Il dibattito intorno al pensionamento di alcuni servitori (o servi?) della Repubblica

Servitore: chi per deferenza, per devozione o per interesse è pronto a adoperarsi in ogni modo per una persona o per una causa ideale (Dizionario Treccani) – Servo: Chi dedica tutto sé stesso a servire spiritualmente e materialmente altri, o chi è pronto a conformarsi interamente, per deferenza, per devozione o per interesse, alla volontà altrui
«Noi siamo l’unica struttura dello Stato… nella quale i meriti non contano in assoluto e l’esperienza viene relegata ai margini. Siamo succubi del mondo della politica che condiziona ingressi, promozioni e trasferimenti [questo è la motivazione principale di detenere la delega ai servizi ndr.]. A ogni rotazione dei dirigenti superiori, che vanno di pari passo ai cicli della politica, assistiamo a un’imbarcata di nuovi ingressi [grassetto ns]. Non hanno esperienza dell’attività di intelligence. Ma comandano, perché sono protetti e condizionano le attività dei centri operativi presenti su tutto il territorio. Non è necessario che abbiano ricevuto incarichi particolarmente prestigiosi. Basta che abbiamo messo il piede dentro e in giro si sappia che sono protetti. La certezza di un contatto “romano”, in un mondo fragile e volatile come il nostro, determina un oggettivo rallentamento delle attività. I dirigenti locali, in fondo, temono questa pletora di raccomandati.» Così si esprime Emilio Ruisi, citato da Piero Messina ne “Il cuore nero dei servizi” BUR 2012.
Qualche settimana addietro, il settimanale l’Espresso, intinta la penna d’oca nel calamaio velenoso, aveva pubblicato un pezzo legato al solito ambiente dei Servizi segreti immersi nella solita atmosfera da scolaretti litigiosi. Nel pezzo a cui faccio riferimento, il settimanale diretto da Marco Da Milano, si era fatto carico esclusivamente di pettegolezzi in materia:
Operazione aspirapolvere: superare l’attuale caducità dei nostri servizi segreti
Devo dire che tranne alcune realtà scontatissime, non ci aveva entusiasmato per capacità di prevedere alcunché di strategico. Tantomeno per una qualche capacità di armare il lettore di necessarie chiavi interpretativa. Quell’articolo mi apparve uno dei centocinquantamila che nei decenni mi è stato dato di leggere. Eccessive semplificazioni. Quello del numero che sta per uscire (o è uscito questa mattina), è ancor di più un pezzo scritto per motivi che sono noti solo agli autori e che schiera oggettivamente la gloriosa testata dalla parte di chi, in materia tanto delicata e necessitante di un vero cambiamento paradigmatico culturale, conserva. L’intelligence è materia che andrebbe trattata con interventi che sancissero la discontinuità con l’orrore dei decenni trascorsi. Invece sembra sempre che si tiri la volata a quella cordata o a quell’altra lasciando fuori dalla porta gli interessi superiori della Nazione. Perché di quello in realtà si dovrebbe ragionare piuttosto di chi si sente padrone di settori tanto delicati della Repubblica. Dall’articolo si apprende che Alberto Manenti (tanto per fare un nome), come la quasi totalità dei suoi predecessori, senza avere formazione alcuna e comprovata capacità manageriali (il SISMI prima e l’AISE dopo non fanno testo in questo campo), ritiene di aver acquisito meriti per passare a fare il dirigente strategico di una galassia quale ancora è, o potrebbe tornare ad essere, Leonardo, ex Finmeccanica.
L’industria che fa capo a Leonardo (come la sanità in Lucania), se fosse guidata ancora una volta senza che criteri di meritocrazia fossero tenuti nella debita considerazione, conserverebbe solo quel ruolo di “premio” (perché quali meriti, sarebbe interessante sapere) che ha sempre avuto. Moretti, per fare un nome, che cosa ha fatto di positivo per la nostra Italia e la nostra gente durante la super stipendiata permanenza ai vertici di via Monte Grappa 4? Profumo / Tabacci, dopo di lui, che cambiamenti in positivo hanno determinato? Perché uno come Manenti (dico lui ma potrei citare altri) dovrebbe saper elaborare una strategia vincente, in un mercato dove, oltre alla qualità delle tecnologie, la cultura geopolitica conta in modo forse determinante? Manenti quando ha dimostrato di saper pre-vedere geopoliticamente? Mettersi “a vento” non è sufficiente per quello di cui ha bisogno l’Italia. A meno che qualcuno sappia qualcosa che questo marginale e ininfluente blog non sa.
Esercitare la critica non è semplice perché implica la conoscenza profonda della materia in esame, difficilissimo offrire soluzioni valide, irrealizzabili, del resto, senza il contributo del legislatore ovvero senza una politica forte, capace di gestire il cambiamento e in grado di resistere agli attacchi dell’apparato; “intere generazioni di politici italiani sono stati soggiogati dalla minaccia che qualcuno dei servizi potesse parlare” constata amaramente Messina.
Riformare una istituzione necessita, tra l’altro, che siano gli attori stessi a essere “riformati” e ciò richiede che siano ripensati “i criteri di reclutamento, formazione e selezione”, laddove gli elementi discriminanti per appartenere all’istituzione, quale essa sia, dovranno essere il profilo morale, la cultura / esperienza e il merito.
Scrive in proposito Maurizio Viroli: “Soltanto la persona moralmente libera, vale a dire la persona che ha il senso del dovere, può servire bene la Repubblica. Chi non ha il senso del dovere è una persona banale o una persona d’animo servile“.
Viroli muove dal presupposto che siano le passioni l’elemento discriminante tra spirito libero e spirito servile: a) il sentimento dell’onore; b) lo sdegno; c) la caritas; d) l’ambizione. È un ragionamento chiaro e netto, non difficile da codificare in “test” di selezione. L’articolazione delle prove a supporto della tesi sopra esposta: libertà morale / senso del dovere / passioni è contenuta in un suo saggio in via di pubblicazione, settembre 2018, “Etica del servizio etica del comando”, (Editoriale scientifica). Di seguito l’articolo nel quale si ragiona di passioni e di servitori della Repubblica.
SOLO CHI SA SERVIRE PUÒ DIVENTARE UN GRANDE LEADER
Maurizio Viroli
Soltanto la persona moralmente libera, vale a dire la persona che ha senso del dovere, può servire bene la Repubblica. Chi non ha senso del dovere è una persona banale o una persona d’animo servile. Le persone banali possono obbedire con zelo e svolgere le loro mansioni con molta efficienza. Poiché non hanno convinzioni profonde sono però disponibili a servire qualsiasi regime: il terzo reich o la libera repubblica fa poca differenza. Le persone d’animo servile sanno servire bene un uomo o alcuni uomini, non un ideale, e tanto meno la Repubblica. Tanto le persone banali quanto le persone d’animo servile hanno l’animo meschino, spesso miserabile. Possono essere astuti, mai saggi. Sanno pensare soltanto in piccolo; non hanno la finezza intellettuale che nasce dall’impegno a capire qualche cosa che è più importante della vita privata e familiare. Possono essere dunque burocrati di uno stato autoritario o ottimi cortigiani, mai veri servitori della Repubblica.
Per un’altra ragione ancora soltanto le persone moralmente libere sono in grado di servire la Repubblica. Esse sole hanno la forza interiore necessaria per assolvere compiti che comportano fatiche, delusioni e pericoli. Chi invece serve la Repubblica per interesse, cerca di evitare fatiche e pericoli e quindi verrà meno ai suoi doveri. Nei casi peggiori, ma tutt’altro che rari, chi serve per interesse si lascia corrompere dalla promessa di un premio. Se una Repubblica può contare esclusivamente su magistrati, forze di polizia, forze armate e pubblici funzionari che agiscono per interesse, ha fondamenta assai fragili. È destinata presto o tardi a trasformarsi in una tirannide, o in un’oligarchia, o in una democrazia corrotta.
Se l’interesse personale non serve allo scopo, quali sono le giuste motivazioni a servire bene la Repubblica? Una risposta potrebbe essere “il puro senso del dovere che la coscienza addita”. È una risposta ineccepibile ma esposta ad un’obiezione seria. Come sappiamo per esperienza, e come insegna la storia, la maggior parte degli esseri umani non rispetta i principi che pur ritiene giusti. La voce della coscienza che insegna la giustizia nei più è sovrastata dalla voce delle passioni, prime fra tutte la paura o il desiderio sfrenato di superiorità e privilegi. Sono dunque necessarie altre passioni, ma quali?
La prima passione che indico è il sentimento dell’onore. La nostra Costituzione, all’art. 54, addita esplicitamente l’onore, accanto alla disciplina, quali principi fondamentali che devono ispirare l’agire di tutti i cittadini ai quali sono affidate funzioni pubbliche. Nel significato proprio, il termine onore indica una dignità e a un valore. “Ti onoro” vuol dire riconosco il tuo valore: ammiro il tuo valore per quello che hai fatto e fai. Il vero sentimento dell’onore non consiste tanto nel valore che abbiamo per gli altri, ma nel valore che abbiamo ai nostri occhi se assolviamo i nostri doveri. Quanto è grande il valore che una persona ha ai propri occhi quando vive secondo il senso del dovere e agisce rispettando il dettame della propria coscienza? È un valore infinito. Nessuno può corromperla perché non c’è prezzo che valga il sacrificio di non esser più se stessi.
Accanto al sentimento dell’onore colloco, fra le passioni che aiutano a essere dei veri servitori della Repubblica, lo sdegno, il senso di repulsione che proviamo di fronte all’ingiustizia. È la passione degli animi grandi. La persona meschina è incapace di sdegno: resta indifferente di fronte alle ingiustizie, ai soprusi, alle umiliazioni inflitte ad altri. Diverso dalla compassione che proviamo nei confronti della sofferenza immeritata di altri, lo sdegno si rivolge non alle vittime ma contro gli aguzzini. Diverso dall’invidia, cioè la sofferenza per un bene che altri hanno e noi non abbiamo, lo sdegno disprezza la forza o l’astuzia degli oppressori. In senso stretto, lo sdegno è l’ira dei buoni, l’ira per giusti motivi, l’ira nei confronti delle persone contro le quali è giusto provare ira.
Guidato sempre dalla ragione, lo sdegno vive anche nelle persone più miti. Impone di operare anche quando le speranze di vincere sono esigue o nulle, quando bisogna agire nell’indifferenza dei più e quando i pericoli sono gravi. Spinge a difendere la libertà nei tempi bui, mentre i più piegano la schiena e si rassegnano all’oppressione. Norberto Bobbio l’ha definito “l’arma senza la quale non vi è lotta che duri ostinata, senza la quale, vittoriosi, ci si infiacchisce, e, vinti, si cede”. È la virtù dei precursori, degli anticipatori, di quelli che dimostrano che si può lottare e incoraggiano gli altri a seguire il loro esempio anche quando la prudenza consiglia di stare fermi, di tacere, di adeguarsi.
Un’altra passione che deve vivere nell’animo di chi serve la Repubblica è la carità, il valore fondamentale della religione cristiana che ha tuttavia radici nella cultura classica. Per carità intendo la sofferenza che proviamo nei confronti di chi subisce ingiustizia. Nei secoli, e nei più diversi contesti storici, la carità, ha sempre motivato, il servizio e l’impegno. È stata ed è il fondamento dell’amore della patria nel suo significato più nobile. L’amor di patria, ricordiamolo in questi tempi in cui esseri a mio giudizio ripugnanti vaneggiano di amor di patria fascista, è la passione che dà al cittadino la forza di elevare il bene comune al di sopra del bene privato. Servire la Repubblica altro non è che servire il bene comune.
Soltanto chi sa servire può, in una Repubblica degna del nome, comandare. Oltre a volere e sapere servire, chiunque ha l’onere e l’onore del comando deve combattere la vanità che porta a cercare la fama. Chi non sa vincere la vanità non è capace né di vera dedizione alla causa, né di distacco critico. Il comandante vanitoso diventa una sorta d’istrione che prende alla leggera la propria responsabilità. Più che delle conseguenze delle sue decisioni, si preoccupa dell’impressione che riesce a suscitare. Scambia l’apparenza del potere per il potere reale e gode del potere semplicemente per amore della potenza, “senza uno scopo concreto”, come scrive Max Weber. Esercita una forte influenza ma opera di fatto nel vuoto e nell’assurdo; non sa ottenere obbedienza fondata su vera e sincera lealtà; non costruisce una cultura. Non è il leader di cui ha bisogno una repubblica. C’è posto per l’ambizione, fra le qualità di un leader? Deve esserci. L’ambizione è una passione forte che nasce dal desiderio di emergere, di distinguerci, di essere ammirati. È una passione naturale e lecita, se bene intesa, ovvero se intesa come desiderio di primeggiare per dedizione, per saggezza, per finezza di consiglio, per esempio di vita, non come brama di essere primi con qualsiasi mezzo per avere potere, ricchezza, celebrità. Nel suo significato più nobile, l’ambizione è passione degli animi grandi; nel suo significato corrotto è la passione dei miserabili che pretendono di servire la repubblica e vogliono comandare soltanto per vanità meschina. Se avessimo dei leader politici e dei comandanti consapevoli della dignità del servire il bene comune, e motivati da giusta ambizione, la nostra Repubblica vivrebbe giorni molto migliori.
in “il Fatto Quotidiano” del 4 luglio 2018
Alberto Massari
N. B. Chi ama la Repubblica non può sforzarsi perché la Repubblica lo ami a sua volta. La Repubblica è impersonale e di conseguenza non prova alcuna passione.
Parole Sante!
Siamo Miti (io mitile) che osservano Meschini al Potere…
Meschino, vocabolo perfetto, eccellente, in sè racchiude i significati dei Tempi che stiamo subendo.
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