Milano 1994 – 2018 Oltre a manifestare cosa sa esprimere la sinistra milanese? La domanda è a Giuseppe Civati

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Giuseppe Civati che guarda a sinistra…

 

Nel 1994 si svolse a Milano una drammatica celebrazione del 25 aprile che mostrava il trauma di centinaia di migliaia di italiani di fronte alla vittoria di un mafioso; avevamo ragione a essere atterriti, la storia ci ha confermato tutti gli incubi che immaginavamo.

All’epoca sapevo di essere cresciuto, a Milano, in un condominio costruito nel 1968 con soldi “sporchi”, non sapevo fossero passati per le mani di Luigi Berlusconi; da lì sarebbe seguito tutto ciò che il Paese ha subito e subisce da oltre sessant’anni. È ora di smascherare una volta per tutte i complici di sinistra.

Il 25 aprile 1994, a Porta Venezia, mentre il corteo si metteva in moto, svettavano non poche bandiere della Lega Nord; circondati e sommersi dai fischi, i “leghisti” evidentemente non seguaci del nero Borghezio o dell’ambiguo Gianfranco Miglio, se ne dovettero andare. Quel giorno la storia della Lega Nord e del Paese prese la piega che conosciamo; la costola della sinistra si staccò irrimediabilmente e crebbe il mostriciattolo che conosciamo. Ma lo conosciamo davvero?

Martedì 28 agosto 2018 si sono riunite ancora a Milano alcune decine di migliaia di persone per manifestare contro l’incontro Salvini-Orban che si svolgeva in Prefettura.

Un luogo importante per un giovane studente di filosofia, il sottoscritto, che vi si è recato ogni settimana per oltre un anno; un luogo dal quale nel 1945 un giovane ebreo, nascosto nei pressi, vide scappare quel vigliacco di Benito Mussolini che nel 1919, a Milano, aveva fondato i Fasci italiani di combattimento.

A proposito di Milano e della politica nazionale, non ricordo più quale imbecille di giornalista una ventina d’anni fa dichiarò che Milano non contasse nulla politicamente nel Paese: tralasciamo le 5 giornate, oltre al ricordato mascellone, Milano ha incubato l’Anello o Noto Servizio, inaugurato la stagione delle “stragi di Stato”, coltivato le Brigate rosse (da Feltrinelli a Simioni), Craxi, i miglioristi, Comunione e Liberazione, Esselunga, Berlusconi, Lega Nord, la “spin doctor” di Enrico Letta, Mario Monti, gli amici “bankster” e dulcis in fundo, e lo penso, la Casaleggio e Associati.

Milano avrebbe prodotto anche Giuseppe Civati, non fosse che al contempo sorgeva l’astro di Matteo Renzi, che dopo la Leopolda, del filosofo mal difeso e tradito dai suoi fece un sol boccone. Ci torno alla fine del post.

Dicevo dunque che Milano la sinistra riesce a organizzare belle manifestazioni, toccanti momenti collettivi e che i cavalcatori “de sinistra” riescono ad avere un po’ di visibilità nazionale per alcune ore, ma dopo?

Fino a quando la sinistra e la borghesia milanese non faranno i conti con il malaffare che pervade la Lombardia e la sua capitale – Gratteri può sgolarsi quanto vuole rispetto alla presenza della ‘ndrangheta e alla sua capacità di determinare la politica e la sicurezza di nazioni intere – e i milanesi si gongoleranno dei loro Ambrogini d’oro, delle prime della Scala o delle sfilate di moda e dei saloni del mobile, oltre a fare belle manifestazioni non potranno andare. In fondo, l’assenza di una forte rappresentanza del M5S a Milano significa esattamente questo, ovvero che il milanese colto e perbene è preda di uno sdoppiamento che gli fa girare volentieri la testa dall’altra parte e gli impedisce di mettere in crisi un modello che, per quanto corrotto e marcio da decenni, gli offre un discreto numero di servizi, dai trasporti alla sanità e via discorrendo.

Quando sento dire che a Milano “accadono le cose” mi vengono i brividi pensando alle tonnellate di sangue che oggi viene versato nei traffici di cocaina armi petrolio che diventano fiumi di denaro che alimentano la città. Ieri i soldi delle estorsioni a Palermo, poi i soldi delle centinaia di sequestri degli anni Settanta. Alla fine se ne è accorto anche Roberto Saviano, che ha ricordato al senatore “calabrese” Matteo Salvini, quanto la Lombardia sia malata, la “Grande malata d’Europa” scrisse Leo Rugens anni fa.

Veniamo infine a Giuseppe Civati, studioso di filosofia e di storia delle idee; come diceva il comune maestro Davide Bigalli: “il mio allievo migliore”, “uno che in tedesco sbaglia solo qualche accento”.

Anche Civati, come la spin doctor di Letta, stessa università, la mia e di Borso, ha abbandonato gli studi filosofici per la politica, peccato l’abbia fatto senza la minima cognizione di ciò che stava avvenendo nel mondo e che, in splendida solitudine, abbia pensato di poter esercitare il suo ingegno in un luogo, il Partito Democratico, che da struttura politica dell’era industriale ha cercato di diventare qualcosa di simile a Forza Italia, ritenendo che una struttura leggera, liquida o di plastica che sia, fosse al passo coi tempi dell’era della società dell’informazione. Il fallimento e la fine di queste forme di rappresentanza politica sono sotto gli occhi di tutti: Giuseppe Civati è pronto a raccogliere l’invito a ragionare del futuro del Paese?

Come scriveva Sciascia nel 1983, il Paese ha necessità che gli intellettuali tornino a occuparsi della scuola, togliendola alla politica e alla burocrazia; è allo studioso di filosofia Civati che sto parlando, è a lui che voglio far comprendere la figura di un intellettuale, intelligente, come Giulio Regeni, non al politico che ha creduto a Penati, D’Alema e Bersani. Si possono commettere errori in gioventù, ma dagli errori si può e si deve imparare.

Quando ero giovane mi capitò di pensare, come accade a tanti altri giovani, che mi sarei dedicato alla vita politica non appena fossi divenuto padrone di me stesso. In città si produssero allora questi avvenimenti: vi fu un cambiamento di governo che era bersaglio di molte critiche, e il potere fu assunto da cinquantuno cittadini: undici in città e dieci al Pireo si occupavano dell’amministrazione e degli affari pubblici, gli altri trenta sovrintendevano a tutti con pieni poteri1 . Tra questi, alcuni erano miei parenti e conoscenti, e costoro mi invitarono subito a partecipare alla vita pubblica, ritenendo che mi fosse congeniale. Data la mia giovinezza, non c’è da stupirsi se ritenevo che i nuovi governanti avrebbero ripristinato in città la giustizia, contro l’ingiustizia che vi regnava prima; perciò stavo molto attento a quello che facevano. Non passò molto tempo però, e io mi accorsi che quegli uomini facevano apparire il governo precedente come un’età dell’oro. Fra le altre cose essi disposero che un mio amico, più anziano di me, Socrate, un uomo che io non esito a ritenere il più giusto fra quelli del suo tempo, andasse insieme con altre persone ad arrestare un cittadino condannato a morte: cercavano in tal modo di renderlo, volente o nolente, loro complice. Egli però non volle obbedire e preferì rischiare la vita piuttosto che essere coinvolto nelle loro azioni scellerate. E io, vedendo questi e altri – non meno gravi – misfatti, mi indignai e mi tenni lontano da quelle azioni nefande. Non molto tempo dopo il governo dei Trenta cadde. E allora mi prese di nuovo, anche se più moderato, il desiderio di occuparmi della vita pubblica e politica. Anche durante quei rivolgimenti si verificarono molti episodi che potevano muovere a sdegno e non c’è da stupirsi se in tali circostanze aumentò il numero delle vendette personali: tuttavia coloro che rientrarono allora in città si comportarono con molta moderazione. Accadde però che alcune persone potenti trascinarono in tribunale il mio amico Socrate con l’accusa più infame e meno di ogni altra adatta a lui: l’accusa di empietà, per cui fu condannato e ucciso, lui che pure non aveva voluto partecipare all’arresto di uno dei loro amici, di quelli che allora sopportavano le pene dell’esilio. E io osservavo tutto questo, e gli uomini che si occupavano di politica, e le leggi e i costumi – e quanto più osservavo e andavo avanti negli anni, tanto più mi pareva difficile che potessi occuparmi di politica in modo onesto. Non si poteva far nulla senza amici, senza compagni degni di fiducia, e questi non era facile trovarli tra le persone di quel tempo, dato che la città non era più governata in base agli usi e ai costumi tradizionali – ed era altrettanto difficile farsene di nuovi. Quanto alle leggi scritte e ai costumi, si andavano corrompendo con straordinaria rapidità, a tal punto che io, pur così desideroso di occuparmi della vita pubblica, vedendo come tutto andava allo sbando, finii per provare una sorta di smarrimento; e tuttavia continuavo a osservare se mai si verificasse un miglioramento negli usi e nei costumi ma soprattutto nel governo: e aspettavo l’occasione opportuna per agire. Alla fine capii che il mal governo era un male comune a tutte le città, che le loro leggi non erano sanabili se non con una preparazione straordinaria unita a buona fortuna; e fui costretto a riconoscere che solo la vera filosofia permette di distinguere ciò che è giusto sia nella vita pubblica che in quella privata. Capii che le generazioni umane non si sarebbero mai liberate dai mali se prima non fossero giunti al potere i filosofi veri – oppure se i governanti della città non fossero diventati, per sorte divina, dei veri filosofi. Platone Lettera VII

Alberto Massari

P.S. Per chi non lo sapesse, Civati e Dario Borso hanno condiviso le stesse aule, condivideranno anche lo stesso blog e i nascenti “colloqui”?

Questi pensieri sono dedicati a Marco, compagno di banco, musicista, anima mia; insieme a lui, Giulio, Monica, James, Anna Chiara, Alessandra, Marzia… nelle aule del Liceo Carducci mi sono appassionato al nostro Paese mentre mi impantanavo nel Rocci di mia madre sotto lo sguardo indulgente e protettivo di Dionisia. Anarchici ingenui abbiamo imparato ad amare l’umanità prima delle bandiere.

https://www.youtube.com/watch?v=N2RNe2jwHE0&feature=share