Gentaccia, gentaccia li chiama Alessandro Di Battista. E mi sembra troppo civile nel suo esprimersi
In tali frangenti (retate di questa portata) sento il dovere/bisogno/piacere di usare la mia esclusiva (che geniale invenzione!) “Macchina del Tempo”.
E così facendo supplisco all’ormai sopraggiunto rincoglionimento senile che non poteva non arrivare (è arrivato!) e mi ricordo tutto come se fosse oggi.
Per cui leggere i nomi di Monorchio e di Lunardi tra gli indagati/arrestati di ieri è come ringiovanire. Il cognome Lunardi, in modo particolare, mi fa veramente tornare giovane quando, senza bisogno di pagare escort o puttane che dir si voglia come vedo che sono costretti a fare questi malfattori, a qualche piacente donna riuscivo ad accompagnarmi. Se devo essere sincero sono quasi grato a questa gentaccia (finalmente questo termine è divenuto usuale per molti giovani cittadini che ci rappresentano con onore nelle Istituzioni repubblicane primo fra tutti Alessandro Di Battista) per come si danno da fare per cui ogni tanto giustamente incappando nelle maglie della giustizia, vengono sbattuti in prima pagina. Comunque questa gentaccia come da sempre la chiamo ha pure culo per cui Madre Natura ha mosso la terra nuovamente in coincidenza con la preparazione delle prime pagine dei giornali per cui le loro malefatte sono finite nelle pagine interne per lasciare spazio in prima ai danni che il terremoto ha prodotto su quanto già fatto due mesi addietro. Macerie reali su macerie morali comunque poco cambia perché giustamente i soldi della Repubblica invece di essere spesi per mettere in sicurezza il suolo e i manufatti umani in cui la nostra onesta gente decide di vivere senza dover passare alla morte schiacciati sotto i soffitti che crollano devono essere utilizzati per consentire vite agiate o prezzolate a gentaccia come gli eredi Monorchio o Lunardi. Tutta gentarella che visto le cifrette che papà “ragioniere generale dello Stato” beccava prima in servizio e poi in pensione non avrebbe dovuto aver bisogno di fare il delinquente per tirare la vita. Ma evidentemente la genetica è una cosa seria e come il figlio di un saltatore in alto ha più possibilità di divenire un campione olimpico di quello di un minatore del Sulcis, così il figlio/i/e di un mascalzone come Pietro Lunardi ha più possibilità di divenire “ladro di Stato”.
Perché l’oscenità di queste storie è che questi rampolli sono tutti cresciuti in quella ricchezza senza limiti che l’appartenenza del loro “papà” alla Casta consentiva di accaparrare. Nessuno di loro ha avuto mai bisogno; nessuno di loro ha dovuto vendersi i libri dell’anno prima per comprarsi quelli dell’anno dopo; nessuno di loro non ha avuto soddisfatto il desiderio di vacanze al sole o sulla neve vestiti o spogliate che dir si voglia. È tutta gentaccia cresciuta a Portofino piuttosto che a Cortina. Tutta gentaccia di cui non bisogna avere alcuna pietà perché non hanno alcuna attenuante. Soprattutto in sede giudiziaria perché viceversa in quella psichiatrica il ragionamento potrebbe essere altro. Perché di pervertiti del furto di Stato si tratta e in presenza di ammalati dell’arricchimento compulsivo e degli stili di vita perversi ci si trova. Loro e il mondo che alimenta il loro agire violento. Quando si generano situazioni di contorno in cui si deve ascoltare di inquisiti che entrano nel merito del colore della carne che gli viene offerta in pagamento (“A me le brasiliane non mi piacciono e me le dovete mandare le puttane almeno siano di carnagione bianca! più o meno così!) perché si deve pensare che la gioventù degli anni di piombo non avesse qualche ragione nel sentire – preveggente, – repulsione per questa gentaccia?
Vediamo cosa già si sapeva di Giuseppe Lunardi e del paparino Pietro che, non lo rimuovete, è arrivato ad essere ministro della Repubblica proprio adibito alle Infrastrutture. Gente che invece di cementificare (violentando la natura ma almeno facendo opere oneste) spargeva “colla” in giro per il Paese. Colla dice il magistrato. Vediamo chi si sbaglia.
Talis pater, talis filio. Dicono di lui Rizzo e Stella (non Grani):
“Le orbite del sistema planetario che ruota intorno a «Pier Veloce», nomignolo guadagnato per la lingua troppo spesso più svelta del pensiero (come quando disse che «con la mafia e la camorra dobbiamo convivere» o confidò gagliardo che proprio lui, che aveva introdotto la patente a punti, amava «correre di notte a 150 all’ora e anche di più») non sono infatti per niente chiare. Fin dall’inizio. Basti ricordare che, giurato come ministro il martedì, cinque giorni dopo (e di domenica) già aboliva la legge con cui il suo predecessore Nerio Nesi aveva finalmente imposto in Italia il divieto europeo di costruire ancora gallerie a doppio senso di marcia. E dov’era in ballo un tunnel a doppio senso di marcia? Sull’autostrada della Val Trompia. Progettato da lui e dalla sua Rocksoil. Una schifezza tale da spingere perfino il «Giornale di Brescia», che certo comunista non è, a censurarlo: «Quell’autostrada nascerà già vecchia».
Certo, a sentire lui non c’era problema. Lo disse due settimane prima che Berlusconi lo scegliesse, in un momento in cui pareva che sulla sua nomina qualche alleato avesse dei dubbi: «Cambio mestiere, vendo». Tornò a giurarlo di lì a una settimana in un’intervista a «Libero»: «L’ho già detto in tutte le salse. Tre fra i migliori avvocati italiani hanno già pronti due progetti per liquidare in un giorno, in sole ventiquattr’ore, il mio teorico conflitto di interessi. O cedo tutto o concentro l’attività esclusivamente all’estero, punto e basta». Ci tornò sopra dopo il giuramento in Quirinale: «Molto probabilmente cedo alle banche». E infine, preso possesso della scrivania, mandò tutti i moralisti a quel paese: «La mia società ha lavorato in passato e lavorerà in futuro. È entrata nei più grossi lavori d’Italia sempre per motivi di professionalità e non per appoggi politici né di favore da nessuno. Continuerà a lavorare e non si capisce perché cento famiglie dovrebbero esser buttate sulla strada». E il conflitto?
«Non sono mica Rothschild!»
Come andò a finire lo sappiamo: con la cessione della Rocksoil (attraverso l’immobiliare San Marco, che ha sede legale in piazza San Marco 1 a Milano dove stanno anche la stessa Rocksoil e la Società Italiana Gallerie) ai figli Martina, Giovanna e Giuseppe. Così da consentire all’ineffabile Carlo Giovanardi di andare in Parlamento e controbattere alle critiche dell’opposizione, come scrisse l’Ansa, precisando «che la proprietà della società Rocksoil non sarebbe di Lunardi, ma dei suoi familiari». Ma come, signor ministro, gli avrebbe chiesto Giorgio Santilli del «Sole 24 Ore»: non era deciso a vendere?
«Era l’orientamento che sembrava maturare allora, poi il testo della legge è cambiato. Ripeto: mi adeguerò alle regole, senza penalizzarmi sul piano economico più di quanto sia necessario.» Sapete come funziona all’estero? La moglie del principe Edoardo, Sophie Rhys-jones, venne costretta da Elisabetta II a lasciare il suo posto di responsabile di un’agenzia di pubbliche relazioni perché la regina non voleva che qualcuno pensasse che la ragazza potesse sfruttare la sua posizione nella famiglia reale per fare affari. E Paul O’Neill, il segretario al Tesoro statunitense voluto da Bush nel 2001, per 13 anni alla guida del colosso dell’alluminio Alcoa, fu obbligato a vendere le azioni e le opzioni che lo legavano ancora alla società e a diverse holding.
Due esempi fra mille. Dalle altre parti certi giochetti, se stai al governo, non si possono fare. Anche da noi, una volta. Appena fatto ministro, Sidney Sonnino si affrettò a vendere tutte le azioni lasciategli dal padre riconvertendole in buoni del tesoro e Quintino Sella si liberò dell’industria tessile familiare. E merita di essere riletta una lettera del 1954 di Biancarosa Fanfani alla sorella: «Amintore è contento di essere diventato presidente del Consiglio ma io ho pianto tutta la notte. Mi ha imposto di vendere i miei buoni del Tesoro, non vorrebbe si pensasse che possa avere un interesse nella politica del governo sul risparmio».
Immaginiamo le risate di Lunardi: uffa, ‘sti moralisti! Il senatore diessino Paolo Brutti, la sua bestia nera, si prese nel 2005 la briga di andare a riepilogare in un’interrogazione parlamentare un po’ di appalti inseriti nella lunardiana Legge Obiettivo e dati a società «riconducibili al ministro Lunardi».
Si andava dalla variante di valico sulla Bologna-Firenze alla Firenze nord, dalle gallerie sull’autostrada Adriatica a quelle sulla Parma-La Spezia, dai maxilotti sulla Salerno-Reggio Calabria al Gran raccordo anulare, dall’alta velocità ferroviaria dei tratti Torino-Lione, Torino-Milano, Milano-Genova e Milano-Venezia fino alle metropolitane di Milano e di Napoli. Le società nel mirino erano sei. La prima, ovvio, è la Rocksoil, il colosso del settore che rastrellava da anni commesse milionarie. La seconda e la terza erano la Rockdata e la Rockdesign (possedute da Martina Lunardi e dalla Rocksoil), la quarta la Ergotecna, la quinta era il Consorzio 3S (costituito da varie società tra cui la Stone) e la sesta era appunto la Stone.
Lasciamo stare i dettagli societari e mettiamone a fuoco due. Una è la Ergotecna, costituita un attimo prima di avere l’incarico di progettare e dirigere i lavori del passante di Mestre.
Un passo indietro: come si finì per puntare su questo passante?
Ci si finì scartando la proposta di un doppio tunnel presentata dalla Norconsult-Nocon, una società norvegese che aveva bucato OsIo portando sottoterra tutto il traffico non locale, deteneva il record mondiale della galleria più profonda a 240 metri sotto il mare e aveva all’attivo 4000 chilometri di gallerie costruiti nel mondo, cioè il quadruplo di tutti i tunnel stradali italiani messi insieme. Sarebbe costata, la tangenziale sotterranea, 400 milioni, prezzo bloccato, tempi di costruzione tre anni. Possibile? Ne erano così sicuri, i norvegesi, che erano pronti a firmare la penale: un tot al giorno di ritardo.
No grazie, avevano risposto il ministero e la Regione: ci vorrebbero due tunnel più grandi, da scavare costruendo apposta la più grande «talpa» del pianeta, una pala di 16 metri e 90 centimetri. Un progetto temerario. E come tale presto abbandonato: meglio il passante largo. Chi era il promotore del tunnel enorme che aveva fatto bocciare la più economica proposta norvegese facendo optare per il passante? Pietro Lunardi.
E chi possiede il 65% della Ergotecna incaricata di occuparsi del passante? Sorpresa: Giacomo Cesare Rozzi, nipote della mamma di Pietro Lunardi!”.
Quanto alla Stone, società di monitoraggio per le opere sotterranee, le coincidenze non sono meno curiose. Fatto ministro, «Pier Veloce» la cede a una strana coppia. Uno è Paolo Francesco Lazzati, il fidatissimo amministratore unico dell’azienda lunardiana che resta al suo posto con la nuova gestione anche se detiene solo il 5%, una quota di infima minoranza ma che gli consente (sorpresa!) di avere un diritto di prelazione su tutto il pacchetto azionario, il secondo è Ettore Giugovaz. E chi è? Un grande progettista internazionale in grado di dare lustro a un’impresa cui Lunardi è affezionato come fosse una figlia?
Un gigante della finanza seduto su un patrimonio di miliardi di euro? Un garante di specchiata virtù suggerito dagli amici premurosi? No. È un signore dal profilo incerto che va e viene dal Sud America, che è finito sui giornali per i suoi contatti con il bancarottiere FIorio Fiorini e che tornerà di lì a poco agli onori della cronaca per la sua presenza al fianco di Calisto Tanzi nei giorni della misteriosa latitanza in Ecuador dopo l’esplosione dello scandalo: lui prenota per Tanzi l’Hotel Akros a Quito, lui lo raggiunge in Sud America, lui torna con l’uomo allora più ricercato d’Italia. Fino a essere rinviato a giudizio per concorso in bancarotta e associazione a delinquere, con richiesta di patteggiamento, nel processo Parmalat.
Eppure (sorpresa!) la Stone va a gonfie vele. E col suo fondatore imbullonato alla scrivania ministeriale vede prodigiosamente levitare le commesse e il giro d’affari. E in cinque anni moltiplica per 6 il fatturato. Passando da 2 milioni e mezzo di euro nel 2001 a quasi 15 milioni nel 2005. Una performance alla quale il ministro non può non aver assistito con gli occhi umidi di orgoglio. Tanto più che gran parte di questo exploit è dovuto alla scelta di affidarsi ad altre società esperte del settore. Tipo?
Indovinato: la Rocksoil. Con la quale sarebbe avvenuto, stando alle denunce, uno «scambio di personale e contratti attivi». E la promessa «i miei figli lavoreranno solo all’estero»? Sì, ciao. Basterebbe citare l’appalto per «la progettazione esecutiva e costruttiva registrate nel bilancio 2004 di una galleria del collegamento ferroviario Milano-Malpensa», collegamento gestito dalle Ferrovie Nord, controllate dalla Regione Lombardia.
O la partecipazione come protagonista principale del nostro «Pier Veloce», poche settimane prima di lasciare la poltrona ad Antonio Di Pietro, a una riunione del Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, che deliberò lo stanziamento di una somma enorme per i lavori nella metropolitana di Napoli nei quali, guarda coincidenza, c’entrava anche la sua Rocksoil e sui quali lui stesso, in quanto ministro, era delegato a vigilare. O ancora la commessa ottenuta sempre dalla Rocksoil («attraverso una cascata di sub incarichi e consulenze» spiegava un’interrogazione dei senatori verdi Anna Donati e Giampaolo Zancan) per una galleria destinata a saggiare le condizioni di scavo sul versante francese della Tav Torino-Lione. Lavori «all’estero» sì, ma commissionati dalla società francese Ltf, controllata alla pari dalla francese Rff e dall’italiana Rfi, che gestiscono le reti ferroviarie francese e italiana. Col risultato che a pagare una parte dei lavori, stando al cartello del cantiere filmato per Le Iene da Alessandro Sortino, c’erano il governo italiano e le nostre Ferrovie dello Stato. Il tutto a prescindere dalla questione principale: se voi foste i padroni di una grande multinazionale straniera non offrireste sontuose commesse in giro per il mondo alla ditta familiare del ministro delle Infrastrutture italiano che poi decide sulle sontuose commesse in Italia? Bene: un po’ di queste cose finirono all’Antitrust. Sentenza: tutto okay. Ovvio: sennò che senso avrebbe avuto cambiare la legge?
Che fortuna, essere figli di Pietro Lunardi!”.
Così già 10 (dieci!!!!!!!!) anni addietro e con tali informazioni diffuse (inutilmente?) in milioni di copie. Perché del volume “La Casta” di Rizzo e Stella se ne vendettero milioni di copie. Intoccabili erano e intoccabili sembravano essere. Fino a ieri.
Furbo da sempre Lunardi Pietro come si dovrebbe sempre chiamarlo; mascalzoni furbi da sempre i Lunardi e i Monorchio; gentaccia come ormai e doveroso dire di loro, da sempre.
Sono “casta” allo stato puro ma non semplicemente di potere economico o politico ma delinquenziale come suggeriva a suo tempo papà: bisogna saper essere conviventi/conniventi con la criminalità. Preveggente così diceva “onestamente” il Pietro.
Perché non dobbiamo alzare le mani? Perché gli si deve consentire di provare a mandare tutto in prescrizione o meglio a puttane? Bianche però rigorosamente perché le brasiliane sono scure! Ladri e ignoranti, perché come tutti sanno, ci sono brasiliane conturbanti nere, mulatte e bianche.
Oreste Grani/Leo Rugens