Sequestrare, a fin di bene, un numero congruo di egiziani
Sono presenti, in queste ore, rappresentanti egiziani a Roma mandati per facilitare (dicono così) la verità sulla morte oltraggiosa del nostro compatriota Regeni.
Non mi piace chiamare la fine straziante (è morto sotto tortura!) del nostro compatriota, il “Caso Regeni”.
Non mi interessa che la sua morte diventi un’altra Piazza Fontana, un’altro Italicus, un altro “Caso Moro”, un altra Bologna, un’altra Ustica, un’altra Ilaria Alpi.
Ci interessa che si trovi “chi” lo ha torturato e per ordine di “chi”. Vogliamo sapere (lo si capisce dal primo momento in cui ne abbiamo scritto) “chi” e con la complicità di “chi” (dentro e fuori l’Egitto, eventualmente quindi in Italia o in un Paese terzo) ha deciso di darci una lezione. La solita lezione ai soliti scolaretti? o è ben altro? Come la recente strage a Dacca o, a suo tempo, l’abbattimento dell’Argo 16? O l’eliminazione del generale Licio Giorgieri legato alla possibile verità sul “caso Ustica”? In quel caso fu tale Claudia Gioia a decidere, dietro suggerimento ancora oggi di ignoti, che il generale doveva essere ucciso; nel dramma accaduto al Cairo, è certo che qualcuno suggerì che il nostro Regeni fosse catturato e torturato a morte. Nostro – fino a prova contraria – a meno che non si voglia considerare il Friuli territorio austro-ungarico.
Un vero cambio di passo che mi farebbe decidere per una forma di ammirazione/rispetto dell’esecutivo sarebbe assistere alla decisone del Capo dei Servizi Segreti italiani (cioè Matteo Renzi!), rischiando una crisi internazionale, di sequestrare, senza violenza, gli inviati egiziani. Sequestrarli chiedendo come prezzo del riscatto il racconto della verità e la consegna dei responsabili. Almeno in ricordo dei bei tempi andati quando organizzammo e favorimmo il sequestro di Abu Omar (cittadino egiziano!) e la consegna agli aguzzini di regime perché GLI DESSERO UNA BELLA RIPASSATA. In Egitto. Ma questi accordi bilaterali cosa prevedono? Una volta tanto possiamo bere noi? E non acqua abbondante ad uso torturante?
Oreste Grani/Leo Rugens
DA ABU OMAR A REGENI, UNA NOTA SULLA TORTURA IN EGITTO
In quei giorni, Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò i lavori pesanti da cui erano oppressi. Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli. Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’Egiziano e lo seppellì nella sabbia. Esodo, 2, 11-12
Ho saputo poi che in quella stanza c’erano diversi americani, tra cui il capocentro della Cia di Milano, Robert S. Lady; era anche presente alle torture che ho subito in quei giorni. L’altro, quello che mi ha rivolto la domanda, era il ministro dell’interno egiziano Habib el Adli, tuttora in carica”… “Ho subito sevizie e torture di ogni tipo – prosegue Abu Omar – scariche elettriche nei testicoli, pugni e colpi, con un cavo o a mani nude. Avevo sempre gli occhi bendati. Non sapevo se era giorno o notte.
«Sono stato appeso a testa in giù come un bue al macello, con le mani legate dietro la schiena e i piedi legati, sono stato sottoposto a scosse elettriche su tutto il corpo, specialmente alla testa per indebolirmi il cervello».
Legato a un materasso sarebbe stato inondato da un getto d’acqua gelida collegato a una fonte di elettricità. «Ero vicino alle camere della tortura per lunghi periodi. Udivo i lamenti e le grida degli altri, volevano farmi crollare psicologicamente».
Correva l’anno 2003; gennaio 2016 la tortura è la stessa.
“Sette costole rotte, segni di scariche elettriche sul pene, ferita da traumi su tutto il corpo e un’emorragia cerebrale“. Questo è quanto ha detto l’autopsia effettuata dai medici egiziani sul cadavere di Giulio Regeni… Chi ha parlato con Reuters, inoltre, ha aggiunto che sono state riscontrate abrasioni e bruciature. È probabile, infine, che il ragazzo sia stato picchiato con un bastone e che abbia ricevuto pugni e calci.
La questione Abu Omar finisce così:
Nell’udienza conclusiva, il 30 settembre 2009, al termine della requisitoria, il pubblico ministero Armando Spataro ha chiesto 13 anni di reclusione per l’ex direttore del SISMI Nicolò Pollari, definito il regista di un sistema criminale; 10 anni per l’ex capo del controspionaggio militare italiano, Marco Mancini; la condanna anche per i 26 agenti della CIA coinvolti nel rapimento, con pene comprese tra i 10 anni e i 13 anni di reclusione. Richiesta di proscioglimento, invece, per tre funzionari minori del SISMI, Raffaele Di Troia, Luciano Di Gregori e Giuseppe Ciorra. Secondo la ricostruzione del sequestro fatta in aula dal Pubblico Ministero Spataro – che ha ricordato come ci siano prove ineluttabili contro quella che più volte ha chiamato la banda Pollari-Mancini – il SISMI diretto da Pollari non solo offrì copertura alla CIA nel rapimento dell’ex imam, avvenuto a Milano, ma collaborò, l’Agente dal nome in codice Ombra, mai identificato, secondo la Procura fu il trait d’union.
Il 4 novembre 2009 si giunge alla sentenza di primo grado, che delibera il non luogo a procedere per Mancini e Pollari, mentre condanna a 8 anni Robert Seldon Lady, a 3 anni a Pio Pompa del Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare e Luciano Seno, entrambi funzionari del SISMI e mediamente a 5 anni gli altri 22 agenti CIA.
Colpo di coda, il Presidente Mattarella grazia gli agenti della CIA.
Mi preme far notare che i torturatori di Abu Omar e di Regeni abbiano evidentemente frequentato la stessa scuola, anzi appartengano allo stesso regime militare e che con i Fratelli Musulmani o i tagliagole di Daesh non centrano nulla.
È evidente che tutto ciò abbia a che fare con gli apparati di sicurezza e viene da chiedersi: perché i capi dei torturatori non hanno informato le autorità italiane competenti circa le attività spionistiche o presunte tali di un nostro concittadino? Se gli apparati di sicurezza egiziani erano convinti di aver catturato un pericoloso eversore, perché non si sono rivolti ai corrispettivi italiani? Vuoi mettere un bel processo a Regeni con l’imputazione di terrorismo? No, meglio torturarlo.
Da notare che a oggi, 14.2.16, solo da Washington si leva una qualche voce sull’accaduto mentre “renzi” continua a tacere.
In omaggio a Giuseppe D’Avanzo riportiamo un ragionamento del 2005.
La redazione
L’imam rapito a Milano dalla Cia
I silenzi e la complicità con Washington
I sequestri in Italia per costruire prove contro l’Iraq
di GIUSEPPE D’AVANZOIL SILENZIO del governo è sempre più assordante. George W. Bush ha autorizzato un’operazione illegale della Cia in territorio italiano nel febbraio del 2003, alla vigilia della guerra in Iraq (19 marzo). Diciannove agenti hanno sequestrato un cittadino egiziano (Abu Omar) ospitato in Italia con l’asilo politico, imam radicale in sospetto di terrorismo, per la procura di Milano. Abu Omar è stato torturato nella base di Aviano. Trasferito in Egitto, e ancora torturato, al fine di farne una spia americana. La missione degli agenti di Langley ha violato la nostra sovranità territoriale e il diritto internazionale; strapazzato la dignità nazionale e le regole non scritte della schietta collaborazione tra alleati, ma Palazzo Chigi non ha nulla da dire. Nessun commento. Non un fiato.
Tacciono tutti, in coro: il presidente del Consiglio, Gianni Letta, autorità politica che sovraintende al lavoro dei servizi segreti, Fini (forse a ragione, non era ministro degli esteri nel 2003). Tacciono il ministro della Difesa e dell’Interno. La loquacità del governo è come evaporata per l’imbarazzo di dover dire qualcosa e di non poterlo dire per non essere clamorosamente smentito.
Oggi il silenzio del governo appare come una conferma che Roma ha offerto un tacito assenso politico alla mossa di Washington e assicurato la neutralità (che poi vuol dire complicità) dei nostri servizi di sicurezza e della nostra polizia giudiziaria.
Naturalmente, come scrive il New York Times, non c’è alcuna concreta probabilità che l’amministrazione americana possa consegnare a una magistratura straniera – anche se di un Paese alleato – agenti impegnati in un’azione antiterrorismo autorizzata direttamente dal presidente, secondo le regole che gli Stati Uniti si sono dati dopo l’11 settembre.
L’affare non può essere dunque soltanto penale (se così fosse, sarebbe già moribondo), ma politico. Perché politiche sono le questioni sul tavolo: quale ruolo ha avuto l’Italia nella Guerra al Terrorismo pianificata da Washington? Quali attività illegali o extralegali sono state autorizzate dal governo e realizzate non solo dagli apparati di sicurezza, ma anche dalla polizia giudiziaria? Quelle attività illegali o extralegali erano necessarie per proteggere il Paese dal terrore o quali per “costruire prove” contro i cosiddetti “Stati canaglia”? Qual è stato il grado di coinvolgimento della magistratura e il livello di deformazione del paradigma del giudizio penale, che poi vuol dire certezza del diritto, eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, immunità dall’arbitrio inquisitorio?Se queste sono gli interrogativi che la violazione degli Stati Uniti si trascina dietro, l’inchiesta del procuratore Armando Spataro è mutilata fino alla zoppia. A partire da un’elementare considerazione. Il disvelamento della cattura illegale di Abu Omar è il frutto del più agevole esercizio investigativo. Si raccolgono i numeri dei cellulari presenti nel luogo del rapimento. Se ne sviluppano le tracce. Si incrociano i contatti. Si registrano i movimenti. Si accertano le identità. Si controllano le presenze alberghiere e da qui, lungo la “scia” delle carte di credito, si può ricostruire chi era presente in quel luogo; da dove veniva; come ci è venuto; dove è andato; chi è o chi ha detto di essere; con chi ha avuto contatti. Ora se questa pratica investigativa è di assoluta routine, perché non è stata portata a termine in due lunghi anni dal pubblico ministero, Stefano Dambruoso, che ha preceduto Spataro nell’inchiesta?
La circostanza rende cauti e invita a muoversi a ritroso lungo le iniziative del pool antiterrorismo di Milano (Dambruoso ne è stato punta di diamante fino all’aprile del 2004). Si scorgono alcune mosse sconnesse. In Milano, Bagdad, un libro pubblicato nel maggio del 2004 con la collaborazione di un giornalista del Corriere della Sera (Guido Olimpio), Stefano Dambruoso definisce Abu Omar “l’iman radicale faro di un nucleo estremista a Milano” (pag.43); “l’egiziano che, fino alla sua sparizione, ha diretto con il pugno di ferro i militanti di Al Qaeda a Milano” (pag. 22) e, con qualche disprezzo, “bizzarra dietrologia” che sia stata la Cia a rapirlo, nonostante nel maggio del 2004 sia chiaro a tutti che l’imam è stato sequestrato da un’intelligence occidentale (lo scrive il giudice Guido Salvini).
Naturale chiedersi come la procura di Milano abbia potuto liquidare con tanta negligenza l’ipotesi della Cia quando sarebbe stato un gioco da ragazzi accertare la presenza, nel luogo del sequestro, di una ventina di americani con telefono cellulare che poi, a cose fatte, chiamano addirittura la Virginia e il consolato Usa a Milano. Come è del tutto illogico non aver chiesto, fino al 5 aprile di quest’anno, l’arresto di Abu Omar, l’imam radicale sospettato addirittura di essere il ragno della rete terroristica italiana.
Dambruoso nel suo libro la racconta così: “Abbiamo la certezza che la cellula italiana è centrale in una filiera europea di mujahiddin da inviare nel Kurdistan iracheno. Combattenti, volontari e gente da addestrare. Lo stesso network, poi, provvede al finanziamento delle cellule attraverso un intricato trasferimento di somme di denaro che dall’Italia, via Germania, raggiungono Siria e quindi le basi di Al Ansar Al Islam” (pag.12). Ansar Al Islam, come Abu Omar, è più o meno una “scoperta” della procura di Milano secondo la quale il gruppo addirittura “ha sostituito, in Occidente e in Medioriente, Al Qaeda unendosi ai membri della banda di Abu Musab Al Zarqawi”.
È una “certezza” che convince Dambruoso ad abbandonare tutti gli altri filoni d’investigazione (Gia, Jihad, Gama’a Al Islamiya). È un’altra stravaganza. Ansar Al Islam è soltanto una piccola e marginale organizzazione curda di ispirazione islamica senza nessun rapporto, come è oggi da tutti accettato, né con Osama Bin Laden né con Abu Musab Al Zarqawi (che peraltro in quegli anni ha in odio lo sceicco saudita).
La sola logica che può spiegare la girandola di errate conclusioni della procura di Milano sulla centralità dei curdi di Ansar al Islam e di Abu Omar non si afferra nelle evidenze probatorie delle indagini milanesi: all’esame dell’aula e del giudice, quelle, sono andate a ramengo. Questa ridefinizione delle relazioni di alcuni gruppi integralistici islamici con Al Qaeda e Bin Laden è soltanto coerente con le operazioni di influenza e le manipolazioni in corso in quegli anni per mano dell’intelligence americana.
Una fonte indipendente, Jason Burke caporeporter del prestigioso settimanale londinese Observer, nel suo eccellente Al Qaeda, spiega che “nell’estate del 2002, il presidente Bush, i falchi della Casa Bianca e il primo ministro Blair hanno cominciato a parlare di “ampi legami” tra il regime di Saddam e al Qaeda, con Ansar Al Islam quale tramite principale. Sono stato nel Kurdistan iracheno per indagare su queste accuse e ho scoperto che erano totalmente infondate”.
Quell’intreccio Saddam-Al Qaeda-Ansar al Islam e, in Italia, Abu Omar, guida dal “pugno di ferro”, appare oggi per quel che è: soltanto un capitolo della combinazione intelligence-guerra psicologica-guerra dell’informazione ingaggiata da Washington e Londra per giustificare l’invasione dell’Iraq. Le cose possono essere andate così. La procura di Milano riceve dallo spionaggio americano brandelli di intelligence senza alcuna attendibilità – “bufale” costruite a tavolino per necessità politica – e, a indagine conclusa, gliela restituisce con il timbro di attendibilità di un’inchiesta giudiziaria, in un circolo vizioso che può anche essere, né più né meno, una tecnica di disinformazione.
Soltanto in questo contesto, che chiama in causa Casa Bianca, governo italiano, servizi segreti italiani e stranieri, polizia giudiziaria, magistratura, possono trovare una ragione accettabile le negligenze della procura di Milano, che (1) non fa arrestare Abu Omar; (2) non lo tiene d’occhio come meriterebbe lasciando così campo libero agli agenti della Cia; (3) non conclude, a ridosso del sequestro, la più sbrigativa delle indagini con l’analisi dei tracciati telefonici.
Se non trova un perché a questi passi zoppi, l’inchiesta del procuratore Armando Spataro appare soltanto il modo dell’ufficio del pubblico ministero di Milano per salvare la faccia, come si dice, per “mettere le carte a posto” senza affrontare il vero nodo della questione: il governo ha saputo e assentito alla violazione della Cia? I servizi segreti italiani e la polizia giudiziaria hanno collaborato all’impresa? La procura si è lasciata intimidire dall’antica collaborazione con l’intelligence americana confondendo o attardando l’obbligo dell’azione penale? Sono interrogativi che si lasciano dietro un inquieto disagio che qualche mossa di Spataro accentua. Perché il solo agente Cia che non ha lasciato l’Italia (Robert Seldon Lady, capostazione dell’Agenzia a Milano) non è stato arrestato con un pericolo di fuga così concreto che poi si è naturalmente realizzato? Perché non sono stati ancora ascoltati Gianni Letta, i capi di Sismi e Sisde, il direttore del Cesis che li coordina, il capo della Digos e del Ros di Milano?
L’inchiesta sul sequestro di Abu Omar consente di liberarci dal ragionato dubbio che, nella pianificazione dell’invasione dell’Iraq, l’Italia, con il consenso del governo, sia stata la sponda su cui far rimbalzare – rafforzandole, rendendole credibili e persausive – le operazioni d’influenza e di disinformazione di Washington e Londra. La procura di Milano ha oggi l’opportunità e il dovere di venire a capo della nostra “guerra sporca” riconciliandoci con la realtà.
È un’opportunità che ha avuto anche la procura di Roma quando ha indagato lo stravagante personaggio che mise insieme e consegnò agli inglesi e (con la complicità dell’intelligence italiana) agli americani, il falso dossier sull’uranio nigerino che divenne, nelle parole di Bush, la “prova” che Saddam radunava armi di distruzione di massa. Lo spione ammise, in un’intervista, di aver fatto quel lavoro “per conto del Sismi”. Come da copione del Porto delle Nebbie, la procura di Roma ha archiviato il caso in gran fretta. È proprio la complicità di coloro che sono chiamati a ricostruire la verità dei fatti, alla fine, a proteggere il tenace silenzio del governo.
(28 giugno 2005)