Soffermiamoci qualche minuto su Riina, le mafie ma non dimentichiamo la P2, Gladio, l’Anello

De kus

Bernadien Sternheim, 2001

Se proprio dobbiamo fermarci un’ora sulla morte di Riina, mostro sanguinario che ci ha privato di menti eccelse di giuristi, di investigatori, di coraggiose donne e uomini che hanno provato a fare scudo con il loro corpo ai servitori dello Stato, vediamo, utilizzando questo tempo, di chiarire in cosa consista il quadro giuridico (ridotto all’osso) in cui agiscono pendagli da forca come il corto Totò. Lo facciamo ricordando in apertura del post una delle frasi più significative che mi ricordo di Giovanni Falcone:

“Un’affermazione del genere mi costa molto, ma se le istituzioni continuano nella loro politica miope nei confronti della mafia, temo che la loro assoluta mancanza di prestigio nelle terre in cui prospera la criminalità organizzata non farà che favorire sempre di più Cosa Nostra”.

Proviamo a non distrarci, quindi, e a metterci un buon paio di occhiali per correggere miopie e strabismi.

Secondo la Convenzione ONU sulla Criminalità Organizzata Transnazionale, presentata volutamente a Palermo, nel dicembre 2000, un gruppo criminale si definisce “organizzato” quando è strutturato avendo ruoli e compiti definiti dei criminali che ne fanno parte, esiste per un certo periodo, è composto da tre o più persone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o un profitto materiale. Chiaro e di facile comprensione senza bisogno di essere giudice, avvocato o investigatore professionale.

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In Italia, è giusto chiarirlo, quando si tratta di criminalità organizzata, ci si riferisce istintivamente alla mafia, anzi alle mafie (Cosa Nostra siciliana, Camorra campana, ‘Ndrangheta calabrese, Sacra Corona Unita pugliese), organizzazioni criminali secolari che il codice penale italiano, dal 1982, definisce e sanziona con l’articolo 416-bis:

Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da tre a sei anni. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’organizzazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da quattro a nove anni. 

L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri.

Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da quattro a dieci anni nei casi previsti dal primo comma e da cinque a quindici anni nei casi previsti dal secondo comma. L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito. Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.

Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego.

Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare.

Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.

Questa è la legge scusandomi se manca qualcosa.

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Gli obiettivi di un gruppo criminale organizzato sono:

• impunità,

• ingente e rapido arricchimento,

• acquisizione di posizioni di potere.

In pratica, la criminalità organizzata agisce come un’impresa sui generis che tende a massimizzare il profitto con i mezzi della violenza e/o della minaccia, minimizzando i costi, eliminando fisicamente la concorrenza quando non riesce a raggiungere accordi o si pone come ostacolo.

Per realizzare i propri obiettivi, deve intessere rapporti con appartenenti alle Istituzioni e strutture amministrative dello Stato, con esponenti della politica e della finanza, ponendo in essere attività corruttiva, mantenendo i vincoli su base di reciproca convenienza ed omertà, garantiti da ricatti, minacce ed anche assassinii nei confronti dei soggetti direttamente interessati, comprese persone a loro molto vicine o legate da vincoli parentali.

Pertanto, la criminalità organizzata costituisce fattore di grande destabilizzazione interna ed intenso discredito degli italiani all’estero considerati portatori di maligna metastasi, un aspetto di gravissima insicurezza reale, poco percepita dai cittadini nella sua effettiva dimensione, sulla quale  fa aggio la microcriminalità.

I media danno notizia di gravi episodi, arresti, omicidi, retate etc. frutti di male piante perenni di cui non si riesce a recidere le radici, delinearne la concreta, progressiva estensione e penetrazione nel tessuto sociale.

Sull’argomento, si ritiene essenziale soffermarci per alcune fondamentali considerazioni. La criminalità organizzata è la macro espressione d’illegalità più corrosiva, che sottende profondamente le dinamiche della vita quotidiana, di cui si parla senza il dovuto rilievo, soprattutto in sede politica.

È un segnale inequivoco dei gravissimi problemi di uno Stato in grande difficoltà nell’amministrazione di quattro Regioni dell’Italia, ed anche di altre Regioni, in particolare le più ricche.

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La criminalità organizzata oggi in Italia:

• gestisce il traffico della droga in costante aumento. A pioggia, con più diversi prodotti, sta contaminando una percentuale sempre maggiore della popolazione sino a portare i dodicenni a sniffare cocaina o usare altre sostanze dopanti;

• governa, controllando/accordandosi, l’attività della criminalità dell’Est, magrebina, nigeriana, il giro della prostituzione;

• condiziona la gestione dei grandi appalti delle opere pubbliche e private, della sanità, della raccolta e smaltimento dei rifiuti, gestisce il traffico di armi, il “pizzo”, esercita l’usura, le estorsioni, controlla video poker e voti di scambio.

Si tratta, quindi, in modo frammentario, di microcriminalità che colpisce intimamente l’emotività dei cittadini, ma si preferisce far passare in sordina il fenomeno della criminalità organizzata, che si riproduce come fenomeno tipico di ibridazione nei nuovi contesti economico sociali e che, capillarmente, si espande in tutti i gangli vitali della società italiana. Società che è sostanzialmente condizionata da questo “alieno” che la abita ormai dall’interno.

Queste organizzazioni, che qui abbiamo ritenuto dal punto di vista descrittivo, di semplificare fino all’inverosimile, sono, viceversa, in quasi tutto il Paese, una realtà ipercomplessa, spesso “contaminata” dalla politica corrotta e corruttrice. Questa somma di gentaccia, opera insieme per condizionare la gestione dei grandi e dei piccoli appalti, cercando di non lasciare, attraverso questi comitati d’affari così integrati, nulla che possa dare un qualche profitto. Spesso, se non sempre, queste realtà dai confini indefinibili e sfuggenti, sono linfaticamente alimentate da personalità oscure, professionisti perfino apprezzati sul loro stesso territorio. In realtà, donne e uomini che si sono formati, quasi sempre, al pensiero massonico, nella sua peggiore versione esoterica. Di questo mondo si parla poco (si fa colore o, a volte, uso inutilmente allarmistico) con la scientificità che sarebbe necessaria e con il sentire profondo (i nemici dello Stato repubblicano dovrebbero sempre sapere che non li si teme e che, viceversa, li si tiene sotto tiro) di chi è pronto al contrasto culturale, politico, militare. La lotta a questo sofisticato impasto tra politica e mafie, ha bisogno di tanto lavoro di intelligence low profile ma anche di punti di riferimento tangibili, altamente visibili, che diventino esempio e timore per il campo avverso. Bisogna studiare, senza un attimo di tregua (usando risorse intellettuali ben reclutate, selezionate, formate), il doversi/volersi trasformare permanentemente dei criminali: la Mafia che aspettava, negli ultimi mesi, la morte di Riina per decidere nuovi capi e nuove strategie non è certo la realtà che lo vide emergere 50 anni addietro. I mafiosi e i loro supporter vanno studiati, capiti, arpionati, sputtanati nella loro pochezza morale. Totò Riina se ne è andato dopo una vita trascorsa, per prima cosa, ad ammazzare rivali. Decine e decine. Poi, fatta strage dei nemici interni alla criminalità, quel nanerottolo, latitante “protetto” per 25 anni, si è rivolto contro lo Stato per intimidirlo o per fare favori a qualcuno che gli avrebbe dovuto facilitare la vita futura. Ma mentre si lotta contro questa gentaccia, altri devono sostenere, con il lavoro e la cultura, la gioventù che sempre di più li deve considerare per quello che sono: dei vigliacchi, forti solo con i deboli e, in realtà, assassini pieni di vizi e dipendenze, fisiche e psichiche.

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Gente che senza soldi e la pistola non sarebbe niente. Questo dobbiamo saperlo comunicare. E non solo con conferenze stampa e qualche articolo elogiativo per le Forze dell’Ordine. Ci mancherebbe pure che mancassero questi momenti. Ma non bastano. Questo lo dobbiamo saper fare/comunicare mentre milioni di giovani italiani sono senza lavoro e mentre le loro famiglie sono considerate ormai in povertà. Attenti su questo punto: l’assenza di equità sociale e di meritocrazia sono alleati oggettivi dei criminali e delle loro necessità di reclutamento. Per questo, tra l’altro, non si doveva lasciare il vantaggio (ed è inutile che Sgarbi gridi istericamente l’innocenza dei forzaitalioti e del duo Dell’Utri-Berlusconi) di vincere le recenti elezioni regionali ai vecchi e nuovi referenti della Mafia. Lo dobbiamo ai nostri eroi caduti nell’adempimento del dovere. Solo così onoreremo i tanti Salvatore Carnevale, Enrico Mattei, Pietro Scaglione, Giorgio Ambrosoli, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giangiacomo Ciaccio Montaldo, Piersanti Mattarella, Giovanni Falcone, Rocco Chinnici, Paolo Borsellino, Salvatore Bartolotta, Mario Trapassi, Stefano Li Sacchi, Cesare Terranova, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Vincenzo Li Causi, Mauro Rostagno, Mario Ferraro, Vincenzo Agostino, Boris Giuliano, Giuliano Guazzelli, Nino Cassarà, Roberto Antiochia, Pio La Torre. E cento altri che in questo momento emotivo dimentico.

Mai però dimenticando l’intervista a Licio Gelli fatta dal settimanale “Oggi” – nel febbraio del 2010 – in cui il grande mestatore doppiogiochista affermava, in modo lapidario: “Io avevo la P2, Cossiga la Gladio e Andreotti l’Anello”. Dieci parole. Ed io, nella mia marginalità ed ininfluenza, aggiungo: tutte e tre queste realtà, nel tempo, con diverse modalità, hanno avuto rapporti con la Sicilia e con la Mafia.

Oreste Grani/Leo Rugens