Massimo Carminati minaccia: speriamo che faccia fatti raccontando chi lo proteggeva e chi lo contrastava

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Il processo Mafia Capitale, secondo gli intendimenti del Procuratore Capo della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, doveva durare il tempo giusto ma non troppo, tanto che per giugno-luglio 2016 si sarebbe dovuti andare a sentenza. Faccio una previsione: si mangia il panettone e poi forse anche l’uovo di Pasqua.

Questo perché la complessità della vicenda (soprattutto il suo retroterra) potrebbe cominciare ad emergere a partire dall’udienza prevista per il 22 novembre p.v. quando, per motivi che si possono solo presumere, la difesa di Massimo Carminati vuole che il Tribunale ascolti alcuni ufficiali dell’Arma dei Carabinieri che l’imputato ritiene possano dare chiarimenti sulla intera vicenda.

Uno come Carminati che a nostro giudizio (detto e ridetto da prima che scoppiasse il bubbone Buzzi-Odevaine-Carminati) è da sempre inopportunamente protetto da zone grigie delle “istituzioni” repubblicane, dopo aver assaggiato un antipasto di carcere duro e di sostanziale isolamento, potrebbe aver deciso che il cetriolo di turno non se lo sarebbe fatto ficcare nell’occhio sopravvissuto facendosi condannare ad una reclusione lunga e “cieca”.

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Carminati era/è, a Roma, un vero sopravvissuto degli anni ’70/’80.

Parlo degli anni di piombo che in sede letteraria, Antonio Cornacchia, piduista, ex ufficiale dei CC, ha recentemente raccontato, a modo suo, su cui in questo marginale ed ininfluente blog ho già detto la mia ma su cui oggi ritorno.

La questione dei documenti fatti sparire dalle cassette di custodia della banca del Tribunale di Roma, è una storia degna di ben altri approfondimenti che qualche allusione ricattatoria o di oblii complici.

Stiamo parlando di un furto avvenuto, di un’asportazione realmente effettuata, della sparizione di documenti importantissimi realmente custoditi, in massima sicurezza (così ritenevano ingenuamente i proprietari dei beni) nelle “viscere” del Palazzo di Giustizia. Non siamo sul set del film “I sette uomini d’oro ” interpretato da un geniale Philippe Leroy e dalla conturbante Rossana Podestà per la regia di Marco Vicario. Il film esce nel 1965 e gli X uomini che portano via il contenuto (denaro e carte) delle super cassette degli avvocati e dei magistrati agiscono nella notte tra 16 e il 17 luglio 1999 quasi ispirandosi al geniale colpo. O più semplicemente favoriti da silenzi, distrazioni, abilità selezionate senza le quali nulla sarebbe potuto essere fatto. Vogliamo partire da queste prove/certezze logiche per capire come sia stato possibile a gente come Massimo Carminati operare per decenni senza mai alla fine languire in carcere come ad esempio è accaduto al povero Omar Hashi Hassan che, senza aver ucciso Ilaria Alpi si è fatto, senza uscire un giorno, da innocente, 16 anni? Ma un bel errore giudiziario non lo si poteva fare per il guercio?

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Invece la caratteristica delle vicende giudiziarie che riguardano la Banda della Magliana e tutte le cosche criminali che in quegli anni in qualche modo possono essere riconducibili a tali ambienti (alcune volte parliamo di “cose” cento volte più pericolose come la mafia siciliana o la ‘ndrangheta calabrese) cominciano spesso come tempeste che poi in sede dibattimentale e di sentenza si placano. Da sempre si dice che questa holding criminale abbia potuto contare su complicità e connivenze ai vertici del potere, e su qualche indulgenza da parte dello Stato che ho imbarazzo a scrivere con la maiuscola.

Ci sono date che vanno fissate nella memoria degli eventuali curiosi di cose complesse o di giovani interessati a capire meglio chi siano personaggi tipo Massimo Carminati. Io mi limiterò solo a dare qualche spunto perché non me la sento di fare ricostruzioni articolate ma neanche di tacere su ciò che non può non essere andato in una certa maniera: qualcuno aggiustava i percorsi giudiziari di tutta questa gentaccia che per semplicità chiameremo Banda della Magliana e di Carminati o dei suoi amici in particolare. Persone organiche e funzionali alla gestione del potere così come la Partitocrazia aveva necessità che fosse esercitato. È un groviglio di difficile ma possibile lettura. Se Massimo Carminati decidesse di parlare molto di quegli anni e non solo nel senso stretto criminale si capirebbe.

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L’8 febbraio 1986 il Tribunale di Roma manda assolti quasi tutti gli imputati di quello che appunto sembrava viceversa un processo decisivo per stroncare inconfessabili rizomi che avviluppavano la Capitale. Un po’ come oggi. Stiamo parlando di 30 anni addietro (avete capito quanti anni?) e dove Flavio Carboni (proprio lui quello ancora in giro in questi giorni e trovato in relazione alle vicende della Banca dell’Etruria) risulta estraneo ai fatti per cui viene assolto con formula piena. O si danno 6 anni a personaggetti alla Pippo Calò, 5 a Ernesto Diotallevi, 3 anni e 6 mesi a Danilo Sbarra, un anno e sei mesi a Lorenzo di Gesù. Le gravissime imputazioni si dissolvono in un nugolo di generalizzate assoluzioni, di fatti che non sussistono, di responsabilità non accertabili e soprattutto il vincolo della associazione a delinquere viene negato. O si trattava di errori giudiziari o di investigatori incompetenti o di magistrati sensibili a allusioni che uomini di potere come ad esempio i fratelli Vitalone erano in grado di sussurrare.

Quel giorno la giustizia repubblicana afferma la non esistenza di una Banda della Magliana. È la fiction, 30 anni dopo, che ci deve mettere una pezza.

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I più giovani non sanno certamente di cosa scrivo ora che dirò che il magistrato più vicino (con Carnevale) a Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, per sentenza della Corte d’assise di Perugia, anni dopo questi avvenimenti, fu ritenuto interessato all’evasione di tale Vittorio Carnovale che alla fine di una udienza di uno dei tanti processi che riguardavano gli ambienti criminali che imperversavano a Roma in quegli anni, si ritrovò (dopo essere stato avvertito della possibilità) con le manette talmente allentate che gli fu possibile togliersele durante il trasferimento dopo l’udienza, nascondersi, rientrare in aula, dove due persone lo aspettavano. Le persone delle Istituzioni repubblicane avevano le chiavi della gabbia dove solitamente si tengono chiusi i detenuti per cui lo fecero uscire dalla porta principale. Ci trovavamo in quello stesso Palazzo di Giustizia nel cui forzieri sotterranei furono svuotate le cassette di cui si sente ancora una volta parlare. Un colabrodo per chi era dei “loro”. Uno dei loro era Massimo Carminati. Vediamo se, oltre alla troppo semplice Virginia Raggi, qualcosa, a Roma, è realmente cambiato da quegli anni o se, viceversa, basterà a Carminati, Buzzi ed altri solo evocare i loro legami pregressi per essere parzialmente “giustificati” nelle loro attività che tanto criminali potrebbero alla fine n on essere giudicate.

Oreste Grani/Leo Rugens

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