Chi ha ucciso – oltre che Paolo Borsellino – Emanuela Loi?
Mi uniscono più cose a Mario Michele Giarrusso. Alcune le ho già manifestate, in tempi non sospetti, su questo blog e sono ragionamenti facili da andare a rileggere. Altri pensieri sono legati a come il senatore siciliano del M5S, per anni membro della Commissione antimafia della passata legislatura, si è posto in queste ore ricordando, con fierezza e fermezza, la figura di Paolo Borsellino e dei giovani della sua scorta mandati, scientemente, al massacro. Mi sono commosso mentre lo ascoltavo e non voglio vergognarmi delle mie lacrime. Anzi, sentendo evocare pensieri forti e morali da parte di Giarrusso mi sono ricordato che come me è estimatore del filosofo e pensatore complesso Maurizio Viroli. In questo l’ho sentito ancora più vicino. Torno sulle parole proprio di Viroli che ho altre volte pubblicato perché mi sembrano degne di questi momenti che non devono rimanere di pura commozione (che ho sentito comunque catartica e liberatoria) ma di determinazione a far emergere tutta tutta tutta tutta la verità.
“SOLO CHI SA SERVIRE PUÒ DIVENTARE UN GRANDE LEADER
Soltanto la persona moralmente libera, vale a dire la persona che ha senso del dovere, può servire bene la Repubblica. Chi non ha senso del dovere è una persona banale o una persona d’animo servile. Le persone banali possono obbedire con zelo e svolgere le loro mansioni con molta efficienza. Poiché non hanno convinzioni profonde sono però disponibili a servire qualsiasi regime: il terzo reich o la libera repubblica fa poca differenza. Le persone d’animo servile sanno servire bene un uomo o alcuni uomini, non un ideale, e tanto meno la Repubblica. Tanto le persone banali quanto le persone d’animo servile hanno l’animo meschino, spesso miserabile. Possono essere astuti, mai saggi. Sanno pensare soltanto in piccolo; non hanno la finezza intellettuale che nasce dall’impegno a capire qualche cosa che è più importante della vita privata e familiare. Possono essere dunque burocrati di uno stato autoritario o ottimi cortigiani, mai veri servitori della Repubblica.
Per un’altra ragione ancora soltanto le persone moralmente libere sono in grado di servire la Repubblica. Esse sole hanno la forza interiore necessaria per assolvere compiti che comportano fatiche, delusioni e pericoli. Chi invece serve la Repubblica per interesse, cerca di evitare fatiche e pericoli e quindi verrà meno ai suoi doveri. Nei casi peggiori, ma tutt’altro che rari, chi serve per interesse si lascia corrompere dalla promessa di un premio. Se una Repubblica può contare esclusivamente su magistrati, forze di polizia, forze armate e pubblici funzionari che agiscono per interesse, ha fondamenta assai fragili. È destinata presto o tardi a trasformarsi in una tirannide, o in un’oligarchia, o in una democrazia corrotta.
Se l’interesse personale non serve allo scopo, quali sono le giuste motivazioni a servire bene la Repubblica? Una risposta potrebbe essere “il puro senso del dovere che la coscienza addita”. È una risposta ineccepibile ma esposta ad un’obiezione seria. Come sappiamo per esperienza, e come insegna la storia, la maggior parte degli esseri umani non rispetta i principi che pur ritiene giusti. La voce della coscienza che insegna la giustizia nei più è sovrastata dalla voce delle passioni, prime fra tutte la paura o il desiderio sfrenato di superiorità e privilegi. Sono dunque necessarie altre passioni, ma quali?
La prima passione che indico è il sentimento dell’onore. La nostra Costituzione, all’art. 54, addita esplicitamente l’onore, accanto alla disciplina, quali principi fondamentali che devono ispirare l’agire di tutti i cittadini ai quali sono affidate funzioni pubbliche. Nel significato proprio, il termine onore indica una dignità e a un valore. “Ti onoro” vuol dire riconosco il tuo valore: ammiro il tuo valore per quello che hai fatto e fai. Il vero sentimento dell’onore non consiste tanto nel valore che abbiamo per gli altri, ma nel valore che abbiamo ai nostri occhi se assolviamo i nostri doveri. Quanto è grande il valore che una persona ha ai propri occhi quando vive secondo il senso del dovere e agisce rispettando il dettame della propria coscienza? È un valore infinito. Nessuno può corromperla perché non c’è prezzo che valga il sacrificio di non esser più se stessi.
Accanto al sentimento dell’onore colloco, fra le passioni che aiutano a essere dei veri servitori della Repubblica, lo sdegno, il senso di repulsione che proviamo di fronte all’ingiustizia. È la passione degli animi grandi. La persona meschina è incapace di sdegno: resta indifferente di fronte alle ingiustizie, ai soprusi, alle umiliazioni inflitte ad altri. Diverso dalla compassione che proviamo nei confronti della sofferenza immeritata di altri, lo sdegno si rivolge non alle vittime ma contro gli aguzzini. Diverso dall’invidia, cioè la sofferenza per un bene che altri hanno e noi non abbiamo, lo sdegno disprezza la forza o l’astuzia degli oppressori. In senso stretto, lo sdegno è l’ira dei buoni, l’ira per giusti motivi, l’ira nei confronti delle persone contro le quali è giusto provare ira.
Guidato sempre dalla ragione, lo sdegno vive anche nelle persone più miti. Impone di operare anche quando le speranze di vincere sono esigue o nulle, quando bisogna agire nell’indifferenza dei più e quando i pericoli sono gravi. Spinge a difendere la libertà nei tempi bui, mentre i più piegano la schiena e si rassegnano all’oppressione. Norberto Bobbio l’ha definito “l’arma senza la quale non vi è lotta che duri ostinata, senza la quale, vittoriosi, ci si infiacchisce, e, vinti, si cede”. È la virtù dei precursori, degli anticipatori, di quelli che dimostrano che si può lottare e incoraggiano gli altri a seguire il loro esempio anche quando la prudenza consiglia di stare fermi, di tacere, di adeguarsi.
Un’altra passione che deve vivere nell’animo di chi serve la Repubblica è la carità, il valore fondamentale della religione cristiana che ha tuttavia radici nella cultura classica. Per carità intendo la sofferenza che proviamo nei confronti di chi subisce ingiustizia. Nei secoli, e nei più diversi contesti storici, la carità, ha sempre motivato, il servizio e l’impegno. È stata ed è il fondamento dell’amore della patria nel suo significato più nobile. L’amor di patria, ricordiamolo in questi tempi in cui esseri a mio giudizio ripugnanti vaneggiano di amor di patria fascista, è la passione che dà al cittadino la forza di elevare il bene comune al di sopra del bene privato. Servire la Repubblica altro non è che servire il bene comune.
Soltanto chi sa servire può, in una Repubblica degna del nome, comandare. Oltre a volere e sapere servire, chiunque ha l’onere e l’onore del comando deve combattere la vanità che porta a cercare la fama. Chi non sa vincere la vanità non è capace né di vera dedizione alla causa, né di distacco critico. Il comandante vanitoso diventa una sorta d’istrione che prende alla leggera la propria responsabilità. Più che delle conseguenze delle sue decisioni, si preoccupa dell’impressione che riesce a suscitare. Scambia l’apparenza del potere per il potere reale e gode del potere semplicemente per amore della potenza, “senza uno scopo concreto”, come scrive Max Weber. Esercita una forte influenza ma opera di fatto nel vuoto e nell’assurdo; non sa ottenere obbedienza fondata su vera e sincera lealtà; non costruisce una cultura. Non è il leader di cui ha bisogno una repubblica. C’è posto per l’ambizione, fra le qualità di un leader? Deve esserci. L’ambizione è una passione forte che nasce dal desiderio di emergere, di distinguerci, di essere ammirati. È una passione naturale e lecita, se bene intesa, ovvero se intesa come desiderio di primeggiare per dedizione, per saggezza, per finezza di consiglio, per esempio di vita, non come brama di essere primi con qualsiasi mezzo per avere potere, ricchezza, celebrità. Nel suo significato più nobile, l’ambizione è passione degli animi grandi; nel suo significato corrotto è la passione dei miserabili che pretendono di servire la repubblica e vogliono comandare soltanto per vanità meschina. Se avessimo dei leader politici e dei comandanti consapevoli della dignità del servire il bene comune, e motivati da giusta ambizione, la nostra Repubblica vivrebbe giorni molto migliori.
Maurizio Viroli in “il Fatto Quotidiano” del 4 luglio 2018“
Tornando alle stragi vogliamo sapere chi ha ordito tanto orrore. Vogliamo sapere chi ha dato gli ordini, chi ha mandato al macello tutti quei meravigliosi onesti compatrioti, ma, tra tutti, in particolare, come ebbi a dire il 17 novembre 2012, una come Emanuela Loi.
Ripubblico un brano tratto da quel post lontanissimo nel tempo ma non dimenticato nella mente e nel cuore. Bravo Giarrusso. Grazie Senatore. Se lo vorrà, sempre al suo servizio, per non dimenticare.
Oreste Grani/Leo Rugens
NON BASTANO LE INCHIESTE. I GIOVANI HANNO BISOGNO DI ESEMPI: EMANUELA LOI
In queste ore in cui non tutti i poliziotti (dirigenti o agenti semplici) rendono onore alla divisa e al giuramento alla Repubblica, io preferisco ricordare gli esempi positivi. Emanuela Loi (Sestu, 9 ottobre1967 – Palermo, 19 luglio 1992) è stata un’agente di Polizia Italiana. Agente della scorta del magistrato Paolo Borsellino, cadde nell’adempimento del proprio dovere, vittima della strage di via D’Amelio a Palermo.
Alla sua vita e alla sua onorevole fine, Nando Dalla Chiesa ha dedicato un libro che a sua volta ha ispirato un lavoro teatrale: “Poliziotta per amore”. È di questo monologo che oggi mi voglio e vi voglio ricordare. Il brano che segue è tratto dall’organo ufficiale nazionale del Co.I.S.P. “PS sicurezza e polizia” del marzo 2010.
“IL MESSAGGIO POTENTE DI POLIZIOTTA PER AMORE
«Avevo sempre sentito dire che il poliziotto lo fai perché non hai un mestiere. O perché hai la passione dello sbirro. Io quel giorno pensai invece che la poliziotta l’avrei fatta per amore: di chi è stato ucciso per la giustizia, di chi ha osato ribellarsi ai soprusi e alle violenze. Era assurdo dirlo. E Augusto certamente l’avrebbe trovato pazzesco. Ma io sarei diventata poliziotta per amore»
Una liceale di sinistra sceglie di entrare in polizia. All’origine della decisione l’incontro-rivelazione con due figure femminili: Emanuela Loi, agente di scorta del giudice Borsellino, la prima donna in divisa uccisa dalla mafia, conosciuta attraverso le cronache del luglio del ’92; e Saveria Antiochia, madre di un altro giovane agente di scorta ucciso dai clan, conosciuta a una assemblea a scuola Dai due incontri inizia la storia nuova e imprevedibile di una giovane donna che scopre la legge e lo Stato e decide di andare a combattere Cosa Nostra nella frontiera più avanzata. A Palermo, a Trapani e poi ancora a Palermo, passando per la crisi di coscienza aperta dai fatti del G8 genovese.
In una storia che è invenzione ma anche, in parte, autobiografia del movimento antimafia, Nando dalla Chiesa racconta senza retorica la vicenda individuale e collettiva di tanti esponenti delle forze dell’ordine in Sicilia. Narrazione di una lotta per la legalità che appare spesso titanica e che continua invece grazie a uomini e donne comuni che hanno fatto la scelta di indossare una divisa. Poliziotta per amore ha un messaggio potente, è l’unica cosa pubblicata sulle forze dell’ordine al femminile. II fatto che nonostante i durissimi (e giusti) passaggi sul G8 sia stato quasi adottato dalla Polizia di Stato, è un bel segno. Vuol dire che restituisce il senso di quel che una divisa dovrebbe essere per il comune cittadino. La divisa come passione, ma anche la divisa come dovere.
Libro e spettacolo teatrale insieme possono fare circolare bene memoria (Emanuela Loi, Saveria Antiochia…) e voglia di impegnarsi più a fondo. E dare un senso più alto a tutte le istituzioni, oggi svillaneggiate oltre ogni immaginabile soglia.
Perché “Poliziotta per amore” è anche un monologo teatrale con un’intensa interpretazione di Beatrice Luzzi diretta da Claudio Boccaccini.
L’assolo si rivela una riflessione sulla vita dei servitori dello Stato in divisa, sulla loro solitudine, sui loro travagli. La piéce racconta l’impeto per la legalità che travolge una giovane ragazza romana come tante spingendola a entrare nella polizia dopo le stragi del ’92.
È l’inizio di un profondo travaglio in cui gli ideali si confronteranno con i sacrifici, la vergogna di Genova e la solitudine ‘istituzionale’ di chi sta in prima linea contro i boss. Sul filo dell’emozione e della memoria il monologo si rivela una riflessione intensa sulla vita dei poliziotti, “di quelli che ci credono”, ma anche sulle scelte di una donna che ha deciso di dedicarsi allo Stato, di rappresentarlo indossando una divisa. Uno spettacolo di teatro civile e di narrazione, un atto di normale coraggio, una riflessione sulla vita dei tanti giovani servitori dello Stato, sulla loro forza e talvolta solitudine e sull’importanza rivoluzionaria del coraggio ordinario”.
La parola amore porta, nel gioco della memoria, ad un altro esempio di onestà al servizio degli altri, con disciplina ed onore, senza gesti violenti ed esibizionistici: la storia di Pino Fierro, un uomo normale che ha scioccato l’Italia con una testimonianza straordinaria di quale cuore può battere dentro un vero rappresentante delle Forze dell’ordine.
Dedicherò a lui una prossima puntata del mio blog.
Oreste Grani
L’ha ripubblicato su Leo Rugens.
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