Tra il sogno europeo e l’industria della guerra
Il Mediterraneo costituisce oggi la zona di più forte squilibrio demografico del pianeta con lo sviluppo di un consistente flusso migratorio da Sud verso Nord; il mediterraneo è anche la zona di più alta disgregazione dei livelli di vita sulla terra e rischia di diventare la frontiera più drammatica del confronto Nord-Sud; il Mediterraneo costituisce inoltre un punto iniziale di incontro o di scontro tra realtà etnico-culturali che non sono certo prive di significato per il nostro Continente. Nel Mediterraneo hanno certamente riflesso immediato anche crisi emergenti nelle aree geografiche collegate e limitrofe che rendono ancora più complesso l’insieme geopolitico e strategico dell’intera area euroasiatica.
A fronte di queste “certezze” si potevano immaginare nell’anno 1990 alcune azioni di stabilizzazione. Dico 1990 perché ho il ricordo di aver aver letto cose di questo tipo ad opera di Mino Martinazzoli, all’epoca Ministro della Difesa.
L’esponente politico democristiano suggeriva, in coordinamento con le istituzioni comunitarie, di affrontare il tema delle politiche economiche e di aiuto allo sviluppo, sia sul piano bilaterale che su quello comunitario, nell’ottica di una più puntuale finalizzazione sugli obiettivi di sicurezza.
Il gruppo mediterraneo dell’Unione europea occidentale (così si chiamavano allora alcuni Paesi) avrebbe dovuto inoltre estendere le sue riflessioni sull’impatto politico-strategico dell’assistenza militare, delle esportazioni di armamenti e del trasferimento di capacità progettuali e produttive nel particolare settore ai paesi non NATO del Mediterraneo o africani. Stiamo parlando dell’ABC e invece nulla si fece e poco risulta ad oggi essere in atto. Non esiste l’Europa anche (e non solo) per questo. Tantomeno in quegli anni (se non a chiacchiere) si predispose una gestione congiunta delle crisi (immaginate quanto è accaduto in Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Balcani e ovunque!!), delle manovre di dissuasione e delle eventuali iniziative.
Nessuna reale predisposizione per una gestione congiunta delle crisi, dicevo, quindi, delle manovre di dissuasione e delle eventuali iniziative: ma si può spacciare per Europa un luogo geopolitico dove avvengono cose tipo Libia o Siria? Si sarebbe dovuto almeno tendere all’interoperabilità dei sistemi e dei centri di gestione delle possibili crisi dei vari Stati UE.
Niente, se non dichiarazioni di intenti ed esercitazioni. Esercitazioni costosissime, tante.
Un settore particolarmente importante appariva nell’opinione di Mino Martinazzoli quello della messa in comune dell’intelligence e dello sviluppo di una rete satellitare europea, che avrebbe acquistato particolare rilievo anche in riferimento alle esigenze delle verifiche e del controllo degli armamenti nonché a quelle del monitoraggio ambientale e della protezione civile anche nell’ambito dell’iniziativa ONU in materia. Sull’Intelligence stendo un velo pietoso. Sui satelliti e cosa facciano, ne so troppo poco.
Altrettanto vitale, in quegli anni, il Ministro riteneva il coordinamento delle forze speciali antiterrorismo. Un settore che sembrava avere particolari prospettive di sviluppo, anche per il suo alto grado di accettabilità politica. Antiterrorismo tra gli Stati interessati nonché un approccio comune alle politiche di contrasto al traffico di stupefacenti e alla criminalità organizzata. Qualcosa si fece ma ora che i terroristi sono all’attacco si capisce come sia stato solo lavoro di facciata e profondamente connotato da un approccio ipocrita.
Forse si è lavorato dignitosamente solo sull’interoperabilità e addestramento congiunto delle forze di intervento rapido che avrebbero poi un valore dissuasivo intrinseco essendo il peso di un’azione europea congiunta sicuramente superiore alla somma delle capacità dei singoli Stati. Ma parliamo ancora una volta di esercitazioni.
Un’attenzione particolare si sarebbe dovuta anche accordare al problema della proliferazione missilistica e chimica nei Paesi del terzo mondo a noi più vicini, suscettibile di una risposta anche europea, soprattutto sotto il profilo dissuasivo. Nessuno con trasparenza conosce l’inventario delle misure specifiche adottate nei singoli ambiti nazionali. Viceversa un tale lavoro svolto con onestà di intenti avrebbe potuto consentire di sviluppare un quadro di cooperazione sia pure limitatamente a situazioni contingenti.
A questi ragionamenti fatti con i limiti di un dilettante allo sbaraglio vanno aggiunte alcune considerazioni sul futuro della base industriale della difesa che chiamerò ancora “occidentale”. Tenete conto che nel 1990, anno che ho preso in esame per vedere che aria che tira oggi rispetto a ieri, la caduta del Muro di Berlino ed altre evoluzioni geopolitiche facevano apparire il settore della produzione di armamenti europei necessitanti di un’azione più incisiva se non volevano entrare in crisi. Così doveva essere, a rigor di logica. Comunque sia, sosteneva il Mino Martinazzoli, Ministro della Difesa, i negoziati Cee produrranno una contrazione delle commesse e produrranno anche in generale, una minore propensione dei parlamenti nazionali a stanziare fondi per la difesa. Questo, il bresciano pensava, inciderà seriamente sulle industrie europee degli armamenti.
Inoltre, gli enormi stocks di materiali che si renderebbero disponibili per i mercati esportativi in caso di negoziati Cfe diminuiranno ulteriormente le esportazioni di nuovi armamenti. Previsioni, come si è visto, tutte sbagliate.
Date le dimensioni dei mercati nazionali e la frammentazione tecnologica ed industriale, tale contrazione, ipotizzava l’ex segretario della Dc, poco prima della fine della DC (mani pulite era dietro l’angolo), dovrà essere fronteggiata con un’accelerazione delle tendenze alla collaborazione e alla specializzazione dei ruoli in ambito europeo. Da una parte bisognerà operare seriamente per una ristrutturazione dell’industria degli armamenti, ma dall’altra occorrerà anche evitare che la scomparsa di interi comparti produttivi produca ricadute negative sulla sicurezza europea ed atlantica.
Ma di cosa stava parlando?
È questo un settore in cui l’UE può e deve fornire un contributo complementare all’apprezzabile azione di stimolo e di indirizzo che già svolge l’Iepg. Si tratta infatti di contributi che potranno eventualmente facilitare l’indispensabile coordinamento delle politiche industriali e tecnologiche della difesa in ambito Cee, ai sensi anche dell’art. 30 dell’Atto Unico Europeo. Per un cattolico apostolico “bresciano” non male: fuffa, fuffa, fuffa
Considerazioni conclusive.
Leggo nel testo che mi sono andato a cercare datato Primavera del 1990:
“Di fronte ai mutamenti storici che si stanno sviluppando in Europa credo di poter sostenere che siamo di fronte a novità certo non prevedibili per la loro accelerazione, e tuttavia non casuali. C’è una relazione tra quanto accade e i nostri principi ispiratori.
L’Italia – e con essa i suoi partners europei – si è sviluppata come nazione democratica nell’ambito di tre scelte fondamentali: il rispetto dei principi delle Nazioni Unite (parliamo di una istituzione senza senso ridotta come è ndr) ed in particolare quello della cooperazione come mezzo di risoluzione pacifica delle controversie internazionali (si è visto! ndr); la solidarietà atlantica come strumento di collaborazione e di difesa tra Paesi che condividono gli stessi ideali di democrazia e di progresso nella pace (vedi Libia e Siria ndr); il processo di integrazione europea inteso a creare un’area di stabile cooperazione (ci viene da ridere se non ci fosse da piangere ndr) tra i popoli del vecchio continente.”
Chiacchiere e fatti diametralmente opposti. L’industria bellica è letteralmente scatenata in termini di espansione. I francesi, i tedeschi, gli italiani, gli inglesi, gli svedesi, gli spagnoli, i cechi fabbricano sempre più armi e lo fanno senza alcun coordinamento, con sempre meno “Europa” dietro, ma cercando ognuno di alimentare focolai di consumatori. La guerra tra la gente alimenta la paura e consente di far lievitare consumi inutili. Il mercato della morte furoreggia come scorciatoia al business senza che un solo governo europeo provi a sviluppare alcuna capacità di misurarsi sul vero terreno strategico che sarebbe quello di far scoppiare la pace.
Almeno nel Mediterraneo di cui sopra.
Oreste Grani/Leo Rugens