Ribadisco per amore di Verità: Pierluigi Piccini – con largo anticipo – aveva avvertito di quanto sarebbe accaduto a Siena e nel MPS
Quando metto nero su bianco (ma potrei usare altri colori che quelli della pavimentazione dei templi massonici) che questo groviglio senese (incendi, fallimenti ed ora perfino ipotesi di omicidio) non trova soluzione se non si pente qualcuno che conosca bene le vicende degli ultimi trent’anni, non trovo nessuno che mi indirizzi, fosse anche telematicamente, mezza parola di smentita o di critica. Silenzio assoluto, soprattutto da parte dei protagonisti di quanto racconto. Per i distratti: io sostengo che tutto quanto è ormai esploso drammaticamente in Siena e dintorni, Pierluigi Piccini (figura di intellettuale e di politico romano-senese, adesso anche noto al grande pubblico mediatico per essere stato intervistato dalle Iene) lo aveva detto, con dovizia di particolari e accompagnandolo con elementi di interpretazione e di previsione, anni prima, allo Spendide Royal Hotel di Roma, oltre dieci anni addietro, in una riunione appositamente convocata da me e tenutasi, per ore e ore, nella suite 504. In particolare Piccini lo spiegò a Maurizio Migliavacca, parlamentare, ritenuto, a buon diritto e in quel momento, dirigente politico ascoltato dall’oligarchia post comunista che per semplicità chiameremo dalemiana, gruppo che all’epoca rappresentava ancora il vero vertice del partito DS o come cazzo si chiamava. Soprattutto i referenti scelti per indirizzare le informazioni era quello che faceva e disfaceva le trame del potere legate al mondo degli affari. Sostengo pertanto che quanto poi si è accertato Giuseppe Mussari e i suoi complici facessero in Siena, la direzione del Partito comunista, tramite l’ambasciatore da me scelto, lo sapeva da oltre dieci anni. Una cosa apparentemente marginale ma che mi sento di dire, per le conseguenze “storiche” successivamente avutesi, gravissima.
“Gli indifferenti”, mi sembra si chiamasse il romanzo di Alberto Moravia, lavoro letterario ferocemente critico nei confronti della borghesia indifferente, appunto, a quanto accadeva durante il fascismo. Indifferenza male oscuro quindi a cui faccio risalire in modo colpevole il buco nell’acqua di quando portai, nel periodo inverno 2010 – primavera 2011 a conoscenza dei cittadini senesi l’insegnamento premonitore di Mario Luzi rispetto alle macerie morali, economiche e politiche che era certo avrebbero coperto, quanto prima, la Città del Palio: per questa attività svolta semplicemente in spirito di servizio “intelligente”, certo che il Piave sarebbe passato per Siena (e così è stato) fui perfino sbeffeggiato (con i miei collaboratori che generosamente e gratuitamente mi avevano seguito in quella avventura politica ma soprattutto etica e morale) e attaccato giornalisticamente (faceva lo scribacchino usando i soldi pubblici e dei fondi ultimi del MPS) da quello Stefano Bisi, gran maestro/mestatore che difende, ancora oggi, il suo diritto a fare comunella con figuri che, spacciandosi per massoni, sono in realtà espressione della peggiore società criminale e affaristica. Che siano calabresi, siciliani, campani o pugliesi. Stefano Bisi, siamo ancora in attesa di scuse, per quanto scrivesti contro il sostegno che Ipazia Promos, stremandosi nelle sue finanze, onestamente guadagnate e possedute, alla possibilità democratica di battere elettoralmente il vostro (non nostro) duo, costituito dai pupazzi Franco Ceccuzzi e Alessandro Nannini. Ipazia e Grani avevano ragione a prefigurare l’orrore mentre voi difendevate gli autori dell’orrore. Quello già perpetuato e quello che vi preparavate a far accadere. Il morto di Siena (il meno colpevole di tutti) era amico di Ipazia Alessandrina o della vostra banda di malfattori?
David Rossi, autorizzava bonifici indirizzati verso il tuo giornale, verso la Mens Sana poi fallita miseramente, o verso il c/c di qualche albergo e qualche tipografia che l’esausta Ipazia Promos non riuscì a saldare? Voi (e quando dico voi abbino a Stefano Bisi, Gustavo Raffi, Giuseppe Mussari, Denis Verdini, Alessandro Nannini, Franco Ceccuzzi e cento altri paraculi contradaioli) siete quelli che già nel 2009 eravate descrivibili con le parole che seguono:
“Lord Ned Lambton, conte di Durham, e suo figlio Fred, nipote dell’ex ministro della Difesa britannico coinvolto negli anni Settanta in uno scandalo di prostitute e marijuana, proprietari della secentesca Villa Chigi, fatta costruire per celebrare l’elezione di papa Alessandro VII; Emilio Giannelli, ex dirigente del Monte dei Paschi di Siena e oggi vignettista principe del «Corriere della Sera»; Alberto Asor Rosa, intellettuale disorganico, già protagonista della battaglia per difendere Montichiello dalla speculazione edilizia. Sono loro alla testa di più di 4 mila aderenti al comitato spontaneo di cittadini contro l’ampliamento dell’aeroporto di Siena-Ampugnano. Una schiera di avversari insidiosi per i poteri forti senesi, fondamentale enclave ancora rossiccia, ma ben venata di insegne massoniche, di destra e di bianco prelatizio. Il sindaco, il presidente della provincia, il presidente della Fondazione bancaria e quello del Monte dei Paschi, oltre al fondo d’investimento lussemburghese Galaxy, vorrebbero fare del piccolo aeroporto nel comune di Sociville, costruito negli anni Trenta come scalo militare in un’ex palude ai piedi delle colline senesi e oggi frequentato da qualche raro volo di aeroplanini, uno scalo commerciale di linea, con 70 voli al giorno e 350 mila passeggeri, destinati a salire nel 2020 a 90 e 490 mila. Un bell’affare, stimano.
Ma equivarrebbe ad aprire una pista d’atterraggio – ha scritto su «Repubblica» Giovanni Valentini in via dei Fori Imperiali, tra il Colosseo e piazza Venezia, in un Paese che già dispone di 79 aeroporti, qualcuno dice addirittura cento, di cui una cinquantina con traffico commerciale. Da Albenga, dove il ministro per lo Sviluppo economico Claudio Scajola si era fatto fare un volo ad personam per tornare comodamente a casa nel weekend , ad Asiago, da Bresso a Capri, da Fano a Perugia, da Vicenza a Tortolì. Vista la quantità e la qualità delle opposizioni, le aspirazioni del Fondo Galaxy si sono ridimensionate e gli sponsor politici si sono alquanto defilati. Ma nel paradiso rosso toscano, all’ombra di Rocca Salimbeni, sede del Monte, qualcosa s’è incrinato.
Giuseppe Mussari, l’avvocato calabro-senese presidente del Monte dei Paschi di Siena, bello e riccioluto come un attor giovane, assai adrenalinico nel suo studio di Rocca Salimbeni protetto dall’affresco della Madonna della Misericordia, ha avuto ben altro di cui occuparsi negli ultimi mesi che non dell’aeroporto di Ampugnano. Nel 2007, in quasi perfetta coincidenza temporale con la nascita del Partito democratico, c’è stato il parto del terzo gruppo bancario nazionale, dopo Unicredit e Intesa, con l’acquisto dell’Antonveneta, la banca padovana di Sant’Antonio, che dopo i disastri della stagione dei furbetti e il breve passaggio nelle mani dei calvinisti olandesi dell’Abn Amro, gli spagnoli vicini all’Opus Dei hanno ceduto a Siena, roccaforte rossa e massonica, per nove miliardi di euro, tre in più di quanto l’avevano pagata poche settimane prima. Questa volta, nessuno, per fortuna, ha sussurato per telefono dal Botteghino «Abbiamo una banca!», come era capitato per l’affare poi fallito Unipol-Bnl. Salvo forse Francesco Gaetano Caltagirone dal suo ufficio romano di via Barberini.
Se due coincidenze fanno un accidente del destino, cosa fanno tre coincidenze? Perché mentre Walter Veltroni battezzava il Pd, tra le architetture milanesi della nuova Fiera milanese di Massimiliano Fuksas, e Mussari trattava segretamente con gli spagnoli dal castellare duecentesco dei Salirnbeni, il sindaco di Siena Maurizio Cenni, diesse di antica e totale militanza, pars magna istituzionale nella designazioni degli amministratori della Fondazione Monte dei Paschi, univa in matrimonio senese nella Sala del Buongoverno nientemeno che Pier Ferdinando Casini, leader ex democristiano forlaniano e poi berlusconiano, oggi dagli incerti approdi politici, e Azzurra, figlia di Francesco Gaetano Caltagirone, il cavaliere del lavoro «più liquido d’Italia» e soprattutto grande azionista e vicepresidente tutt’altro che dormiente del Monte. È lui, ottimo amico di Botin del Santander, l’artefice dell’operazione e di fatto il nuovo padrone di Siena attraverso il Monte?
Mussari racconta in cima alla splendida «Scala d’oro» di cemento armato costruita nel castello senese dei Salimbeni su progetto dell’architetto Pierluigi Spadolini e chiamata così, a quanto si narra, per il numero spropositato di miliardi di lire allora costata, che i suoi rapporti con Giovanni Bazoli e con Cesare Geronzi sono più che buoni e che quelli con il suo vicepresidente Caltagirone sono «ottimi». Ma è lui il responsabile di un matrimonio bancario, non quello anagrafico tra la Caltagirone e Casini. «Un matrimonio bancario sano, strategico, senza porcherie come quelle cui si è assistito nel passato recente, tutto proteso ai buoni affari che creano valore per gli azionisti» mi dice Mussari. Per l’appunto, l’acquisto dell’Antonveneta, la banca del nordest, orfana dai tempi del defunto Silvano Pontello, che nonostante i nove miliardi pagati, creerà valore per la complementarietà di due delle zone più ricche del Paese, per la distribuzione degli sportelli, per l’intreccio delle quote di mercato, per la qualità dei prodotti che venderà. Un business sostenibile chiuso con i soldi sul tavolo, stavolta senza furbi, furbetti e furbacchioni. E senza politica, se vogliamo credere al paradosso secondo cui la città-banca, la banca-città più politica al mondo, che però non si fece addomesticare neanche da Mussolini, si sia mossa veramente da sola, senza avalli, come una specie di città-Stato, che semmai sulla politica-politica e sui suoi cerimoniali sembra lanciare quasi un’Opa ostile: a voi la politica politicante, a noi gli affari.
Basta con l’arroccamento autoisolazionista e autolesionista dovuto anche ai precedenti errori che la politica indusse. Ma poi vennero il disastro dei subprime e la crisi globale. Il vicepresidente Caltagirone all’operazione ha creduto prima di tutti, concede Mussari. Logico: per promuovere i suoi interessi al nordest il cavaliere, che a Roma faceva follie per Veltroni per poi abbandonarlo nel momento del bisogno, ha comprato il «Gazzettino» di Venezia. Ora, senza la banda dei furbetti al seguito, si trova comproprietario della banca di quel territorio, oltre che vicerè di Toscana. Qui garantiscono che non ha altri interessi, non possiede neanche un metro cubo e dell’aeroporto di Ampugnano non gli cale né poco né punto. Ma chissà se ha anche rinunciato con Vito Bonsignore all’idea in project financing dell’autostrada Firenze-Siena-Grosseto.
«Falle e poi dille» è il motto ripetuto da Giuseppe Mussari, nato politicamente nella Federazione giovanile comunista della città dove studiò, figlio di un catanzarese e di una senese. Del blitz su Antonveneta qui giurano tutti che non sapeva D’Alema, non sapeva Fassino, non sapeva neanche Veltroni. Non sapeva Franco Bassanini, vecchio tutore senese, né Giuliano Amato, a suo tempo, primo disboscatore della foresta pietrificata del credito. Il quale, a cose fatte, non mi nascose qualche seria perplessità sul prezzo pagato da una banca come il Monte, che pure ha avuto discreti problemi a digerire anni fa l’acquisto per 2500 miliardi di lire della Banca del Salento, in un’operazione che si disse sponsorizzata da Massino D’Alema. Ma Intesa non ha pagato fino a 12 milioni alcuni sportelli, contro i 9 che sono costati quelli dell’Antonveneta? Solo il giorno dopo la sospensione del titolo in Borsa e l’annuncio ufficiale – confermano le testimonianze – il centralino di Rocca Salimbeni smistò squilli al presidente Mussari, di Walter Veltroni e Romano Prodi. Che mondo nuovo, con i politici ostaggi non solo dei brasseur d’affaires, che urlano nei telefoni come devono andare i congressi, ma persino dei banchieri che una volta erano tutti lì allineati a prendere ordini. Ma poi venne la crisi. Se le cose si mettono peggio chi potrà fare a meno della politica, di Giulio Tremonti e delle pubbliche iniezioni di liquidità?
Nomi che ancora inquinano l’atmosfera politica ed economico-finanziario della Repubblica. Ultimo, in ordine di tempo, il delinquente Geronzi Cesare che ottiene di fatto l’immunità perché altrimenti parla e manda in galera tutti. Si diceva a Siena che il blitz (quello che per effetto domino poi farà crollare tutto) su Antonveneta non era a conoscenza di D’alema, di Fassino, di Veltroni. Si dice che non ne sapessero nulla Franco Bassanini, né Giuliano Amato. Io so solo che prima del 2009 (già alcuni anni prima) Piccini raccontò come stava messa contabilmente la Banca e cosa sarebbe successo se non si fosse, quanto prima, invertita la rotta e soprattutto se non si fosse rimossa dal comando della Fondazione, la “Banda delle Termiti” guidata da Giuseppe Mussari. Chiamiamola così! Questo lo dico in amore e in onore di verità e non per un eventuale rapporto con Pierluigi Piccini a cui ascrivo altre gravissime responsabilità (e il tradimento dell’amicizia che gli avevo offerto) ma non certo di non aver avvertito in tempo del ciclone/terremoto/inondazione, chi di dovere. Anche perché lo aveva fatto grazie e tramite me.
Finche vivo quindi, sento il bisogno/dovere di ribadire che tutto (e quindi in modo consequenziale anche il suicidio/omicidio di David Rossi) poteva essere evitato: bastava ascoltare l’accorato appello che l’ex sindaco di Siena proferì in quelle ore (tante e intense) nella suite dello splendido Splendide Royal Hotel. Con largo e sufficiente anticipo sugli avvenimenti.
Oreste grani che rimane, a piede fermo, in attesa di smentite.