La mente come l’acqua. La mente come la Luna

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Recuperato grazie ad un recente intelligente interlocutore, rileggo l’articolo che nel lontano 1992 (data e periodo oggi vicini, dopo la sentenza di ieri, come non mai) Attilio Bolzoni dedicò al groviglio bituminoso che si era andato a consolidare nella Questura di Palermo intorno (e non solo) alla figura del poliziotto Bruno Contrada, per un periodo anche dirigente di peso del SISDE.

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L’articolo va letto e riletto in quanto racconta cose degli anni che precedono lo stragismo del biennio ’92-’93 e, come spesso accade, è ciò che precede (e ciò che segue) che spiegano bene ciò che è accaduto in quel dato momento. Va tenuto tutto, come dico in modo ossessivo, sempre in un quadro sinottico spazio-temporale, scientificamente costruito, secondo prassi che non consentano approcci generici o superficiali.

È il metodo investigativo che solo preserva dalla spinta delle intuizioni (ci devono essere, ma si devono tenere a bada con il cronometro e i riscontri oggettivi) e che vanno vagliati sempre con criteri di credibilità, attendibilità, certezza, verosimiglianza, logicità, storicità, supporti, riscontri, coincidenze e sovrapposizioni, eventualità di un crimine di gruppo, collegamenti certi ad altri soggetti, coperture reciproche.

Fase sempre delicata quella investigativa ma mai da affrontare quando riguardasse cose che interferiscono con la vita stessa delle istituzioni repubblicane dimenticando la saggezza metodologica implicita nel principio “Mizu no Kokoro.Tsuki non kokoro” (La mente come l’acqua. La mente come la Luna). Vi riporto una fra le tante riflessioni attinenti questo suggerimento investigativo, sperando di fare cosa gradita.

Nella pratica del karaté tradizionale, l’aspetto psicologico gioca un ruolo di primo piano. Spesso, chi è più forte “psicologicamente” riesce a dominare l’avversario, anche se questo oppone un fisico prestante. Da secoli, i grandi maestri della “mano vuota” sanno esprimere, con un linguaggio figurato dal significato incisivo, concetti e immagini di notevole attualità. La similitudine e la metafora sono figure retoriche ampiamente usate in un lontano passato, non solo europeo, ma anche orientale. Nell’antichità, in Giappone come nella Grecia classica, la descrizione dei sentimenti e dei comportamenti umani è resa traendo spunto dall’ambiente naturale o dalla vita domestica quotidiana.

Una calma imperturbabile


La calma necessaria per affrontare l’antagonista più temibile è raffigurata dai maestri di arte marziale come uno specchio d’acqua. L’espressione mizu no kokoro (una mente come l’acqua) indica, appunto, l’attitudine considerata indispensabile per ottenere la vittoria. La superficie limpida dell’acqua riflette con accuratezza l’immagine di qualunque oggetto vi si affacci. Allo stesso modo, se la mente umana è trasparente e imperturbabile, la calma (virtù dei forti anche secondo Shakespeare, celeberrimo genio occidentale) permette di fronteggiare con la dovuta fermezza la situazione più difficile. In questo stato di pronta attesa, la comprensione fisica e psichica delle mosse dell’avversario è immediata e precisa, tanto da consentire una risposta controffensiva appropriata e puntuale. Al contrario, se la superficie dell’acqua è anche solo lievemente increspata, l’immagine che da questa si riflette è distorta; la mente preoccupata della difesa e dell’attacco non è in grado di interpretare il pensiero dell’avversario ne di creare un’opportuna strategia vincente.
Tsuki no kokoro (una mente come la luna) si riferisce alla necessità di essere costantemente consapevoli degli spostamenti e delle intenzioni dell’avversario, come la luna che illumina ogni cosa si trovi nel suo fascio di luce. Con un profondo sviluppo di questa attitudine è possibile mettere a fuoco anche il minimo spiraglio nell’apertura della guardia dell’avversario. Le nuvole che offuscano la luce della luna rappresentano il nervosismo o la distrazione che possono interferire con la corretta interpretazione delle intenzioni e dei movimenti dell’avversario, rendendo difficile l’esecuzione e l’applicazione delle proprie tecniche difensive.

Tra corpo e mente


Nella pratica del karaté, il successo dipende strettamente dalla capacità di concentrare l’energia di tutto il corpo in un punto circoscritto della dimensione spaziotemporale. In un solo istante, la massima forza (kime) deve essere focalizzata su un preciso bersaglio. Per ottenere questo risultato, è indispensabile coniugare gli apporti fisici e mentali armonizzandoli sapientemente. La contrazione e il rilassamento muscolare associati all’alternarsi degli atti respiratori, inspirazione ed espirazione, rappresentano solo una parte del complesso interattivo mente-corpo che condiziona l’efficacia di una tecnica. La capacità di reagire agli stimoli esterni, controllando allo stesso tempo le proprie emozioni, sembra essere una qualità necessaria non solo nella pratica del karaté, ma in molte occasioni della vita quotidiana e professionale. A questo, forse, si deve il successo di pubblico che, nel corso dell’ultimo secolo, le arti marziali giapponesi hanno ottenuto in tutto il mondo, so-prattutto in quello occidentale. Molti professionisti, volti famosi dello spettacolo, firme autorevoli del giornalismo hanno intrapreso la via dell’arte marziale non tanto per ottenere risultati agonistici, quanto per acquisire metodiche capaci di migliorare ad ampio raggio le proprie capacità psicofisiche.

Michela Turci

Bruno Contrada quindi, ma anche Lorenzo Narracci, per non parlare di Pietro Di Miceli, uomo dell’importantissimo e “storico” Consolato USA di Palermo. Grovigli e ancora grovigli e ancora grovigli.

Nomi e tempi che vanno ricordati soprattutto alla luce di una contestualizzazione (non sto giustificando niente e nessuno) che deve non far dimenticare mai come, senza una vera formazione scientifica, molti super poliziotti facessero a modo loro, e in questo spirito autodidattico ed onnipotente, la lucidità della criminalità che li teneva sotto osservazione, apriva continuamente varchi e porte girevoli, facendo degli investigatori incauti o inadeguati o eccessivamente ambiziosi, degli spregiudicati double cross o agenti doppi che dir si voglia.

A volte era l’ansia di portare a casa risultati per ambizione personale e una certa forma di protagonismo che non è mai buona consigliera quando si opera a contrasto dei mondi spietati dei mafiosi e dei colletti bianchi (anche in guanti metaforicamente candidi) che li dirigono o li servono.

A volte, invece, erano uomini e donne scientemente collusi con le mafie e di quei politici, per anni, una sola cosa con la criminalità.

Oreste Grani grato all’amico segnalatore

 

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la Redazione