Il Canale di Suez 17 – Pompeo De Angelis
La nave Borysthène, una delle tante che partita da Marsiglia con un reparto di cinquecento cacciatori, effettuato uno scalo a Malta per fornirsi di carbone, arrivò ad Alessandria il 12 agosto. Chi vi viaggiava, nei due giorni di sosta, si accorse che la guerra civile siriana aveva toccato l’Egitto. Nel serraglio del viceré al Cairo fu scoperto un complotto del personale amministrativo filo turco che mise in difficoltà Said Pascià, considerato troppo amico dei francesi. Nei giorni precedenti si era svolta una predicazione nelle moschee, che diceva: I francesi sono i nuovi crociati e vogliono andare in Siria a comandare. Che forse il sultano non è più padrone in casa sua? Che forse l’Egitto non è più la casa del sultano, ma è già il regno dei crociati? Altri non sobillavano, ma preparavano le armi. In una moschea di Alessandria furono scoperti tremila fucili. Said Pascià reagì energicamente: ordinò di chiudere le moschee durante la notte e fece impiccare quattordici cospiratori, senza processo. La cerchia di Said rimase convinta che il governo turco preparava un colpo di stato al Cairo. La politica della Porta era ambigua: da una parte esternava la sua alleanza con le nazioni europee e dall’altro incitava i musulmani allo sterminio degli infedeli. Il comportamento del sultano veniva recepito dai sudditi maomettani nella fattispecie anticristiana e come un invito alla guerra santa, e la jihad si accese ad Aleppo, a Homs, a Hama, a Bagdad e nei centri dove vivevano le comunità della Bibbia. L’idea di allontanare le potenze europee dalla costa mediterranea a sud della Turchia, distruggendo, attraverso l’eccidio, quei gruppi religiosi legati agli interessi esterni, sembrò possibile. Le divergenze fra la Francia e l’Inghilterra erano rivalità profonde che avrebbero impedito un intervento militare unito, a difesa delle presenze religiose e commerciali dei loro protetti dove venivano minacciate. Qualche pascià diceva: quando non ci saranno più maroniti, anglicani, greci, armeni e altri nazareni le truppe crociate non avranno più qualcuno da difendere in Siria e staranno lontane dai regni musulmani.
Torniamo indietro di qualche mese, lasciando la Borysthène ancorata nel porto di Alessandria: Lesseps era tornato nella zona dell’istmo, subito dopo l’assemblea generale di Parigi del 15 maggio 1860. La situazione dei lavori per lo scavo del canale marittimo era quella che aveva descritto nella relazione ai soci e che una comitiva di turisti aveva constatato, a marzo. Praticamente niente di fatto. C’erano solo gruppetti di ingegneri e di operai nei dieci cantieri della Compagnia per mantenere la posizione nei punti chiave del canale marittimo. Mancava la manodopera e i picconi rimanevano chiusi nei magazzini. A giugno, Lesseps si rese conto che la politica di Istanbul preparava la jihad anche in Egitto. Mantenne nella rada un paquebot fornito di cannoni e di fucilieri a sorvegliare il tratto dove voleva aprire la bocca per l’Oriente, a garanzia di qualche centinaio di europei isolati, che vi lavoravano. Ai primi di luglio, giunsero nelle capitali europee i dispacci telegrafici con i rapporti dei consoli sul massacro siriano. I governi, che avevano ritenuto che si trattasse di disordini etnici, dopo l’eccidio di Damasco, si ricredettero e decisero che era loro compito ristabilire il controllo perduto, in quella plaga. Spinti dalla pubblica opinione indignata per la gravità delle notizie mandate dai sacerdoti, che dicevano: “Il sultano è al bando dell’umanità e della civiltà”, i ministri acconsentivano a interventi militari rilasciando interviste ai giornali, che promettevano una moderna crociata. Il 5 luglio, lord Russell dichiarò che l’Inghilterra sarebbe intervenuta per reprimere i disordini e per punire lo sterminio. Austria, Francia, Prussia e Russia giunsero ad un accordo immediato con la Gran Bretagna. Non c’era da crederci! Tutte le nazioni europee si univano per fare un esercito comune sullo stesso fronte, per la prima volta nella storia: forse sarà l’ultima. Il governo turco corse ai ripari, cercò di evitare l’ingresso nell’impero di tante truppe, si rese conto di aver sbagliato a scatenare l’inferno ed emanò una ordinanza, il 9 luglio, che dichiarò di voler reprimere in proprio la rivolta e di applicare la sua giustizia per punire gli assassini. Il sultano inviò una lettera alle maestà di Gran Bretagna e di Francia, il 16 luglio: “È importante che la vostra Maestà sappia bene con quale dolore ho appreso gli avvenimenti di Siria. Che Voi siate convinti che impiegherò tutte le mie forze per ristabilirvi l’ordine e la sicurezza, per punire severamente i colpevoli, chiunque essi siano e di rendere giustizia a tutti. Affinché non ci siano dubbi sulle intenzioni del mio governo, è al mio ministro degli affari esteri, ben conosciuto dalla Vostra Maestà, che voglio confidare questa importante missione.”
Fu inviato a Damasco Fuad Pascià con pieni poteri. Alla partenza disse all’ambasciatore francese: “Vado, a rischio della mia vita, a vendicare l’onore dell’umanità e ad arrestare l’effusione di sangue”. Era un uomo eccezionale, nato nel 1814 a Istanbul, figlio di un poeta, ricevette una educazione letteraria e studiò medicina. Come medico accompagnò Tahir Pascià nella spedizione contro Tripoli del 1834. Si rese conto, che per ascendere al potere doveva immettersi nella politica; e si preparò studiando la storia, le lingue, il diritto internazionale e l’economia. Fu ampiamente soddisfatto; nel 1840, seguì come primo segretario Chekib-Effendi, ambasciatore a Londra ed iniziò così la carriera diplomatica. Ebbe l’incarico di missioni a Parigi, a Londra, a Madrid, a Bucarest, a San Pietroburgo, al Cairo. Nel 1853 fu nominato ministro degli esteri, poi membro del Consiglio del Tanzimat, poi di nuovo ministro degli esteri nel 1958. Arrivò a Beirut il 17 luglio 1860 con una modesta truppa. Nei primi tre giorni, l’inviato del sultano procedette alla confisca dei beni del ricchissimo Djomblatt, il capo dei drusi, a profitto della Porta Ottomana, riservando per sé quaranta cavalli di razza. Sequestrò il grano e il bestiame, dove ce n’era per vettovagliare il suo esercito di circa cinquemila soldati. Seguitavano intanto i massacri dei cristiani Il 20 luglio, divampò ancora la rabbia dei drusi e venti maroniti vennero uccisi in Libano. Il 21 luglio, Fuad partì per Damasco lasciando Abrù-Effendi come suo procuratore nella Montagna. I musulmani si strinsero attorno a costui come fosse Kuchid Pascià, il precedente capo druso. Volevano credere che niente fosse cambiato. Fuad Pascià, a Damasco, aprì una inchiesta sui torbidi e sugli omicidi di giugno, ma non procedette agli arresti. I cristiani capirono che non sarebbero stati protetti dai turchi e cominciarono ad emigrare verso la costa. Lungo le 25 miglia tra i due luoghi, costeggiavano la strada croci di legno imbrattate di sterco, che i damaschini contrari si erano affrettati a piantare per dileggio. A Damasco, i musulmani risollevavano la testa, visto che non erano stati puniti. Solo dopo la minaccia degli sbarchi delle fanterie europee, Fuad imprigionò i più scalmanati e procedette all’impiccagione di settanta plebei musulmani e alla fucilazione di soldati appartenenti all’armata irregolare dei bachi-buzuks. Il principale responsabile dell’ordine pubblico, il generalissimo di Arabistan, Akmet Pascià, governatore di Damasco, turco dalle belle maniere, educato a Parigi, venne trasferito a Istanbul per un processo alla corte marziale, perché aveva permesso all’esercito regolare di partecipare ai crimini, ma sembrò un sotterfugio per mettere al riparo un uomo che era suo amico, un governatore che aveva eseguito gli ordini di Istanbul.
Gli alleati europei non si contentarono della giustizia sia capitale che penale in corso, considerandola limitata rispetto agli ottomila cristiani sgozzati e pretesero di esercitare la autorità in proprio. Esposero al sultano un diktat in tal senso. Un plenipotenziario turco, il 3 agosto, a Londra, firmò un protocollo che accettava l’intervento militare straniero: “I rappresentanti di S.M.I. il Sultano, volendo arrestare, con misure pronte ed efficaci, l’effusione di sangue in Siria, e testimoniare la sua ferma risoluzione di assicurare l’ordine e la pace tra le popolazioni sottoposte alla sua autorità; e LL.MM. l’Imperatore d’Austria, l’Imperatore dei Francesi, la Regina del regno unito di Gran Bretagna e d’Irlanda, S.A.R. il Principe reggente di Prussia e S.M. l’Imperatore di tutte le Russie, avendo offerto la loro attiva collaborazione, che S.M. il Sultano ha accettato; i rappresentanti delle suddette Maestà e la Sua Altezza Reale sono rimasti d’accordo: un corpo di truppe europee, che potrà raggiungere i 12.000 uomini, sarà mandato in Siria per contribuire al ristabilimento della tranquillità. S.M l’Imperatore dei Francesi consente di inviare immediatamente la metà di questo corpo di truppe….” Sottoscrissero il documento Thouvene (Francia), Metternich (Austria), Cowley (Gran Bretagna), Reuss,(Prussia), Kisserleff (Russia), Ahmet-Weffyk (Turchia). Il 16 agosto, venne dato dichiarata la prima guerra dell’Europa Unita. Ogni nazione, dagli Urali alla penisola iberica, radunò uomini, cavalli, polvere da sparo, bombe e canne da fuoco alzò le bandiere e indirizzò le navi al porto di Beirut. Il fil di fumo di qualche vaporiera da guerra, a largo, sulla rotta del Libano, poteva essere visto: dal faro di Porto Said.
La Francia affidò il comando delle sue truppe al generale di brigata Beaufort d’Hautpoul, che intanto stava presiedendo la commissione franco-sarda per la delimitazione della Savoia e del Piemonte e che conosceva la Siria avendovi svolto una missione dal 1834 al 1837. Il generale convocò 7.000 soldati richiamandoli dall’Armée Nationale di 400.000 soldati nel territorio metropolitano, di 60.000 in Algeria, di 8.000 in Cina. Il telegrafo comunicò l’ordine di muovere le truppe dai campi di Chalons, di Tolosa, di Algeri. L’imbarco cominciò il 5 agosto da Tolone e da Marsiglia. La Borystheme, di cui seguiamo la scia, partì il 6 agosto con 500 cacciatori e il corpo medico della spedizione. La Jourdain, l’Yvonne e l’Amodée lasciarono Algeri e Orano con gli zuavi, gli spahis, i cacciatori d’Africa e le batterie da campagna. La flotta intera comprese venti navi. Il generale Beaufort prima di salire sull’ammiraglia, fece un discorso ai 1.500 uomini, che dovevano seguirlo sull’Amerique: “In quelle contrade celebri, culla del cristianesimo, che hanno reso famosi, di volta in volta, Goffredo di Buglione e le Crociate, il generale Bonaparte e gli eroici soldati della Repubblica, voi troverete ancora dei gloriosi e patriottici ricordi.” La traversata de l’Amerique avvenne in 6 giorni (un record), con un solo scalo a Malta per il carbone. Giovedì 11 agosto, il cannocchiale della vedetta inquadrò la città di Beirut, la testa appoggiata sulla montagna, i piedi nel mare. Accolsero l’Amerique diciotto bastimenti con bandiera francese, tra cui risaltavano due vascelli con 90 cannoni ciascuno; inoltre, erano all’ormeggio tre vascelli inglesi di cui uno armato di 130 cannoni, e due fregate con la stessa bandiera, due fregate russe, un bastimento spagnolo, una fregata austriaca, due navi greche. I turchi avevano ancorato in disparte un vascello e una fregata. Qualche giorno dopo entrò nella rada, salutando con una cannonata, il Borysthene. Il porto era ingombro anche di brick e di navi commerciali, che scaricavano le vettovaglie. In più sciamavano scialuppe ardite come vespe. Le truppe francesi si accamparono nelle pinete a due miglia dalla città. Il generale Beuafort chiese a Fuad Pascià di attuare le punizioni più severe. A Fuad arrivarono ordini dalla Porta di obbedire al generale francese. Gli venne rimandato, con i ferri ai piedi, Akmed Pascià, condannato a morte dal tribunale militare avendo mancato al suo dovere di soldato, sentenza da eseguire alla presenza dei consoli europei, quindi a Damasco. La fucilazione avvenne l’8 settembre, insieme a quella di quattro ufficiali. Fuad Pascià concordò con le delegazioni europee l’elenco di quelli che meritavano la condanna capitale, cioè i capi dei complotti, i comandanti delle bande organizzate, gli assassini personalmente individuati. Ma le esecuzioni non avvennero. Il Pascià cominciò, con una lunga serie di discussioni con i quattro capi militari insediati dispiegando la tattica di guadagnare tempo ingannando Beaufort sulle sue intenzioni, Stabilita la lista dei condannati a morte, sostenne che la pena andava applicata solo agli ufficiali regolari e infatti il generalissimo Akmet e altri quattro graduati, erano stati giustiziati perché avevano disonorato il sultano. Ma per i banditi, non sottoposti alla giustizia militare, la pena massima andavano tramutata in ergastolo e questa mitigazione del castigo era una maniera di interrompere il fiume di sangue. La proposta turca ebbe l’appoggio immediato dei generali dell’Inghilterra, dell’Austria e della Russia La Francia resistette con la presenza sui vari fronti, pronta a reprimere qualsiasi atto armato. Arrivò l’inverno. Nella Bekaa, i drusi, alleati con i metuali della setta d’Alì. cercavano una rivincita; nella Montagna le guarnigioni francesi erano bloccate dalla neve. Il rappresentante austriaco segnalò ai colleghi che il suo ministro degli esteri, conte Rediberg, riteneva che l’occupazione risultava inutile e funesta per l’autorità del sultano. Il 9 gennaio 1861, il gabinetto inglese scrisse ai governi di Parigi, di Vienna, di Berlino e di San Pietroburgo che era il caso di interrompere l’occupazione internazionale del Libano. Parigi rispose che il ritiro delle truppe sarebbe divenuto un segnale per scatenare un massacro più grande di quello per cui erano intervenuti per ripararlo. Lord Russell replicò a Thouvenel, il 24 gennaio 1861: “Devo ricordare che la Siria è una provincia dell’impero turco. Il sultano è sovrano di questa contrada e non le cinque potenze. La prima questione è se il sovrano ha bisogno di truppe per mantenere la tranquillità in Siria: La seconda questione è se il sultano ha forze per mantenere la tranquillità e per prevenire il ritorno dei massacri del mese di giugno. Se il sultano si impegna a fare questo e mostra i mezzi per farlo, la questione di continuare a occupare il Libano cade da se stessa:” Fuad Pascià aveva accresciuto di mese in mese i suoi battaglioni in Siria raggiungendo i ventimila soldati e occupava il litorale da Beirut a Tripoli come terra separata dalla Montagna. Il rappresentante turco Ahmet-Waffyk chiese agli altri plenipotenziari, riuniti a Londra, di stabilire una data per l’evacuazione.
Il ministro francese Thovenel replicò che non riteneva possibile fissare una scadenza finché non si fosse assicurata la punizione dei colpevoli, stabilito l’indennizzo alle vittime e lo statuto di una amministrazione del Libano. Le trattative si svolsero con dispacci fra le cancellerie delle potenze europee, Costantinopoli e Damasco, fintanto che si addivenne al risarcimento delle vittime cristiane per 75 milioni di piastre, in rate semestrali in 3 anni; venne poi concordata la fine dell’occupazione con scadenza al 5 giugno 1861 e fu elaborato lo statuto in 17 articoli. Il sistema politico- amministrativo che inventarono inventato le cinque potenze creò un Libano più frammentato di prima e composto un mucchio di tessere di un mosaico tribale, di cui danno una narrazione i primi tre articoli statutari. Vale riportarli perché questi dettami rimarranno attivi fino al 1918 e sboccheranno nella repubblica tribale del Libano di cui al presente vediamo le incrinature. Art.1: il Libano sarà amministrato da un governatore cristiano nominato dalla Sublime Porta e ad essa sottomesso. Questo funzionario sarà investito di tutte le attribuzioni del potere esecutivo, vigilerà a mantenere l’ordine e la sicurezza pubblica in tutta l’estensione della Montagna, ritirerà le imposte, nominerà, sotto la sua responsabilità, in virtù del potere che riceverà da S.M.I. il sultano gli agenti ammnistrativi, istituirà i giudici, presiederà il medjliis amministrativo centrale. … Ciascun degli elementi costitutivi della popolazione della Montagna sarà rappresentato presso il governo da un vekil nominato dai capi e dai notabili di ciascuna tribù. Art. 2: Egli avrà, in tutta la Montagna, un medjliss amministrativo composto da 12 membri: 2 maroniti, 2 drusi, 2 greco cattolici, 2 greco ortodossi, 2 sciti metuali, 2 sunniti musulmani, incaricati di controllare il bilancio della provincia, a esprimere il parere consultivo sulle questioni poste dal governatore. Art. 3: La Montagna sarà divisa in 6 circoscrizioni amministrative. Ci sarà in ciascuna un agente, nominato dal governatore, scelto in base al rito religioso dominante nella popolazione e per l’importanza delle sue proprietà. …” Il testo fu datato 10 maggio 1861 e la partita finì con la partenza delle navi europee. Fuad Pascià rimase con una enorme guarnigione ad occupare la costa sotto la Montagna.
Nella zona dell’istmo i cantieri erano paralizzati e Lesseps era spaventato. Poteva disporre di una squadra di 600 operai a Porto Said, di 900 a Damietta per la costruzione di un canale di comunicazione dal Nilo al lago di Menzaleh, di 100 a Kantara, di 100 sparsi a Maxama, a Bir-Abu-Ballah, a Timsah, a Seuil. La manodopera era chiaramente insufficiente per almeno iniziare ad aprire le colonne tra Mediterraneo e Mar Rosso e lui non era altro che un mito come Ercole e senza i capelli come Sansone. Una delle sue poche confessioni private messe per iscritto la si trova in una lettera inviata a suo cognato Victor Delamalle dalla tenda beduina a Parigi, in data 4 luglio 1860: “In questa situazione, non posso lasciare la piazza, che è minacciata e fintanto che la paura di cui ti parlo esisterà, resterò chiuso qui.” Viveva in Egitto da maggio, in attesa che la guerra finisse e pensava di accogliere i profughi siriani per avere operai cristiani in gran numero, in modo da non essere sottoposto ai ricatti indigeni, progettava le baracche, che richiedono poco legno, per accoglierli, si snervava con i contabili del viceré nel discutere i conti del dare e avere, tutto ciò a lungo, finché trascorse un anno intero di sconforto. Tentò di evadere dalla gabbia, ai primi di aprile del 1861, organizzando una carovana per raggiungere, da pellegrino, Gerusalemme e Betlemme in Palestina.
Pompeo De Angelis