Matty da legare – Dario Borso

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La domanda che in queste ore come tanti mi pongo è: quanto vale il richiamo a Einaudi per decidere il da farsi? La pongo a me non potendola porre a Mattarella. Il guaio è che non sono giunto ancora a darmi una riposta, e quello ulteriore è che il tempo manca. Per non deprimermi, mi appiglio alla speranza di avere almeno sgombrato il terreno e a quella ulteriore che qualcun* mi aiuti a trovarla.

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MATTY DA LEGARE

Una volta alle medie s’insegnava/imparava educazione civica.

Da studente medio (in duplice senso) poi cittadino medio (in senso univoco) ho sempre pensato che i ministri li scegliesse il presidente del consiglio incaricato d’accordo con la futura maggioranza, e che il presidente della repubblica avallasse salvo grane penali o giù di lì. Invece pare di no – pare nel senso che non ho i mezzi tecnici per dirimere la questione, non essendo un giurista, ed è già tanto se da cittadino medio riuscirò a capire cosa i giuristi elucubrano/elucubreranno in merito.

Ma sono uno storico delle idee, e come tale ho i titoli per fare alcune considerazioni storiografiche che ovviamente potranno poi essere tanto accolte quanto stroncate. Per usare lo slogan tanto vero quanto generico lanciato da Luigi Einaudi nel 1956 e ripreso recentemente da Sergio Mattarella, “la libertà vive solo perché vuole la discussione tra la verità e l’errore”. Vale per me come per tutti, autore e ripetitore compresi.

Come noto il 12 maggio scorso, mentre Lega e m5s elaboravano un contratto di governo, il presidente della repubblica commemorò il quarantennale dell’insediamento del suo predecessore con un discorso: Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia in occasione dell’anniversario del giuramento e dell’entrata in carica del Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi che, salvi i salamelecchi del caso, iniziava così:

Vorrei mettere in luce qui il senso della sua lezione, dettata dallo “scrittoio” del Presidente, come è il titolo di un suo famoso libro.

Trattasi de Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), raccolta di riflessioni in tempo reale sul suo settennato. Mattarella prosegue:

Il nuovo ordinamento costituzionale suggeriva, anzitutto, una riflessione sul carattere delle prerogative che accompagnavano la funzione presidenziale. Si può prendere, a buon titolo, lo scritto con cui, nel 1956, Einaudi, all’indomani della conclusione del suo mandato, si intratteneva, dalle pagine della Nuova Antologia, sul Senato vitalizio di epoca regia.

A rigor di logica, la scelta sarebbe dovuta cadere su un testo della raccolta più o meno coevo all’insediamento. E invece, “a buon titolo”, cioè a buon diritto, legittimamente… Un po’ sa di mettere le mani avanti, assai diverso dall’umile trial & error einaudiano. Comunque il titolo esatto è Ricordi e divagazioni sul Senato vitalizio, e lo si trova agevolmente in G. Spadolini, Senato vecchio e nuovo: dal Risorgimento alla Repubblica, Firenze 1993.

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Già il titolo dice parecchio: Einaudi era stato nominato senatore nel 1919 da Nitti, e il senato vitalizio è quello stabilito dallo statuto albertino, via via ritoccato fino al fascio. In purezza: il re esercitava il potere esecutivo attraverso i ministri che potevano essere sostituiti se veniva meno il rapporto fiduciario, aveva il potere di sanzione delle leggi ecc. La sovranità non apparteneva alla nazione ma al re che da sovrano assoluto si trasformava in principe costituzionale per sua esplicita concessione. Così si affermò pian piano un sostanziale riconoscimento da parte del re che il “suo” governo doveva godere della fiducia parlamentare e si passò quindi a un sistema di governo parlamentare a due camere: il senato di nomina regia vitalizia, che non poteva sciogliersi, e la camera dei deputati, eletta su base censitaria e maschile. Le due camere e il re rappresentavano perciò i “tre poteri legislativi”: bastava che uno di essi fosse contrario… mettiamo il re: scioglie la camera dei deputati, ed Einaudi,

Riferendosi alla prerogativa del sovrano […], osservava che essa: “Può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere una situazione che gli eletti del popolo da sé non sono capaci di affrontare, o per ristabilire l’osservanza della legge fondamentale, violata nella sostanza anche se ossequiata nell’apparenza”.

Qui Einaudi aveva appena smesso i caldi panni politici del presidente e si godeva la pace fredda dello studio disinteressato. Sì, sciogliendo d’imperio le camere con un appello al popolo, il re può farsi addirittura masaniello: monarchia populista per salvare la legge fondamentale, peraltro concessa da lui stesso. Ci sarebbe molto da discutere ovviamente, pure Orwell potrebbe dire la sua, in teoria. In pratica invece lo fa Mattarella, con un semplice inciso, l’omissis di cui sopra, che suona

(e, vien da pensare, interrogandosi implicitamente sul ruolo del Presidente della Repubblica)

Cioè, Einaudi scrive del re ma pensa a sé qua presidente… In una riga il Nostro dunque agisce (anzi è agito da) un doppio transfert per cui Einaudi s’identifica col sovrano e lui con Einaudi. Un cortocircuito totalmente patologico, che sfocia in codesta chiusa:

Questa riflessione di Einaudi indicava come avesse ben chiaro, all’inizio del suo mandato di Presidente della Repubblica, di interpretare un’esperienza senza precedenti: essere il moderatore dell’avvio della vita dell’Italia repubblicana. Nella sua opera di costruzione dell’equilibrio tra i diversi organi costituzionali, lo statista di Carrù sapeva che i suoi atti avrebbero fissato i confini all’esercizio del mandato presidenziale, per sé e per i suoi successori.

Il cortocircuito diventa qui addirittura inversione temporale: quello che Einaudi dice in sede storica dopo il settennato si tramuta in programma politico prima del settennato, e tutto ciò insieme diviene per Mattarella il paradigma da imitare!

Fin qui ho citato consecutivamente i passi, ora salto un paio d’inezie d’occasione e vado al sodo, all’uno-due di un Mattarella ringalluzzito dall’exemplum di una “presidenza tutt’altro che ‘notarile’”.

[Faccio anch’io un inciso: che Einaudi non fosse notarile, è cosa talmente nota, a partire almeno da A. Baldassarre-C. Mezzanotte, Gli uomini del Quirinale. Da De Nicola a Pertini, Roma-Bari 1985, da venir rimarcata addirittura nel Dizionario biografico degli italiani: “Einaudi interpretò il ruolo di presidente della Repubblica in maniera tutt’altro che notarile, non mancando di esercitare una funzione di stimolo e di correzione, nell’ambito previsto dalla Costituzione, nei confronti dell’esecutivo e del legislativo. Risolse con l’intervenire in forma non ufficiale, con ogni sorta di quesiti, richieste di ulteriori informazioni, e soprattutto inviti a ripensare certi provvedimenti. Pubblicò questo materiale, per lo più lasciato cadere nel silenzio dai destinatari, nel suo Scrittoio del Presidente”.]

Il primo diretto a testimoniare l’attivismo costituzionale del presidente è

il caso illuminante del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri, dopo le elezioni del 1953. Nomina per la quale non ritenne di avvalersi delle indicazioni espresse dal principale gruppo parlamentare, quello della D.C. Fu un passaggio di un esecutivo di pochi mesi, guidato dall’ex ministro del Tesoro, Giuseppe Pella, e che portò al chiarimento politico con la formazione di una maggioranza tripartita che governò, con Mario Scelba, sino alla scadenza del settennato dello stesso Einaudi.

Qui Mattarella salta il governo Fanfani, tra Pella e Scelba, e non contestualizza. Il 16 luglio Einaudi su indicazione della D.C. aveva incaricato De Gasperi di formare un governo monocolore, ma il 28 luglio costui non ottenne la fiducia dai suoi per conflitti intestini indotti dalla bocciatura della cosiddetta legge truffa alle elezioni del 13 giugno. Così Einaudi incaricò Pella che al senato il 22 agosto presentò il suo governo (monocolore) come “fatalmente limitato nel tempo”, in attesa di “un accordo su una determinata formula” di maggioranza.

[Altro inciso: Mattarella lo sa per primo, poiché suo padre Bernardo quel 16 luglio divenne ministro della marina mercantile, un mese dopo con Pella ministro dei trasporti e cinque mesi dopo idem col governo Fanfani (monocolore lungo 23 gg.). A proposito, utile alla verità sarebbe desecretare le carte personali di Bernardo tuttora custodite dalla famiglia, come segnalato nel Dizionario biografico degli italiani, anche per fugare le ombre gettate su Sergio dal recentissimo Ombre nere di G. Lo Bianco-S. Rizza.]

Il secondo diretto è:

Tale l’importanza che attribuiva al tema della scelta dei ministri, dal volerne fare oggetto di una nota verbale, da lui letta il 12 gennaio 1954, in occasione dell’incontro con i presidenti dei gruppi parlamentari della D.C., rispettivamente Aldo Moro e Stanislao Ceschi, dopo le dimissioni del governo Pella. È, scrisse in quella nota: “Dovere del Presidente della Repubblica evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”.

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Finalmente compare Lo scrittoio, dacché è in un suo capitolo che Einaudi introduce la nota in questione specificando di avere convocato i due onde darne lettura. Eccola:

I comitati direttivi dei gruppi parlamentari della D.C. del Senato e della Camera hanno presentato nella giornata del 5 corrente gennaio all’on. Pella, presidente del consiglio, un ordine del giorno secondo cui “i ritocchi alla compagine governativa, per quanto riguarda l’eventuale sostituzione del titolare del dicastero dell’agricoltura, debbono essere tali, conformemente ai voti già espressi dai direttivi dei gruppi e comunicati al presidente del consiglio, da assicurare la continuità della politica agraria della D.C.”. Alla richiesta dell’on. Pella che gli fosse precisato se siffatto ordine del giorno “suonasse veto alla assunzione del ministero dell’agricoltura da parte dell’on. Aldisio” gli on.li Ceschi e Moro “hanno confermato tale interpretazione”. In relazione all’ordine del giorno ora ricordato, l’on. Pella, convocato il consiglio dei ministri, presentò al presidente della Repubblica le dimissioni sue e del gabinetto. Quali siano le ragioni che, in seguito alla comunicazione dell’ordine del giorno, persuasero l’on. Pella alle dimissioni, appartiene, se lo vorrà, al presidente del consiglio opportunamente chiarire. Qui si vuole analizzare soltanto siffatto ordine del giorno in relazione al compito proprio del presidente della Repubblica; e l’analisi deve essere condotta facendo compiutamente astrazione dai connotati pertinenti alla particolare politica agraria ed alla persona di cui nell’ordine del giorno e nel relativo chiarimento. L’art. 92 della costituzione dice: “il presidente della Repubblica nomina il presidente del consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. È ovvio che il presidente della Repubblica debba, nello scegliere la persona incaricata di costituire il gabinetto, aver riguardo alla possibilità che il designato sia atto a procacciare a sé ed al suo gabinetto il consenso delle due camere del parlamento. A ciò sono, fra l’altro, intese le consultazioni che il presidente della Repubblica intrattiene con i più autorevoli parlamentari. Ed è consuetudine assai lodata che sulle consultazioni medesime sia serbato doveroso riserbo. È ovvio altresì che la persona ufficiata o incaricata della formazione del consiglio dei ministri senta tutti quei parlamentari che a lui parrà più opportuno; ne ascolti i consigli, i consensi, i rifiuti, apprezzi le considerazioni che in merito gli sono esposte e ne tenga il conto migliore nell’adempimento dell’incarico ricevuto. Nessun limite può essere posto ai pareri, ai consensi, alle esclusive, ai rifiuti che, nelle more della formazione del gabinetto, potranno venir fuori. Tutto sarà oggetto di meditazione da parte della persona incaricata; e ogni voce, passando attraverso lui, confluirà a determinare le proposte che egli presenterà al presidente della Repubblica;le quali proposte, passate attraverso quel crogiuolo, saranno, come vuole la costituzione, diventate le sue proposte. Nella giornata del 5 gennaio, peraltro, si è verificato un fatto nuovo, certamente non mai osservato da quando esiste lo stato repubblicano, e forse non mai accaduto dopo la proclamazione dello statuto albertino. In un documento che non fu ufficialmente portato alla conoscenza del presidente della Repubblica, ma che il presidente medesimo non può ignorare perché reso di pubblica ragione nell’interezza sua di ordine del giorno e relativo chiarimento, fu affermato: 1) che la persona incaricata di presentare proposte al presidente della Repubblica (e in quell’occasione un primo ministro in carica) aveva dovuto prendere atto di una esclusiva; 2) che per conseguenza, la proposta che il primo ministro stesso avrebbe poi presentato al presidente della Repubblica non era più la “sua” proposta, ma una proposta condizionata da una esclusiva pronunciata da chi la costituzione non delega a siffatto ufficio. Le dimissioni del gabinetto Pella hanno esonerato il presidente della Repubblica dal compito di analizzare il significato dei principi che – in tema di rapporti tra i supremi organi costituzionali – altrimenti sarebbero stati posti; non lo esonerano, però, dal tener conto del fatto accaduto riguardo alla risoluzione della crisi. È dovere del presidente della Repubblica di evitare si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la costituzione gli attribuisce. Egli quindi non può fingere di ignorare che le dimissioni del gabinetto hanno tratto occasione da una mutazione che, certo involontariamente, pur si sarebbe apportata nella origine delle proposte dei nomi dei ministri presentate a lui dal primo ministro.
Il quesito non si risolve col rinvio del presidente del consiglio al parlamento per un voto esplicito sulla politica governativa. Il quesito invero non si riferisce nel caso specifico alla politica governativa, la quale del resto è dalla costituzione affidata (art. 95) al governo; e questo, di fatto, in fase di rimpasto non poteva avere e non aveva una politica propria unanime sulla quale il parlamento potesse dar giudizio. Si risolve il quesito affidando al primo ministro dimissionario l’incarico della formazione del gabinetto cosicché, riesca egli o non nell’intento, sia chiaro che, con l’affidare l’incarico a chi si era opposto a costituire il precedente, nessun precedente è stato creato? Sarebbe possibile infatti affidare ad altra persona l’incarico, senza dare l’impressione che del precedente si sia tacitamente preso atto, invitando persona la quale oggi potrebbe ricevere l’incarico di formare il governo solo perché l’ordine del giorno del 5 gennaio e la relativa interpretazione determinarono le dimissioni dell’on. Pella e del suo gabinetto? La esigenza di non deporre il presidente rese, nella mente del presidente, necessaria la offerta del reincarico all’on. Pella. Convocato dal segretario generale Carbone, l’on. Giuseppe Pella è stato alle ore 9,30 ricevuto al palazzo del Quirinale dal presidente della Repubblica, che gli ha conferito l’incarico di formare il nuovo governo. L’on. Pella, nel render grazie per la rinnovata prova di fiducia, ha espresso il proprio convincimento che i superiori interessi del paese e la connessa esigenza di assicurare e rafforzare l’unità del suo partito, rendono preferibile l’affidamento dell’incarico ad altra persona. Il presidente della Repubblica, nell’apprezzarne i motivi, ha preso atto della rinuncia e ha ringraziato l’on. Pella per l’opera da lui svolta al servizio del paese.

Tutto contento, Fanfani un’ora dopo avrebbe accettato l’incarico (con riserva ovviamente) e formato il governo (monocolore).

Dario Borso