Strage di Brescia. Perché la parola “fine” dopo (soli ndr) 43 anni. A detta di Stefania Limiti
Le parole che Stefania Limiti, studiosa italiana di cose complesse, onesta e preparata erede del massimo storico delle vicende dei nostri Servizi Segreti, Giuseppe De Luttis, da pochi mesi deceduto ma che – certamente – condividerebbe con me il giudizio sulla documentata serietà della Limiti, affida alla rete sue considerazioni (che mi appaiono soprattutto amare) sulla parola fine da apporre alla tragedia investigativa conosciuta sotto il nome di “Strage di Brescia”, che non possono non essere commentate. Non nel merito dell’esito giudiziario (soli 43 anni !!) ma in quanto l’autrice dell’articolo comparso, pochi giorni addietro, sul Il fatto Quotidiano, usa la parola “fine”. E sulla dicotomia antinomica Origine-Fine, estraendo poche parole dal materiale didattico pronto per il Percorso Formativo per Operatori di Intelligence, dico la mia su quanto invece andrebbe sempre cercato come istante iniziale (quale è stato il big bang di tutto questo dolore e delle scelte che hanno violentato l’Italia e che potrebbero ancora tornarla ad insanguinare nel perdurare di questa guerra civile “ideologica” e di “poteri” mai risolta?):
“Una qualsiasi forma, per il fatto stesso che esiste come che tale e che dura, si indebolisce e si logora. (Così è certamente per un’investigazione che dura 43 anni ndr!!!!!!). Per riprendere vigore, una qualsiasi forma, deve essere riassorbita nell’amorfo, anche se per un solo istante, essere reintegrata nell’umanità primordiale da cui è sorta; in altri termini, rientrare nel «caos» (sul piano cosmico), nell’«orgia» (sul piano sociale), nelle «tenebre» per le sementi, nell’«acqua» (battesimo sul piano umano e Atlantide sul piano storico). Come i greci, nel mito dell’«eterno ritorno», cercavano di soddisfare la loro sete metafisica dell’«ontico» e dello statico (poiché dal punto di vista dell’infinito il divenire delle cose che ritornano incessantemente nello stesso stato è di conseguenza implicitamente annullato e si può anche affermare che «il mondo resta fermo»), ugualmente il «primitivo», confermando al tempo una direzione ciclica, annulla la sua irreversibilità. Tutto ricomincia (cara a me, Stefania Limiti ndr) dal suo inizio in ogni istante; il passato non è che la prefigurazione del futuro e nessun avvenimento è irreversibile e nessuna trasformazione è definitiva. In questo senso, si può anche dire che non si produce nulla di nuovo nel mondo, poiché tutto è solamente la ripetizione degli stessi archetipi primordiali (che strani spunti didattici si useranno in questa scuola per operatori di intelligence!!!!!! ndr). Questa ripetizione, attualizzando il momento mitico, in cui il gesto archetipico fu rivelato, mantiene incessantemente il mondo nel medesimo istante aurorale degli inizi. Il tempo (e questa volta ci sono voluti “solo” 43 anni! ndr) non fa che rendere possibile la comparsa e l’esistenza delle cose, e non ha nessuna influenza decisiva su questa esistenza – poiché anch’esso si rigenera continuamente”.
Mircea Eliade
Strage di Brescia. Perché la parola ‘fine’ dopo 43 anni di Stefania Limiti
Sono davvero tanti 43 anni. Tanto è passato tra quel 28 maggio del 1974, quando scoppiarono le bombe in piazza della Loggia a Brescia, e le motivazioni della sentenza della Cassazione che lo scorso 12 settembre hanno messo la parola ‘fine’ al tormento privato e collettivo seguito alla strage. L’impunità dello stragismo è una bestia nera: sembra che le vittime non possano riposare in pace, lo strazio dei sopravvissuti pare destinato a non placarsi mai, una comunità intera si chiede insistentemente ‘perché’ e ‘chi è stato’ a seminare morte e terrore. Sappiamo orami che l’immunità dei responsabili, esecutori e mandanti, fa parte degli ‘attrezzi’ dello stragismo che ha colpito l’Italia, con tutto il carico di impotenza e di mistero che essa comporta. Le risposte arrivate sul piano giudiziario, nella maggior parte degli episodi destabilizzanti e in particolare di stragismo, sono state per lo più insufficienti. L’impegno di magistrati e investigatori non è mai mancato ma poco ha potuto, nell’immediatezza dei fatti, contro le azioni depistanti, finalizzate a togliere elementi dalla scena del crimine oppure a far sì che non venissero cercati. Il che garantisce gli stessi risultati. La vicenda bresciana è di esempio e aiuta a comprendere concretamente questo scenario. Vediamo perché. Il confidente Maurizio Tramonte, noto come la fonte ‘Tritone’, oggi condannato insieme a Carlo Maria Maggi, il reggente di Ordine Nuovo al Nord, aveva raccontato al maresciallo Luca Felli molte cose interessanti. E lo fece proprio a ridosso della strage. Raccontò di una riunione tenuta il 25 maggio (tre giorni prima della strage) ad Abano Terme, in casa di Gian Gastone Romani, militante della destra veneta: durante l’incontro, accompagnato da cibo e vino a volontà, vennero messi a punto i particolari del programma eversivo. L’informativa firmata da Felli è datata 6 luglio 1974: Brescia e l’Italia sono ancora sotto shock. Si sa subito che Maggi è una figura ‘apicale’ del gruppo. E Tramonte, scrivono i giudici dell’Alta Corte, <<era stato messo al corrente della struttura operativa clandestina, della strategia e degli obiettivi della formazione eversiva, partecipando alla riunione tenutasi nel padovano, nei primi mesi del 1974, in cui si era discusso della costituzione, a Padova, di una cellula di “Ordine Nuovo”, differente da quella gravitante attorno alla libreria “Ezzelino”, gestita da Franco Freda. Nel corso di tale riunione Maggi aveva riferito ai presenti di una serie di attentati di matrice stragista che dovevano essere eseguiti in tutto il territorio italiano>>. Insomma, la fonte era affidabile, sapeva tutto, come poi ha dimostrato negli anni seguenti con le sue testimonianze alla Procura di Milano e Brescia – sostenute anche dai racconti di Carlo Digilio, uno dei più importanti pentiti dello neofascismo italiano, che negli anni ’90 riferì molto delle attività di Carlo Maria Maggi e della sua partecipazione alle riunioni preparatorie della strage, tenute tra Rovigo e Colognola ai Colli. La pista investigativa subito indicata a Felli, tuttavia, non fu perseguita. Un po’ come accadde per le indagini sulla strage di Piazza Fontana. Il commissario Pasquale Juliano, una bella figura di funzionario democratico e fedele alle istituzioni, dopo il dicembre del ’69, lancia subito l’allarme sui neofascisti veneti ma viene messo da parte. Più facile scatenare la caccia all’anarchico. Nel caso delle indagini su Piazza delle Loggia accadde lo stesso. Al tempo il nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia era guidato da Francesco Delfino, poi generale, un uomo ‘multitasking’, uno Zelig dell’Arma. Venne assolto dalla Corte d’appello di Brescia dall’accusa di aver fatto parte del gruppo stragista – il suo principale accusatore, sempre Tramonte, ebbe la fragilità di ritrattare tutto, pressato dalle telefonate di Delfo Zorzi. Incontrai Delfino nel febbraio del 2014, poco prima che morisse, nella residenza dove curava i suoi malanni, e ammise con disinvoltura che la strada delle indagini era stato precostituita per non “disturbare” Ordine Nuovo. Si imboccò quella che portava alle responsabilità di Ermanno Buzzi, che nell’aprile del 1981, poco prima della sua testimonianza nel processo per la strage, fu ammazzato nel supercarcere di Novara da Mario Tuti e Pierluigi Concutelli. <<Fu lo stesso Buzzi>> , mi disse Delfino, <<a parlarci dei veneti, ci fece dei nomi, naturalmente falsi, nomi di battaglia. Noi cercammo di capire a chi appartenessero ma non riuscimmo a scoprire nulla, non riuscimmo a individuare le persone che Buzzi ci stava indicando. In quel periodo a Brescia c’era un gran via vai di veronesi … perché il gruppo di neofascisti bresciani aveva capacità operativa di medio livello, il centro direttivo, invece, era a Verona>>. Delfino andò oltre, spiegando che anche <<il gruppo veronese non rispondeva solo a se stesso. Era manovrato dagli agenti atlantici. Esisteva una rete molto vasta di personaggi che facevano capo alle basi militari. Uno dei capi più attivi era un americano che ha abitato per un certo periodo con la moglie a Verona, ma non ho mai saputo il suo nome”. Generale, lei sta facendo riferimento ad una sovrastruttura straniera, gli chiesi? “Sto parlando di un potere non italiano che ha determinato il caos nel nostro paese. Noi abbiamo scoperto quello che ci è stato consentito di scoprire”, chiosò Delfino. Il gruppo veronese di Ordine nuovo era guidato da figure di primissimo piano come l’ufficiale paracadustista Elio Massagrande, l’addestratore di giovani militanti di On Roberto Besutti, o brillante organizzatore di iniziative politiche Claudio Bizzari. E la città veneta era il luogo scelto da Carlo Maria Maggi e i teorici di Ordine Nuovo e della loro Scuola, il think tank nero, per far nascere sette esoteriche che attiravano giovani manovali del terrore. Lì c’era tutto l’armamentario della guerra non convenzionale e c’era una fitta rete di agenti atlantici, come ricorda Delfino, che tirava i fili per far muovere tanti burattini. Uno scenario che rendeva già allora ancor più fragile la figura del piccolo ladro di opere d’arte qual era Buzzi: ma anziché scegliere la via impervia ma proficua che portava a Verona e poi Padova, si preferì indicare il mostro della strage. L’insignificante Buzzi. Di lì iniziò una grande opera di depistaggio che le vittime, i loro familiari e la coscienza democratica del nostro paese hanno pagato a caro prezzo.
Stefania Limiti
Sperando di aver fatto cosa gradita.
ORESTE GRANI/LEO RUGENS