Incursione nel futuro di un uomo ormai anziano se non da definirsi vecchio

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Da alcuni giorni ho avviato, su questo blog e dove ancora mi è dato di parlare, un ragionamento su un tema complesso come quello legato al plagio nell’epoca dell’elettronica e dell’accumulo macroscopico di informazioni.

Oltre al tema del plagio, in realtà sto affrontando (perché continuo ad affaticarmi su questi terreni così lontani dalle mie troppo semplici capacità elaborative, è un vero mistero misterioso?) mi sto inoltrando sul terreno dei testi che generano altri testi e di come questi nuovi testi possano generarne altri, fino a quando fossero necessari altri testi. Oltre a questo argomento di per se già complesso, sono attratto dall’importanza dell’invisibilità e della capacità di apparire dove e quando non si è attesi. Questa capacità di essere ubiqui è necessaria perché in un tutt’uno con l’evoluzione tecnologica e con lo svilupparsi della infosfera, ci stiamo spostando (solo alcuni) da un piano di realtà/non realtà ad un piano di virtualità/non virtualità. In una infosfera dove si vive con e per i dati e dove il corpo stesso si prepara a divenire dati (è così anche per i desideri più intimi e segreti come le passioni/inclinazioni sessuali, come sto sperimentando, per la prima volta, in rete), fermarsi a riflettere, interiorizzare per decidere come si opera a contatto con la massa di corpi/menti che vivono di dati, assume, in tarda età, un fascino come non ipotizzavo mi fosse ancora concesso.

Sono attratto da come l’individuo, per sottrarsi ad essere semplice massa di numeri ammassati, classificati, analizzati, utilizzati possa apprendere l’arte della contaminazione dei dati, e del trasferimento dei dati contraffatti.

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Un saluto al prof. Luciano Floridi

Mai dimenticando che la sfida in un luogo (la infosfera) dove la velocità è molto, se non tutto, consiste nella capacità, tra le altre, di applicare la saggezza di Wang Xi, imperatore cinese, che consigliava di essere rapidi come il vento quando penetra nelle aperture. La decisione presa di controllare (e non solo subire nelle vesti di somma di dati) i centri di elaborazione di questi dati di cui ormai viviamo, suggeriscono, come ho anticipato, l’importanza della invisibilità (e del saperla progettare) per apparire dove non si è attesi e dove non possono farti fare ciò che la sequenza dei dati vorrebbe che tu facessi.  Velocità (del tempo come altre volte e in altre sedi mi sono permesso di dire) che corrisponde all’uso sapiente della cronologia e della tempestività, più che dello spazio. Le tecnologie, come si sa, sono attratte (quasi fossero vive) l’una dall’altra e tendono a fondersi fra loro e a diventare una. Questo è il vostro telefono/computer e i dati, i vostri pensieri telepatici, sono quasi tutti affidati alla scomposizione in dati che altri raccolgono nella speranza/finalità di conoscervi e quindi essere voi. La realtà va in questa direzione e voi potreste essere semplicemente attratti nel buco nero della rete. Oppure, come si vagheggia per i buchi neri, si potrebbe saperli attraversare, uscendone indenni, chissà dove. Ma in una trappola/solo apparentemente aperta che è stata anche inventata per attrarre e richiudersi bisogna saperci entrare e avere chiaro come uscirne salvi e vivi. Una vera sfida degna dell’intelletto umano. Finalmente Colonne d’Ercole spaventose, mille volte di più delle tempeste oceaniche.

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In attesa di assistere, fermi nella nostra coraggiosa curiosità, a quali tecnologie prevarranno, consiglio di creare mezzi estetici e intellettuali per garantire, mentre altri diffondono e catturano solo dati, idee.

Creare mille e mille fabbriche di idee come, quando ho potuto, io stesso ne ho creata una la mia indimenticabile Kami.

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E in queste “fabbriche di idee” sviluppare una delle capacità necessarie ad affrontare il paradosso dell’informazione e cioè che, in presenza di un eccesso di informazioni, si riscontra una difficoltà crescente di difficoltà di accesso alle informazioni in quanto molti dati sono inutili e inoltre alcuni sono addirittura più inutili di altri e solo sotto questa montagna macroscopica e in continua crescita, ci sono le notizie utili.

Ogni giorno siete spinti a comprare nuova tecnologia o evoluzione di quelle che già possedete ma che potrebbe non servirvi.  Ma non a quelli che  vendono la tecnologia che altra tecnologia ha appena inventato.  Vi inducono a sogni semplificatori e sintetizzabili  spingendo un bottone o un tasto. Ma che pensiero ci può essere e che utilità porta se basta, per realizzare il sogno, spingere un bottone?

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Bisogna tornare a faticare intellettualmente ricordando che le parole che oggi usiamo per muovere le macchine a cui addirittura spesso rimproveriamo di essere lente non appartengono a nessuno. Le parole ricordiamo, ripeto, non appartengono a nessuno. Le parole non sono di nessuno perché sono solo di se stesse e hanno una sorprendente vitalità propria. I poeti – ad esempio – liberano le parole e se ne fanno complici, e non le incatenano in frasi che, se composte su una tastiera, aprono files. I poeti non hanno parole di loro proprietà. Le vostre password pensate che siano vostre. Illusi criptatori. Da quando in qua le parole appartengono a qualcuno? Ma questo abbozzo di ragionamento non ha ancora chiuso il cerchio, come potrebbe apparire a prima vista. Non siamo ancora passati da un’apologia della tecnologia a un attacco contro la tecnologia. E come mai potrebbe essere se scrivo e mi leggete grazie all’amica tecnologia? Il problema di cui è arrivato il tempo di interessarci in questo marginale e ininfluente blog è come può il decentramento (questo oggi è in essere) tecnologico restituire sovranità all’individuo piuttosto che togliergliela? E questo farlo in sicurezza. Questo quesito è stato solo sfiorato nell’incontro di Ivrea, alla Fondazione Adriano Olivetti, e solo da alcuni. Uno di questi è stato Massimo Fini.

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È arrivato il tempo di confrontarsi su cosa si è inteso dire ad Ivrea. Difficilmente ci si potrà accordare politicamente/storicamente senza i dovuti approfondimenti. La superficialità è per pochi e spesso (se non sempre), è praticabile solo da quelli che gli abissi li hanno esplorati.

Oggi mi è presa così.

Chissà perché, sapendo che c’è sempre un perché.

Oreste Grani/Leo Rugens