Il Canale di Suez 13 – Pompeo De Angelis
Dopo la guerra italiana
Improvvisamente la situazione cambiò. La guerra cessò con l’armistizio di Villafranca del 12 giugno 1959. La vittoria nella campagna d’Italia della Francia e la presenza della potenza italiana nel concerto europeo creavano un nuovo quadro nel Mediterraneo. Proseguiva il boicottaggio al cantiere di Porto Said da parte dei funzionati del viceré. Lesseps incaricò Guillaume e Vernoni di documentare le infedeltà dell’apparato egiziano e i due ispettori elencarono, tra tutti, gli intralci inventati dal capo della polizia del Cairo, dai governatori di Damietta, di Mansurah, di Nazir de Matarieh: agenti degli uffici egiziani, sorretti dagli sceicchi, istigavano all’abbandono gli operai arabi proibendo loro di lavorare per i cristiani; trenta fellah che non erano stati erano stati convinti con la religione se ne andarono a suon di bastonate; il guardiano della pesca nel lago di Menzaleh non concedeva le barche per il trasporto dei lavoranti giornalieri e per fornire il pesce a nutrimento dei circa quattrocento manovali del cantiere, gente appena sufficiente per lo scarico dei materiali e per gli scavi in cui collocare i massi di un primo molo d’attracco di almeno una nave. Centinaia di operai francesi, italiani, maltesi e greci chiesero di essere assunti, ma Lesseps non li volle per non motivare l’accusa di impiantare coloni europei nell’istmo.
Il presidente della Compagnia intendeva inviare un dispaccio al viceré, ma il telegrafista di Damietta rifiutò di trasmetterlo. I processi verbali di Guillaume e Vernoni furono portati a Said Pascià da un messaggero a cavallo. Lesseps chiese al viceré la defenestrazione dei funzionari traditori. Con lo stesso messaggero, avvertì anche Sabatier, console di Francia in Egitto: “Non si tratta soltanto di gravi interessi francesi lesi in maniera scandalosa, ma della parola impegnata a più riprese faccia a faccia con voi e con me. Dopo quello che è accaduto, nessun ordine potrà avere il minimo valore se i colpevoli non saranno subito ed esemplarmente puniti.” Sabatier avrebbe dovuto insistere affinché il sovrano assumesse le sue responsabilità. Doveva ricordare al Pascià che un ministero di Francia stava concedendo l’ammissione legale delle società anonime egiziane, per intercessione della Compagnia del Canale e doveva minacciare che l’iter poteva interrompersi, se le cose rimanevano come stavano. Lesseps insisteva sul console perché giudicava che la situazione fosse più grave ed estesa di quella registrata da Guillaume e da Vernoni. Avvertì che l’azione di Londra su Costantinopoli rendeva necessario un contrappeso di Parigi come rivale adeguata. Esistevano le prove che M. Valne, il nuovo console inglese che aveva sostituito M.Green, aveva chiesto al Consiglio Supremo d’Egitto di far chiudere il cantiere di Peluse, tanto la forza francese, impegnata nella guerra in Italia, non sarebbe intervenuta nel caso.
Secondo il governo inglese, il viceré Said Pascià andava riportato agli ordini di Costantinopoli. Il Times di Londra del 7 maggio scrisse: “In Africa, la sedizione contro l’ordine è confinata nel palazzo vicereale e l’ambizione brucia soltanto nel petto di un pascià. Si può dire che il viceré egiziano è sospettato di voler sciogliere i legami con Costantinopoli e che le sue speranze siano affidate a quel grande campione degli oppressi, l’imperatore dei francesi. Said Pascià è circondato da consiglieri francesi e apprende da loro che è diritto degli spiriti nobili di calpestare i trattati che rendono la provincia dipendente dall’autorità centrale. … L’influenza francese, in questo momento, è suprema e M. de Lesseps, il cui progetto noi abbiamo bocciato, ha permesso di dissipare i capitali dei suoi finanziatori nel cominciare i lavori per dei giganteschi moli nel Mediterraneo. … Il più leggero segno di una disposizione a rompere la sudditanza a Costantinopoli farà piombare sul viceré la potenza inglese. … Noi siamo a Malta e a Corfù da una parte, a Bombay e a Aden dall’altra e le flotte e le armate avanzeranno da questi due punti opposti per mettere un ambizioso governante alla ragione.” La minaccia di guerra, seppure in forma di opinione giornalistica, fu pubblicata nei giorni in cui Napoleone III la guerra l’aveva dichiarata all’Austria ed era entrato con le truppe in Italia a fianco del Piemonte. Gli italiani di Egitto manifestavano il loro patriottismo e l’adesione alla guerra d’indipendenza dallo straniero sotto le sedi consolari austriache del Cairo e di Alessandria. L’Austria, tramite il suo console, affrontò il viceré per affermare che politica egiziana era marcatamente filofrancese e che rompeva la neutralità ottomana nel conflitto in corso e comprometteva gravemente gli interessi della dinastia di Mehemet Alì. Il Presidente della Compagnia Lesseps osò organizzare l’imbarco per Genova dei volontari per combattere sotto la bandiera di Vittorio Emanuele II. Fornì ai volontari i fucili e fece, al tempo stesso, armare i pionieri del canale, temendo attacchi violenti nella zona deserta del delta pelusiaco. La Gazzetta di Trieste del 30 maggio pubblicò:“ M.de Lesseps dimenticando l’accoglienza che gli è stata fatta in Austria ha facilitato l‘invio di volontari italiani d’Egitto in Piemonte. Più tardi, quando si porrà la questione del canale di Suez, l’Austria gli proverà di non dimenticare l’ingratitudine di cui si è reso colpevole.”
Il rapporto di amicizia fra Said Pascià e Ferdinand Lesseps si ruppe in quel frangente. Lesseps fu invaso dalla follia di oltrepassare il cerchio dei compromessi, ma Said gli fece sapere che era opportuno non incontrarsi per qualche tempo e che partiva per Suez dove avrebbe ancorato la sua fregata in qualche posto nella baia di Dibeh, dove sarebbe rimasto introvabile.
La follia di Lesseps
Il presidente della Compagnia manifestò la crisi personale stando a Peluse, riparato da una tenda beduina, sotto il sole rovente di giugno, sdraiato sui cuscini a fumare la pipa (la pipa che richiedeva un servo che la preparasse e la portasse al padrone), ammettendo forse che avevano ragione Palmerston e Stephenson ad affermare che il canale di Suez era una chimera. Il suo sogno stava finendo nel modesto cantiere di Porto Said: Feinieux si occupava della perforazione dei pozzi dell’acqua potabile; Larousse proseguiva i rilevamenti idrografici nel lago di Menzaleh; la nave Etna scaricava da quattro giorni i pezzi del faro forgiarti dalla ditta Lucowitc e le forge di Hardon erano pronte per l’imbarco; Laroche faceva montare la carpenteria della torre che avrebbe sostenuto la lucerna lenticolare.
Said Pascià aveva, prima di imbarcarsi a Suez, in data 9 giugno 1959, emesso una circolare firmata dal suo ministro degli Esteri, Cherif Pascià, indirizzata agli funzionari egiziani e ai consoli stranieri ricordando come la concessione a Monsieur de Lesseps era subordinata alla ratifica del Sultano. “Sua Altezza, ha avuto cura di manifestare le sue disposizioni simpatiche e benevole per un’opera di interesse universale, ma è tuttavia deciso a non sopportare che, sotto nessun pretesto, si proceda a operazioni che non dovranno essere fatte se non quando l’approvazione, alle quale sono sottomesse, sarà ottenuta.” La circolare governativa concludeva con la nota ai consoli generali europei circa la “risoluzione di Sua Altezza di opporsi ai lavori attualmente in corso di esecuzione sul terreno dell’istmo, i quali, per loro natura come per la qualificazione che gli viene data, non hanno in alcun momento il carattere di lavori provvisori. Io vi prego di voler invitare quelli dei vostri connazionali, che qui potete contattare, a cessare immediatamente di prendere parte a detti lavori, al fine di non mettere il governo egiziano, nel caso, a ricorrere a misure che sarebbero indispensabili per assicurare l’esercizio dei suoi diritti.”
Non si trattava più di servi infedeli, ma del voltafaccia di Said Pascià, che tradiva gli industriali e i commercianti della Scozia, dell’Irlanda e della Bretagna e altri, magari quelli piemontesi, catalani, olandesi, ecc., che ci avevano messo la fiducia o i soldi, oltre che abbandonare i francesi. Lesseps ricordò i tempi del Sudan, tra safari e emanazioni di diritto europeo alla Montesquieu, nei villaggi dell’Alto Nilo e sentì che la propria naturale inclinazione all’amicizia era stato uno sbaglio. Considerò, con improvvisa consapevolezza, gli eventi dell’inverno precedente a Istanbul. La Turchia non era cambiata da Selim, l’instauratore del califfato, a Mahamud II, che aveva lanciato l’idea esotica di applicare la forza dell’illuminismo all’ottomanismo. Mahamud II perse la vita nel delirium tremens per essersi modernizzato bevendo troppo vino proibito e suo figlio, il diciasettenne Abdul Mejid, volle realizzare il disegno del padre affidando a Rechid Pascià, suo ministro, il Regolamento del 1839, il tanzimat, detto il Tanzimat del Giardino delle Rose, riforma che avrebbe permesso al sultanato di raggiungere la rivoluzione ottocentesca occidentale, di superare la secolare stagnazione araba e di impedire il processo di disgregazione dei gruppi etnici e i rigurgiti nazionalisti del suo impero: l’idea di un impero ottomano, composto di gente di diversa nazionalità e religione, unito dall’altissimo ruolo sacerdotale e politico di un Sultano riformatore, che accettava di diventare occidentale, gettando via il turbante per il fez e proponeva una conciliazione del Corano con i libri di Voltaire. Il Corano, anzi, diventava una reliquia. Ma come era possibile, nel sultanato, separare la Chiesa dallo Stato, accettando il punto fondamentale della modernità, cioè che Chiesa e Stato sono due poteri disuguali e disgiunti? Era possibile una Turchia più moderna e meno occidentale? Lesseps conosceva ormai bene il mondo islamico e valutava “l’ottomanismo” come una ideologia ingannatrice e subdolamente islamica, che fingeva di essere impero, sempre più ridotto alla Anatolia, con le sue alte sfere annidate in una torva Istanbul dove la dinastia di Osman deperiva. Il sultanato era mantenuto in vita dalle grandi nazioni europee che dovevano proteggerlo dalla decadenza cronica, badando alla posizione geografica di quella penisola in cui regnava un barbaro su un territorio-ponte. Lesseps si domandò, nell’estasi del fumo drogante, sotto la canicola africana, altro da sé rispetto a quello che era alle Chenaie, cosa fosse l’identità dell’impero ottomano. Immaginò l’impero come una fattoria di centomila leghe quadrate i cui campi erano coltivati da trenta milioni di servi a profitto di due o tremila persone. La élite era composta dal sultano e dai suoi favoriti e favorite, dai ministri e dalle loro creature nell’amministrazione civile e nell’armata, dagli esattori delle imposte e da qualche banchiere ebreo, greco, armeno che prestava al governo al tasso dal 12 al 40%. Ora Lesseps sapeva quanto aveva preso da Istanbul. Ormai sapeva chi aveva ucciso Rechid Pascià. Il Gran Visir, in carica per la sesta volta, era odiato dal Sultano Abdul Mejid che era ricorso al rimedio supremo del veleno forte o debole a seconda delle forze vitali della vittima, seguendo le ricette del medico. Gli antenati di Abdul Mejid sgozzavano i loro fratelli o avvelenavano le vesti del familiare che volevano mandare nell’al di là. Il discendente faceva lo stesso, ma proseguiva la pratica clandestinamente, perché il Tanzimat del Giardino delle Rose poneva un freno all’arbitrio del sovrano e lo privava del diritto di vita e di morte sui ministri dello stato. L’applicazione di questo articolo della legge del Giardino delle Rose era la promessa principale che doveva essere osservata, pena la distruzione della Sublime Porta. Perciò il veleno era stato somministrato a Rechid come una medicina e Aalì aveva sostituito il morto per proseguirne la politica riformatrice, ad ogni costo, contro il Sultano. Erano i ministri che contavano in Turchia, ma correvano ancora qualche pericolo personale. In Egitto, la forza era nel braccio del viceré o in quelle dei ministri? Mentre Lesseps ricordava e ragionava, una decina di fellah innalzavano i pali per il faro di 20 metri di altezza per mandare una luce visibile a 23 miglia in mare. Gli arabi avevano i minareti sottili dalla voce cantante, i cristiani i tozzi campanili dalla voce squillante e lui erigeva l’emblema dei lumi, del navigare necesse est, ed anche il simbolo fallico che avrebbe dato vita al Canale. Lesseps, sacerdote in gioventù dell’orientalismo, con Nerval, con Linant de Bellefonds, con Jomard, con Clot generava una stella polare sulla porta dell’Oriente.
Lesseps scrisse al vicepresidente della Compagnia, duca di Albuféra: “La marcia rapida degli avvenimenti della guerra e della politica in Italia hanno felicemente distrutto quello che la lega austro-inglese pretendeva, prima che essa potesse raccogliere gli effetti che si attendeva dai suoi sforzi.” Si compiacque con se stesso per aver mantenuto rapporti di corrispondenza con il conte Cavour durante la guerra, che gli garantivano l’appoggio dell’ Italia in formazione. La pace fra la Francia e l’Austria permise a Napoleone III di riprendere la sua libertà d’azione e di fare “abortire” (verbo usato dalla Revue dell’Isthme e dalla stampa francese dell’epoca) i disegni “tenebrosi” dell’Inghilterra, che aveva puntato i cannoni dalla flotta su Alessandria, su Peluse e su Suez. La notizia che Said Pascià aveva bloccato i lavori nell’istmo aveva fatto clamore in Europa, che seguiva la vicenda del canale di Suez con interesse pari a quello per la campagna d’Italia e, alla fine del conflitto, la responsabilità, anzi la meschinità dei voltafaccia venne tutta addebitata al viceré, non solo in Francia, ma anche nel Parlamento inglese dove Russell e Gladstone, ministri di un nuovo gabinetto Palmerston, affermarono: “L’opposizione del viceré all’impresa creata da lui stesso ha meravigliato gli inglesi e ha prodotto l’impressine, la più sfavorevole, di Sua Altezza,” la quale Altezza, tornata dalla gita nel Mar Rosso, si era acquattata nella villa di Mariut nella Mareotide da dove faceva sapere di aver bisogno di un periodo di riposo. Anche il gran visir di Costantinopoli, Aalì, incolpò Said Pascià: “Il viceré non ha fatto alcuna domanda per ottenere l’autorizzazione che si era impegnato a chiedere e a fornire alla Compagnia.”
In Austria, il nuovo ministro degli Esteri, revocò le istruzioni di agire contro Lesseps applicate da M. Buol, dimesso da console in Egitto, e ordinò al nuovo rappresentante Schreiner di appoggiare l’impresa del canale, come prima della guerra. Il viceré era emarginato e impaurito. Temeva Costantinopoli, Londra, Parigi, Vienna e Mosca. Lesseps recuperò la sua consumata pazienza diplomatica e lo riavvicinò. Aveva imparato che l’Inghilterra non avrebbe ceduto e che doveva seguitare a giocare con i vari, malfidi visir e pascià: i loro intrighi erano eterni nel riproporre un’altra mano per una posta che pur scemava, partite che sarebbero durate più a lungo della opposizione inglese. Consapevolmente, decise di salvare Said Pascià dal ludibrio politico, facendogli però pagare un pegno. Come atto d’onore alla sua persona, il governo egiziano dovette firmare un decreto sintetizzato in tre punti: 1) mantenimento alla Compagnia del possesso delle terre lungo la linea del canale marittimo da Porto Said a Suez, 2) continuazione dei lavori cosiddetti preparatori, 3) impegno del governo egiziano al rimborso integrale di tutte le spese passate, presenti e future, in caso di liquidazione. Ancor più importante, il viceré, con la sua cassa personale, fu impegnato a coprire le sottoscrizioni straniere che erano mancate, in particolare quelle austriache. Lesseps, soddisfatto dello statu quo in Egitto, decise di tornare in Europa “per cercare di mettere fine all’opposizione illegittima del governo inglese, sola ed unica causa di tutte le difficoltà suscitate”. Lo seguiva Tusson Pascià, figlio del viceré, come un altro figlio di Said aveva seguito il console Green.
Il ragazzo fu relegato a la Chenaie più ostaggio che rampollo da educare. Scrisse: “Ringrazio Said Pascià di aver dato l’ordine di inviare in campagna, a la Chenaie, il suo giovane figlio Tusson Pascià. È una testimonianza pubblica di fiducia e di affetto che farà tacere tutti i falsi discorsi sulle nostre relazioni personali”.