pensiamo che dalla Chiesa nel 76 seguì Mario Moretti nei suoi viaggi nel sud Italia, che Taviani raccontò che l’evasione di Gallinari era stata ‘permessa’, sempre da dalla Chiesa, all’insaputa dell’interessato, per seguirne le tracce, che il covo di via Gradoli era un porto di mare, che l’appartamento di via Montalcini era controllato e ..tanto altro, la impenetrabilità del gruppo brigatista è un mito da sfatare. E questo non significa affatto che fossero manovrabili: bastavano un paio di loro più spregiudicati. L’ideazione del sequestro è autentica: dire il contrario è assurdo. Non l’ho mai detto. Le Br volevano rapire Moro (di cui avevano capito poco, a quanto pare) a Santa Chiesa, fecero fare un’inchiesta a Raimondo Etro: avevano progettato un assalto alla portata delle loro capacità. Ma Etro fu fermato: ‘Faranda mi disse che non se ne faceva niente, si cambiava programma’. E di lì a poco è arrivata l’imboscata in via Fani, un’operazione militare al di fuori delle capacità brigatiste. I misteri del caso Moro stanno nelle interferenze che impedirono una trattativa che le Br volevano. Trarre uno o due. Vedremo se il tempo ci darà certezze, cioè se riusciremo a capire il Doppio livello del caso Moro.
La saluto cordialmente, SL
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Mi scuso per le troppe imprecisioni. Certamente lei nel tempo ha raggiunto una tale mole di conoscenze che ci può guidare come poche nella doverosa ricerca della comprensione di quanto avvenuto. Non credo di aver detto che non fu Etro a svolgere l’inchiesta che prevedeva originariamente il sequestro in chiesa . Un’ipotesi forse in parte mutuata dal modello operativo che precede l’attentato a Carrero Blanco che alcuni invece di farlo saltare in alto volevano rapire durante la messa a cui assisteva ogni mattina. Dico che ho un ricordo che mi spinge a ritenere che si arrivò a Moro dopo aver ipotizzato Giulio Andreotti quale obiettivo. Considerare uno per l’altro mi ha fatto sempre ritenere che i brigatisti capissero poco di politica estera quella che giustamente lei pone a base di quasi tutto quanto è avvenuto in quegli anni. Proverò a non farmi fraintendere: sono pienamente d’accordo con lei sul perché Moro sia stato eliminato dalla scena politica mediterranea. Dico solo che una persona semplice quale ricordo essere stato Valerio Morucci difficilmente me lo immagino cogliere le complessità che i suoi approfondimenti oggi fanno emergere.
Provo a non farmi ulteriormente fraintendere: lei dice che Adriana Faranda (altra persona intelligente, sensibile ma anche lei, nei miei ricordi, troppo semplice per essere il motore del drammatico cambio di programma) dissuade Etro e di fatto da via libera alla operazione militare al di fuori delle capacità brigatiste. Cioè l’orrore della scorta annientata e l’imposizione di quella via senza ritorno che era il vero fine del cervello pensante la strategia eversiva. Per lei quindi la scorta (e mi scuso per questa semplificazione pensando ai caduti e al loro ingiusto sacrificio) non riuscì a difendere Moro in quanto sovrastata da una superiorità di addestramento degli assalitori e non perché le armi erano mal riposte e gli uomini dello Stato avevano motivazioni diverse dai terroristi. Io rimango per ora fermo (non ancorato) sulla versione che sostiene che le interferenze cominciano massicce durante la trattativa perché Moro non fosse liberato. Certo devo ricordare a me stesso che qualcuno mise fretta per effettuare nel gennaio del ’78 l’arresto di Luigi Rosati (marito della Faranda), Giancarlo Davoli ed altri rimuovendo una pista di “attenzionamento” che avrebbe potuto tornare utilissima nelle ore successive al 16 marzo. Una persona per bene di cui non mi sento di sospettare in alcun modo , Domenico Spinella, mi giurò che aveva avuto pressioni per effettuare gli arresti ma solo secondo lui nella logica dei risultati e dei “cazziatoni” che spesso connotavano l’attività delle nostre forze investigative. Certo rimangono i contatti tra Morucci e il colonnello Cornacchia certamente massone piduista. Certamente rimangono le frasi mai chiarite di Franco Piperno. Certo rimane la straordinaria coincidenza della figlia di Giorgio Conforto (KGB) fedelissima di Piperno e soccorritrice di Morucci e Faranda in fuga dalle stesse BR e trovati nell’appartamento di Viale Giulio Cesare, proprietà dei Conforto.
Ad esempio la presenza di un Conforto nel momento critico della vicenda, riconducibile a sola casualità, mi suona difficile da credere come la geometria dei proiettili mortali sparati a via Fani.
Lei, full time, ci sta accompagnando coraggiosamente a capire il Doppio Livello che sistematicamente emerge nella storia della Repubblica dalla lunga estate del ’43 a venire in qua fino certamente all’attentato di Piazza Fontana e alla morte di Falcone e Borsellino. Convincente l’idea che doppie esplosioni abbiano determinato gli effetti voluti. Ma in fin dei conti si tratta sempre di atti “statici”. Creare un doppio livello in un fatto dinamico complesso quale fu quello di via Fani mi convince di meno: le armi automatiche sparano (quando sparano) ad una velocità impressionante. Si immagini se qualcuno degli uomini della scorta fosse riuscito a colpire qualcuno di quelli che si ipotizza abbiano partecipato all’assalto e si fosse scoperto che il morto o il ferito non era “in organico” alle BR. Mi esprimo in questi termini forse troppo ingenui certo che non mi attribuirà alcun sentimento ostile alla sua ricostruzione dei fatti che spero quanto prima arrivi a farci capire come sia stato possibile che le cose siano andate come sono andate. Con stima, rispetto e gratitudine per quanto continua a saper e voler fare. OG
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“Dico sempre a me stesso: si sono liberati il napoletano Ciro Cirillo dalle grinfia di Giovanni Senzani ma si lasciano morire i Moro, i Toni e le De Palo.”
Interessante accostamento
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APODITTICAMENTE ALTRIMENTI CI VORREBBE UN SAGGIO SI POTREBBE SINTETIZZARE TUTTO AVENDO ACCOLTO LE TESI PROMULGATE NE “IL VOMERESE” DI VERALDI: CHE ALTRO AGGIUNGERE? E’ TUTTO SIN TROPPO CHIARO, ALTRE CHE CONFUSIONI. PS: QUANDO SI ETICHETTA UN SS COME LA “COMPAGNIA IPPICA ASTRALE”, LEGGI A “STELLE E STRISCE” SI DOVREBBE AGGIUNGERE UNA POSTILLA PER DEONTOLOGIA PROFESSIONALE (E NON): TALE LEMMA NON SIGNIFICA NULLA VISTO CHE IN SENO AD UNA NAZIONE, QUELLA DELLA COCACOLA IN PRIMIS, CI SONO PLURIME FORMAZIONI SS CON MIGLIAIA DI ADDETTI, CON BUDGET PRESSOCHE’ ILLIMITATI ED IN SENO AD OGNUNA DI ESSA SI ALTERNANO CORRENTI (APPARENTEMENTE) IN FORTISSIMO CONTRASTO TRA DI LORO SECONDO QUANTO SPECIFICO’ GIUSTAMENTE GUENON A PROPOSITO DEGLI ERRORI CONTRAPPOSITI CHE GENERANO MISTIFICAZIONI. QUESTO LO SPECIFICAI ALLA LIMITI MA EVIDENTEMENTE NON LE COLSE NULLA. LAST BUT NOT LEAST LA COMPAGNIA SUDDETTA, LA “IPPICA” SE CITATA COSI’ VIENE SILLOGISTICAMENTE EQUIPARATA AD UNA VOLONTA’ DI POTENZA SOLO “TUTTA COCA-COLA” MA CIO’ E’ FALSO. MA LA VICENDA MAXWELL (IL BABBO, NON QUELLA DELAL FIGLIA GHISLAINE..) NON VI HA INSEGNATO NULLA? E IL PROMIS NON VI HA INSEGNATO NULLA?
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