Se i mercati azionari statunitensi dovessero crollare non ritengo che possa essere colpa di Trump. Così come il loro valore attuale

dadiroventi

Non sono certo uno specialista di mercati azionari. Anzi, tranne quello che ho scelto di dire alcuni anni addietro sul tema (IL GIOCO DELLA FINANZA … E I MAYA NON C’ENTRANO NIENTE) mi dovrei tacere in materia tanto complessa e, alla fine, sostanzialmente a-scientifica.

Dicono viceversa che mi intenda di terze vie, di terzo inclusi, di superamento di processi formativi dicotomici. Cioè di “moti del pendolo” (destra – sinistra; sinistra – destra) e viceversa di quello che da sempre questo marginale signore chiama la necessaria risalita dell’asta. Questa dichiarazione di limiti e al tempo sottolineatura di una qualche capacità, la faccio perché in presenza della più lunga e robusta crescita del valore del mercato azionario statunitense (mi sbaglio forse di poco) chiunque sa che, quanto prima o, comunque, prima o poi, gli operatori di quel mercato agiranno per mettere al sicuro  il malloppo e venderanno determinando un contrazione certa. Che potrebbe essere vicina.  Il sensitivo Donald Trump annuncia quel che non potrà non accadere e, enfaticamente, lo attribuisce, all’aumento delle sue difficoltà politiche giudiziarie (altra cosa è l’improbabile messa in stato d’accusa) e alla eventuale lesa maestà del Presidente.

I mercati azionari crolleranno se mi lasciate attaccare e tutti diverrete più poveri”.

Ripeto: un macro pazzo mondo come quello rappresentato dal denaro volatile che si muove intorno a quelle maxi roulette che sono le Borse, ha in Trump uno dei suoi fattori di stimolo ma non è il solo e, forse, non è quello determinante.

Il presidente di turno, come tanti altri prima di lui, si butta in avanti e si fa ago degli equilibri mondiali per rendersi “intoccabile” ancor di più di quanto già le leggi vigenti negli Stati Uniti d’America lo descrivano.

In sintesi: se i mercati azionari di Wall Street dovessero cominciare a scricchiolare non non non è per questa storia di bugie e di pagamenti di silenzi di Donald Trump ma banalmente perché il capitalismo finanziario sembra sicuro di quello che fa ma non lo è proprio. Nessuno che operi nel mercato azionario (uno scommettitore in sostanza) ha certezza dell’evento quando lancia i dadi. A meno che non siano truccati. Ma questo, come è ovvio, è un altro discorso.

Oreste Grani/Leo Rugens

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IL GIOCO DELLA FINANZA … E I MAYA NON C’ENTRANO NIENTE

 

Il 25 luglio del 2012 nella puntata numero 10 de La Calunnia, riportando un mio vecchio ragionamento sulla complessità del gioco della finanza, evidenziavo che nel 2010 erano scaduti 21 miliardi di dollari Junk Bond e gli investitori avevano dovuto fare fronte.

Nel 2012 i miliardi di dollari da trovare sono stati, ad oggi, oltre 155. Saliranno nel 2013 a 212 e infine nel 2014 bisognerà aggiustare 338 miliardi di dollari di carta “falsa”.

Lo tsunami finanziario, come vedete, non solo non si è esaurito nella sua spinta più violenta ma sta per aumentare l’intensità. Nell’ottobre 1991 Giuseppe Turani, con un articolo pubblicato su SFERA 23, Editrice Sigma Tau, ci avvertiva di quanto fossero “malati” gli artefici di questa giostra stordente.

Lo potete leggere di seguito e preparatevi al peggio:

“È una battuta americana molto famosa: «DIO prima o poi separa sempre i cretini dai loro soldi». Purtroppo, ogni tanto, Dio separa anche quelli intelligenti dai loro soldi. Questo per dire che quando si parla di finanza parole come rischio, incertezza, dubbio, sono espressioni di casa. Se mai sulla Terra c’è stato qualcosa di incerto, questo è certamente l’investimento finanziario.

L’osservazione è talmente ovvia e banale che il discorso potrebbe finire qui.

Non è chiaro quale sia l’attività umana priva di rischi e di incertezze, ma, di sicuro non è quella dell’investimento finanziario. Si può anche aggiungere che altre attività consentono qualche forma di assicurazione o, comunque, l’attivazione di procedure atte a diminuire i rischi. Nel caso della finanza questo invece non è possibile.

Si tratta di un’attività che ha moltissimi elementi per piacere. Il «fare soldi attraverso i soldi» è una specie di malattia, non dissimile dalla tossicodipendenza, che spesso segna una persona o una società fin nel profondo.

Da un certo punto di vista è quasi una sorta di lavoro ideale, perfetto. Cosa esiste di più bello del fare soldi senza avere i problemi della tecnologia, della produzione di cose, della vendita di oggetti e servizi?

Ma non si tratta solo di questo. Il «fare denaro attraverso il denaro» presenta altre caratteristiche interessanti. La prima è certamente quella che, di fatto, non ci sono quasi problemi con il personale dipendente. La finanza, cioè, non comporta l’organizzazione del lavoro di centinaia o migliaia di persone. Di solito si è in presenza di équipe molto piccole, le quali peraltro sanno che potrebbero trovarsi dalla sera alla mattina senza impiego e non fanno molte storie.

Ma il tratto più importante, più specifico della finanza è probabilmente la sua assoluta oggettività. In genere per «fare i soldi attraverso i soldi» si usano i soldi degli altri. E sono soldi assolutamente anonimi, che arrivano non si sa da dove, e i cui proprietari sono interessati a una sola cosa: ai risultati.

Altri settori di attività, anche nel campo degli affari, ammettono nuovi tentativi, prove d’appello o accettano giustificazioni, ma questo non vale nel caso della finanza. Il denaro chiede di essere impiegato dove rende di più.

Punto e basta. Questa è la sola e unica legge che regola i rapporti fra i diversi soggetti impegnati nel mondo della finanza. Tutto il resto non conta assolutamente nulla.

A molti questa «crudeltà», questa essenzialità non piacciono. Altri trovano invece che si tratti di caratteristiche quasi divine. Da una parte ci sono i soldi, dall’altra l’intelligenza degli operatori. In mezzo non c’è niente. Ecco perché alcuni si innamorano perdutamente della finanza.

Pur essendo fatto di infinite trappole, in un certo senso è il gioco più trasparente, più chiaro che esista sulla Terra. Ed è anche un gioco nel quale vinti e vincitori vengono dichiarati subito, in tempo reale: non ci sono ricorsi o sentenze di secondo grado.

Però, come si diceva all’inizio, questa è una professione che comporta moltissimi rischi, non evitabili. In un suo libro dedicato alla storia monetaria Kenneth Galbraith ricorda le sventure delle persone legate alle vicende delle monete (un lungo elenco di incidenti capitati a vari governatori centrali). Non è possibile dire che la storia della finanza sia identica. Ma è certo che se si ricordano i casi di improvvise e grandiose fortune, si ricordano anche quelli di improvvisi rovesci e di fulminanti crack. Anzi, molta gente pensa che il crack, il fallimento e la successiva fuga del finanziere siano parte caratteristica, quasi inevitabile del mestiere. Non è esattamente così. Ma è evidente che la finanza si pone anche come un agente distruttivo delle fortune eventualmente accumulate. Le ragioni sono sostanzialmente due.

 

Da un lato, spesso ci si dimentica che la finanza non è solo maneggio di soldi e di carte. Anzi, il finanziere veramente bravo non usa nemmeno i soldi, li inventa. Usa, al massimo, della carta: garanzie, titoli di credito, ipoteche e altre cose del genere. Se poi è un genio, costruisce dei labirinti dentro i quali tutti possono pensare che i soldi ci siano, anche se poi in effetti non ci sono.

Dall’altro lato, nella finanza accade spesso di perdere il senso delle proporzioni. Poiché tutto è immateriale (tranne pochissime cose: telefoni, computer, qualche registro) è facilissimo ritrovarsi a maneggiare somme spaventose. Ecco perché quando poi i crack arrivano sono spesso di dimensioni «impensabili» fino al giorno prima.

A proposito della finanza, ci si domanda spesso se essa non presentì qualche analogia con il gioco d’azzardo. È noto che il vero giocatore, quello di classe, abituale, che non sta a sottilizzare sulla grandezza delle poste, di solito è uno che vuole perdere. Gioca per vincere (queste sono le regole), ma i veri brividi gli vengono dal perdere. La vera emozione, da cui nasce l’attaccamento di tanti al gioco, è la possibilità sempre presente, incombente, di perdere tutto. Si sostiene, allora, che in realtà il vero giocatore gioca proprio per la speranza di provare questa grandissima emozione finale: la rovina assoluta.

E qualcuno sostiene che la finanza non sarebbe molto dissimile, È vero? Penso di no. Quello che attira nella finanza è la sua totale immaterialità e il fatto che alla fine è sempre un confronto puro di intelligenze (dove dell’intelligenza fanno parte, ovviamente, anche un vasto arsenale di trucchi, la mancanza di scrupoli e una predisposizione esagerata al rischio). Ma il finanziere non vuole perdere per la semplice ragione che solo la vittoria gli consente di partecipare a partite sempre più grandi, sempre più planetarie. E sempre, rigorosamente, senza rete. Il dubbio, l’incertezza e il rischio sono, da questo punto di vista, la sola certezza di chi fa finanza. È sempre stato così e le cose non potranno mai cambiare. Anzi, di recente, sono cambiate in peggio. Gli elementi che negli ultimi anni hanno fatto della finanza un’attività ancora più incerta e rischiosa di prima, sono probabilmente tre.

Innanzitutto, la crescita del numero di giocatori. Come molte altre cose, anche la finanza conosce i suoi alti e bassi. Ma un dato sembra essere certo: nonostante i recenti rovesci, il suo fascino presso uno strato crescente di giovani rimane fortissimo, anzi aumenta di giorno in giorno. Le ragioni sono quelle dette prima, e inoltre la sua rapidità. Fare soldi con un nuovo computer richiede prima che sì disponga di una fabbrica di computer e poi, comunque, di una certa quantità di tempo. La finanza no. È immediata. È fast.

In un certo senso sembra figlia della pubblicità di questa nostra epoca. È, insomma, il gioco più eccitante che ci sia. È elegante. Non sporca. E, alla sera, può essere chiusa tutta quanta in un cassetto della scrivania o nelle modeste memorie di un computer da tavolo. Ma è anche onnipresente: si può fare da qualunque posto, anche dal ristorante.

Basta un telefono. Nessun altra attività umana consente di fare così tanto con così poco. Ma, all’aumentare i giocatori, aumentano anche i rischi, per la semplice ragione che nell’’arena entrano sempre nuove intelligenze, in genere più svelte e più spregiudicate delle precedenti. Per farsi largo, e questo è naturale, devono fare un gioco più «pesante» di quelli che ci sono già. E quindi i rischi, per tutti, crescono.

Il secondo elemento di crescita dei rischi è la globalizzazione del gioco finanziario, ed è l’aspetto nuovo ed esplosivo. In passato la finanza era provinciale, al massimo nazionale. Gli operatori erano abbastanza conosciuti e anche i rischi erano, in una certa misura, prevedibili. Le variabili in gioco non erano molte. Oggi, la finanza è diventata veramente un gioco infernale.

Computer ed elettronica hanno messo tutti in contatto con tutti. Il siluro, la mossa vincente, possono arrivare da qualunque punto del pianeta e in qualunque momento della giornata. Fino a qualche anno fa, chi faceva finanza poteva illudersi, forse, di «controllare» il campo di gioco e le variabili che in esso si confrontavano. Oggi non è più così. In un certo senso, tutti tirano un po’ palle a caso. E questo rende ancora più eccitante il gioco. Accanto all’intelligenza, infatti, entra in scena anche la magia. Per vincere in finanza non basta più l’intelligenza, serve anche quel certo feeling con la materia: il tocco magico, appunto.

Il terzo elemento che comporta un aumento del rischio nel gioco della finanza è la fine del comunismo. E la ragione è abbastanza semplice. Caduto il comunismo, il capitalismo dovrà per forza cambiare, darsi nuove regole e, forse, addirittura una nuova moralità. Ma la finanza era diventata in questi anni una palestra eccitante e molto innovativa proprio perché in essa non c’erano quasi regole. In avvenire, quindi, è facile prevedere che si scontreranno due tendenze. Da un lato i «gestori» del gioco finanziario tenderanno a proseguire lungo la loro linea tradizionale, mentre da parte dei «gestori» del capitalismo nel suo complesso ci sarà la tendenza a metterli sotto controllo. E questo, in pratica, è un rischio in più.

Un rischio, peraltro, che non farà che rendere ancora meno controllabile il gioco.

Un’ultima osservazione su questo problema del rischio. Bisogna avere chiaro che esso è la sostanza stessa della finanza. Una volta è stato detto che una Borsa senza speculazione sarebbe come un night senza entraineuses. Così, una finanza senza rischi sarebbe come una gara di Formula Uno senza i bolidi in pista”.

In mano a chi stiamo?

Oreste Grani