La leadership italiana nel Mediterraneo
Affermo, senza tema di smentita alcuna, che il mio attuale amico e alleato di pensiero complesso, Alberto Massari (quello che viene sempre più citato in questo blog e nel web abbinandolo al mondo dell’Intelligence culturale), fu scelto da me in una occasione lontana perché fosse buon testimone di quanto si sarebbe detto in un incontro organizzato (in territorio vaticano) da Paolo Messa (la testata Formiche), affinché fossero religiosamente ascoltati degli americani legati ad ambienti che facevano riferimento alla signora Hillary Clinton, all’epoca Segretario di Stato. Questi signori ci venivano a spiegare la non non non centralità geopolitica del Mediterraneo e il non non non ruolo di leadership della nostra bella Italia rispetto al sud dell’Europa e al nord dell’Africa.
Scelsi Massari perché, nel tempo, fosse buon testimone e memore da che punto “basso” si partiva per risalire la china della sovranità italiana.
Sembrano secoli da quando a domande specifiche sul tema appena ricordato, Larry Sabato (era l’ospite di Messa legato ai Clinton) decise addirittura di non non non rispondere ad alcune domande appena poste proprio sul futuro del Mediterraneo.
Vediamo di conoscerci, senza l’ostacolo di troppe ipocrisie e cortine fumogene a cui vi ho fin troppo abituati. E questo dopo anni di rodaggio e di attività low profile nel web, avendo dovuto contrastare misure attive telematiche tendenti a escludermi da ogni credibile attività di commento e di proposta. A Massari mi lega, tra l’altro, il coraggioso e leale attraversamento del deserto: sei lunghi anni con poche borracce d’acqua!
Quando Massari tornò dall’incontro e mi riferì di quel clima “antidemocratico” messo in atto – paradossalmente – da ambienti formalmente “democratici”, pensai che fosse arrivato il tempo di sognare/sperare/lottare/operare perché tanta indifferenza spocchiosa (e pericolosa per il futuro della nostra Italia), trovasse pane per i suoi denti.
Ovviamente, nella nostra marginalità e ininfluenza, potevamo solo laicamente pregare. Immaginarci capaci d’altro, sarebbe stato farneticare. Quanto è accaduto in queste ore al premier Conte, testimonia che siamo ascoltati in Cielo (o da quelle parti), tanto che ieri, a Washington, è accaduto il miracolo: qualcuno ha finalmente capito che è all’Italia che deve essere affidato il ruolo di guida culturale (e in quanto tale politica) delle complessità mediterranee. Usato il termine “leader” vediamo di ripassare la materia. Lo spunto di riflessione che segue lo indirizziamo per tanto – rispettosamente – a Giuseppe Conte a cui la “ruota della fortuna” sta offrendo l’occasione storica.
Il Presidente degli Stati Uniti lesse il memorandum con un’espressione sempre più inorridita.
«Ma è spaventoso – disse, quando ebbe terminato. – Non ho alcuna possibilità di scelta. O piuttosto qualsiasi scelta faccia, degli uomini moriranno».
Adam Munro alzò gli occhi su di lui, senza la benché minima simpatia. […]
«É già accaduto altre volte, signor presidente – disse con fermezza – e senza dubbio accadrà ancora. Noi, nell’Azienda, chiamiamo la cosa ”l’alternativa del diavolo”».
Frederick Forsyte, L’alternativa del diavolo.
Un gruppo dirigente che sia pienamente tale deve evitare, mediante l’esattezza delle sue previsioni, informazioni, analisi, che un leader, a qualsiasi livello, si trovi in quella che è chiamata l’alternativa del diavolo, cioè l’obbligo di decidere tra due scelte ugualmente negative. Solo a questa condizione può delinearsi una leadership autonoma da condizionamenti e quindi in grado di esercitare la propria funzione.
Leadership è la capacità di guida in un procedimento decisionale consensuale e condiviso. Essa si contrappone, da un lato, al caos della miriade di impulsi di volizioni, interessi, proposte che, provenendo da un qualsiasi contesto di forze in contrasto tra loro, non trovano una mediazione e creano disordine e anarchia e una permanente conflittualità; e dall’altro lato si oppone a un’imposizione autoritaria della volontà, che annulla o deprime la molteplicità delle idee e genera una rigida gerarchia tra “capo” e sottoposti, con tutte le degenerazioni che questa comporta: di conformismo, di ortodossia, di sclerosi del pensiero.
La pratica della democrazia è connaturata al concetto di leadership. Tutte le idee vi trovano libera espressione, senza censure o autocensure, in un confronto aperto che arricchisce di utili apporti l’analisi delle situazioni e la ricerca dei modi di intervento. Ma da questo dibattito il leader ricava una propria indicazione di guida che trae giustificazione e autorevolezza dall’essere la sintesi di un processo di ricerca collettivo e insieme dal dare a questo processo una risposta motivata. La decisione finale non viene imposta di autorità dal vertice, ma si forma invece attraverso un lavoro in comune, che si conclude tuttavia in una scelta univoca, impegnativa per tutti, scaturita da un metodo di “persuasione”. Si può pensare a un gruppo dirigente in cui tutti partecipano alla formazione delle scelte e tutti sono corresponsabili della loro attuazione, ma dove proprio questo metodo di coinvolgimento conferisce alla volontà del leader pienamente la sua funzione di guida.
Leadership è sinonimo dunque di egemonia, cioè di una preminenza esercitata, nell’ambito di una libera consultazione, sulla base della qualità delle proposte e delle decisioni formulate.
La leadership è essenzialmente laica, nel significato più ampio del termine. La dipendenza, nel processo decisionale, da un credo ideologico vanificherebbe infatti inevitabilmente la libera ricerca, prefigurando o condizionando fin dall’origine la formazione delle scelte. Essere laico in questo caso significa commisurare le decisioni esclusivamente sulla qualità dei fini e sulla congruenza dei mezzi per raggiungerli. E significa ugualmente disponibilità assoluta alla tolleranza, al dialogo, alla comprensione dell’altro da sé. S’intende che nella “qualità” dei fini entrano molte componenti: accanto alla liceità etica, alla fondatezza scientifica, al progresso tecnologico, rivestono pari importanza la convenienza economica e l’utilità pratica sia a livello del gruppo che ne è promotore, sia a livello dell’interesse generale e della “qualità della vita” della collettività.
La leadership implica per sua natura un elemento utopico, cioè una prospettiva di cambiamento. La semplice conservazione dello stato delle cose non esigerebbe una capacità di guida; essa richiede tutt’al più un equilibrio (sempre instabile) tra le forze in contrasto, una sorta di accordo diplomatico tra interessi consolidati. Guidare un gruppo, un’istituzione, un partito, una società significa interpretare il loro divenire, le loro energie emergenti, le loro potenzialità di progresso, finalizzandone il movimento a un disegno ordinato, razionalmente e responsabilmente governato. Per fare questo è necessario spostare in avanti, in un luogo altro (l’utopia, modello ideale ma realizzabile) la linea del consenso, il che implica sia la critica alle situazioni esistenti sia un positivo orientamento verso forme innovative. Come il pensiero laico, anche l’utopia così definita – misurandosi dinamicamente sulla realtà – si contrappone alle ideologie, alla loro tendenziale rigidità e ortodossia.
La cultura è il nutrimento essenziale della leadership: per quello, tra gli altri motivi, viene scelta l’Italia. Soltanto le idee, in tutte le loro accezioni (riflessione critica, autoconsapevolezza, responsabilità etica, conoscenza attraverso le arti, espansione del senso positivo della vita e della sua fruizione), possono infatti assicurare la fondatezza e la ragione stessa di un’egemonia. E possono trasferire la convivenza tra gli uomini a ogni livello, dalla conflittualità quotidiana di interessi particolaristici, a una prospettiva di sviluppo nel futuro, com’è nella natura della mente umana e nelle inarrestabili conquiste della scienza.
A chi mio chiede chi noi si sia e a cosa servano questo blog e l’associazione culturale HUT 8 Progettare l’Invisibile rispondo anche a immettere nel web pensieri di questa natura e, speriamo, fertilità
Oggi, come si capisce, inauguriamo una fase di ulteriore attenzione alla centralità del Mediterraneo/Africa, sicuri che se si saprà cogliere il senso dell’alleanza USA – Italia nella dimensione complessa indicata ieri, non mancheranno soddisfazioni unite, però, a “pericoli pericolosi”.
Guai a distrarsi e a rimuovere gli effetti devastanti dell’invidia di quelli che si sentono, da sempre e inopportunamente, loro e solo loro, i gendarmi/padroni del Mare Nostrum.
Si apre una stagione pericolosissima – dicevo – e spero che a nessuno sfugga quanto questa questione mediterranea sia stata in passato segnata da fatti di sangue e destabilizzanti per la Repubblica. Questo ogni volta che si delineava una sorte di politica estera autorevole da parte nostra. Perché, spero a nessuno questo sfugga, è la geopolitica (cioè la politica estera) che comanda su tutto.
Intanto incassiamo l’opportunità. E poi pensiamo a dotarci di un intelligence culturale all’altezza di una tale “nomina sul campo”.
Ho scritto all’altezza e non alla bassezza.
Nella patria dello Yes, di yes-man (di uomini che sanno dire solo di sì) non sanno più cosa farsene. E questa volta aggiungo, senza più falsi pudori: credete a me, che vi potrebbe convenire. Vediamo di tenere la schiena dritta, come mi permisi di suggerire nel post pre-veggente del 29 aprile 2017.
Oreste Grani/Leo Rugens
DI MAIO AD HARVARD. CHE TORNI CON UNA POSTURA DIGNITOSA. ALLORA SÌ CHE IL M5S FAREBBE LA DIFFERENZA IN UN’EUROPA SMARRITA
Qualcuno ha invitato Luigi Di Maio a visitare Harvard. A ore, il cittadino pentastellato, vice-presidente della Camera dei Deputati della Repubblica italiana, si recherà negli USA a vedere, da vicino, il luogo dove (spero di non sbagliarmi) studiarono otto firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza, almeno sei presidenti e un quarto dei segretari di Stato. Stare attenti quindi prima di parlare e di sottovalutare la visita.
Niente di sacro ma – certamente – un posto cazzuto. Direi che ci si deve augurare che vicino, dietro, a fianco del cittadino portavoce di nove milioni di italiani a cinque stelle, ci siano personaggi che sappiano quello che fanno, che abbiano buone orecchie e ottimi occhi. Quando Beppe Grillo, molti anni addietro, andò alla Casa Bianca, non solo non aveva ancora dato vita al MoVimento a 5 stelle ma il suo “Virgilio” fu, se ricordo bene, il suo amico ed estimatore di un tempo, Renzo Piano. Vediamo chi accompagna Di Maio. Perché infatti non sia una visita qualunque (ne abbiamo viste fare tantissime, da De Gasperi a venire in qua) ci si deve augurare che qualcuno abbia pre-parato il viaggio e briffato il nostro cavaliere coraggioso. Perché ci vuole coraggio, in questo momento, con il casino che c’è da quelle parti (intendendo in USA), a fare questa visita. Attenti alle strette di mano, alle foto, alle dichiarazioni. Non dimenticando che in Italia si aggirano ancora personaggi alla Michael Ledeen e, intorno a gente come Stefano Bisi, para-massoni italo-americani di tutti i tipi.
Comunque, se rimane un minuto prima di partire, mi riempirebbe d’orgoglio che qualcuno, amico di Di Maio, gli facesse leggere cosa avevamo scritto in questo marginale ed ininfluente blog, a proposito di Harvard, il 12 novembre 2012, quando, a mala pena, Leo Rugens lo leggevo io che lo scrivevo.
Tra le righe di questa eventuale lettura, se il nostro Di Maio trovasse qualche spunto da usare in conversazione oppure, sia pur tacendo, cogliesse allusioni sul dove si trova, sentirei di aver fatto il mio dovere, di cittadino e di supporter del M5S.
In fine un nonnesco (questo è il divario ananagrafico tra me il mio conterraneo campano) consiglio: prudenza, prudenza e ancora prudenza perché noi, nel MoVimento, ci fregiamo di cinque stelle ma, sulla bandiera USA, oltre alle strisce, di stelle ce ne sono 51, e qui in Italia, di operatori con pezza e piumino, pronti a lucidarle, ce ne sono anche troppi. Schiena dritta, quindi, anche a rischio di spezzarsela.
Se tornasse con una postura dignitosa (intendo dire non suggestionato e prono), l’Italia onesta (e ancora possibile), gliene sarebbe certamente grata.
Inoltre, nel percorrere gli spazi dove anche durante la recessione del ’29 e negli anni successivi, si viveva dignitosamente, ricordare, anche agli ospiti, che il benessere di chi studiava, non servì solo a creare un oasi ma a ribadire che la cultura è la linfa della società dell’informazione e delle decisioni politiche che condizionano gli orientamenti ideologici dei cittadini. Che non sono solo “di destra o di sinistra” ma certamente si possono dividere tra ignoranti e informati consapevoli.
La visita potrebbe inoltre essere di spunto a ritenere che esistano ancora dei luoghi destinati a reclutare, selezionare, formare classi dirigenti. E che per essere classe dirigente non è determinate aver studiato ad Harvard o essersi laureati ma certamente considerare la cultura, o meglio il pluralismo culturale, uno dei pilastri indissolubili che sorreggono il sistema democratico. Non sono quindi sufficienti le “colonne del Tempio” e ciò che al riparo di tali colonne si elabora per determinare il destino delle genti, come potrebbero insinuare, in una mente giovane, viaggi di questo tipo. Non si va negli Stati Uniti senza sapere dove si va. Perché i viaggi non siano inutili o dannosi, si dovrebbe studiare, non dico da classe dirigente ma almeno da “cittadino portavoce del M5S”. Che poi dovrebbe essere la stessa cosa. Per addivenire alle condizioni psicologiche, etiche e giuridiche, capaci di addivenire a cambiamenti di mentalità anche in Italia (e noi del M5S dovremmo essere per prima cosa italiani) che possano generare benefici a lungo termine (a che serve essere così giovane come è Di Maio se non si pensa a lungo termine?) per la società nella sua totalità, questo viaggio non va sottovalutato.
Di Maio è stato eletto anche perché un giorno promuovesse quei valori che sono a fondamento di una società libera, costruita e rafforzata dal ruolo attivo e propositivo della comunità civile che con tanta forza è rappresentata dal M5S. altrimenti è turismo parapolitico crallistico.
Di Maio auspico, nella mia marginalità ed ininfluenza, vada, quindi, da patriota, nella terra dove in troppi si sentono “patriot” ma, come si dice volgarmente, facendo il “patriot” con il c..o degli altri.
Se non saprà essere anche questo, cioè un luogo di elaborazione politica che ci faccia assumere un ruolo femminile nel mare magnum di un mondo esasperatamente connotato da forza fisica e logica maschile, il MoVimento non sarà.
Si va ad Harvard, solo se si sa che gli anni futuri avranno un senso se ci vedranno come italiani protagonisti rispettati in un ruolo culturale dove essere chiamati a dare un contributo al dibattito (e alle trasformazioni che ne dovessero derivare) riguardante le questioni emergenti nel grande gioco geopolitico, nell’etica e nell’economia contemporanei. Non ultima la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica.
Se non ci sapranno apprezzare (e valorizzare) come persone colte e intelligenti, alleati consapevoli, ma ci vorranno solo come carne da cannone, compratori di obsoleti F35, custodi dei loro residui interessi mediterranei, direi che, sia pur senza i missili intercontinentali ma con le artigianali fionde che ci sapremo procurare, arriverà l’ora di elaborare una teoria della neutralità e, basandoci su questa “neutralità simil-svizzera”, mandarli a fare i “patrioti”, utilizzando esclusivamente il loro di c..o.
Oreste Grani/Leo Rugens
P.S.
Mi hanno detto che non è opportuno scrive culo e che se si vuole scrivere culo si deve scrivere c..o.
Ho controllato sul dizionario, in effetti sta scritto c..o, però il significato è il medesimo.
Chi può essere Leader nel mediterraneo se non l’ Italia?
Ricordo che a Beirut negli Anni ’90 era di moda tra i Cristiano-Maroniti, stanziali verso i confini Siriani, non a Beirut città, dove prevalgono i Mussulmani ( che controllano anche l’ hotel Phoenicia, dove si era poco furbescamente “nascosto Dell’ Utri); Studiare la Lingua Italiana, mangiare Italiano, consumare italiano (ancora oggi); mica l’ Olandese o l’ Inglese.
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Avanti amico intelligente che capisco che capisci ogni parola scritta di più.
Sarà un’estate rovente per noi che abbiamo fatto il militare a Cuneo e che abbiamo visto (e amato) Genova.
O.G.
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