Troppi islamici odiano gli ebrei. A sua volta il popolo ebraico deve tornare, come è nel suo spirito, ad essere “giusto”

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Alcuni scoprono che tra gli islamici contemporanei ci sono dei “nazisti” che odiano gli ebrei. In realtà gli islamici che odiano gli ebrei ci sono da prima del 1933 e anzi, moltissimi nazisti, hanno avuto una vera e propria adorazione per quegli islamici che sapevano odiare gli ebrei quasi più di loro.

Questo è l’impasto bituminoso che ancora perdura dalla fine della Seconda guerra mondiale e dal non riuscito tentativo della soluzione finale della questione ebraica. Tentativo di accerchiare Israele e ucciderne in un progetto criminale per ora svanito (o solo rinviato?) tutti gli abitanti, con una guerra tradizionale e inutilmente tentata più volte. Poi, a forza di prenderle, i “nazisti” post ’45 + alcuni islamici, si sono defilati e aspettano di vedere quando dovessero spuntare armi e risorse sufficienti per provare un nuovo olocausto.

Il resto sono chiacchiere.

Il popolo ebraico un giorno cominciò a capire che il mantenimento passivo della propria identità sarebbe sfociato in un vicolo cieco e, in quanto tale, luogo pericolosissimo.  Bisognava ritornare alla fonte. L’idea della rinascita di una patria fu preceduta in un primo tempo dalla rinascita della lingua. L’ebraico cessò di essere riservato solo alle preghiere e ridivenne la lingua del popolo. Solo questa scelta colta, sofferta, intelligentissima dovrebbe suggerire  rispetto per gli ebrei e la loro capacità di preveggenza.

Gli ebrei si determinarono a questa scelta culturale e, ripeto, strategica, quando due secoli fa il mondo ha dato inizio alla svolta verso l’epoca moderna. Il secolo dei Lumi ha cominciato – come tutti sanno – a far levare venti di libertà ovunque nel Mondo ma non per gli ebrei che scoprirono di essere esclusi da tale trasformazione paradigmatica. Anzi, gli ebrei, soprattutto in Europa, cominciarono a vedere “i Lumi” spegnersi per loro e trasformarsi sempre di più in alimento per le tenebre.  Il risveglio dei nazionalismi (ecco cosa si paventa ogni volta che la degenerazione di concetto nazionale emerge), che cominciò nel secolo scorso a plasmare il mondo (e che adesso sta mostrando tutta la sua nuova capacità di affascinare i grulli), fu accompagnato dall’insorgere del razzismo. Che è quella forma degenerata del localismo antropologico che si delinea oggi in tutta Europa e che vede le troppe Le Pen e i troppi Salvinetti avere diritto di parola e di azione.

Dicevo che la lingua fu la salvezza e indicò la via. Molti ebrei in diaspora cominciarono ad essere educati in ebraico in numerosi istituti scolastici a questo fine fatti nascere a fini di “tarbut” (che dovrebbe significare cultura). La cultura si fece impresa e “intendimento” verso le azioni da intraprendere per avere nuovamente una patria. Oggi rivelo, così scrivendo, agli amici intimi (ancora ieri un giovane amico, tale da recente data, mi chiedeva spiegazioni nel merito), da quale pensiero recondito ho mutuato l’espressione “La cultura si fa impresa“. La cultura si fa impresa e solo lei diviene patria ma, senza cultura, non c’è impresa “patriottica” che valga la pena di essere vissuta.

E la cultura rivelò agli ebrei che la loro vita non poteva essere sottomessa alla buona volontà degli altri.

Ho letto da qualche parte che il recentemente scomparso Shimon Peres inviò anni addietro alla allora presidentessa dell’Unione europea degli studenti ebraici, in uno degli anniversari della terrificante Notte dei Cristalli, una lettera in cui affermava che il primo insegnamento di quella notte infernale per il popolo ebraico fu la necessità di uno Stato, indipendente e forte. A prescindere dai movimenti che spingevano in quella direzione precedenti

Quella notte molti dei futuri dirigenti dello Stato ebraico appresero la lezione ma quella generazione politica decise al tempo che, in coscienza, il futuro Stato non avrebbe mai più ammesso nessuna forma di intolleranza, di persecuzione, di discriminazione razziale.

I Padri di Israele giurarono per tutti e non solo per gli ebrei. E da questo nasce il mio amore per Israele.

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La lettera di Peres a cui faccio riferimento fu inviata alla presidente Stern nel dicembre del 1987. Dopo pochi giorni scoppiarono tumulti gravissimi nei territori occupati e “sottratti” ai palestinesi. Questa convivenza non ha trovato, da allora, soluzione.

Anzi. Ciclicamente, rimuovendo il giuramento fatto nei giorni successivi alla Notte dei Cristalli (e, ovviamente, rinnovato, dopo l’Olocausto) la classe dirigente attuale di Israele non cerca di trovare l’utile di ciascuno nel riconoscimento dell’avventura comune. Ebrei e palestinesi, fratelli semiti.

In Israele, sono certo dell’affermazione, un giorno, in sede di governo, si svolse questo dialogo tra uno dei ministri che si era alzato a parlare e l’indimenticato Shimon Peres. Disse quel ministro:

“Mi ricordo della mia infanzia in mezzo agli arabi, e so che è possibile coesistere con loro. Mio padre e mia madre li conoscevano bene, e si viveva in pace. Possiamo fare come i nostri genitori se trattiamo gli arabi alla pari, come facevano loro nei nostri confronti a quei tempi”.

Concludo: il giudaismo è un impegno morale, è un’etica. È necessario che chi guida lo Stato di Israele la ritrovi questa etica, perché costituisce la ragione stessa di Israele. Ritrovarla dunque è vitale ed è la strada che generando equità organizza la sicurezza. E non il viceversa come da troppi anni si ritiene. Chi può insegnare alle donne e agli uomini del Mossad o dello Shin Bet cosa sia sicurezza? Eppure sono certo che la strada dell’equità ridarebbe al patriottismo israeliano quel ruolo originario per cui il mondo intero, libero e forte, gli aveva offerto la sua ammirazione. Che questa giornata, sacra e drammatica nelle sue rimembranze, sia di stimolo per un doveroso “ritorno alle origini” che non prevedeva dominazioni ma “spirito creativo”. La Stato di Israele è nato per necessità e per proteggere il “corpo fisico degli ebrei” e non soffocarne lo spirito “giusto”.

Oreste Grani/Leo Rugens