IL RISIKO  PETROLIFERO DI HORMUZ

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A partire dal cinque di luglio si è cominciato a parlare in modo incessante di Hormuz, e lo si è fatto in tono minaccioso: Mohsen Rezai, comandante della Guardia rivoluzionaria iraniana, ha dichiarato in un post su Twitter che se la petroliera, iraniana bloccata a Gibilterra, non fosse stata rilasciata immediatamente, l’Iran avrebbe sequestrato una petroliera britannica nello stretto di Hormuz. Tentativo effettuato il 10 luglio con la petroliera britannica “British Heritage”, la nave era scortata dalla nave da guerra “HMS Montrose” che ha puntato i suoi cannoni contro le tre barche iraniane e li ha avvertiti alla radio, facendoli arretrare. Altre agenzie hanno riportato che le imbarcazioni iraniane erano cinque.

Ancora prima avvisaglie di innalzamento della tensione su Hormuz si sono registrati 20 giugno quando gli iraniani hanno abbattuto un drone da ricognizione americano (RQ 4A) che stava volando nello Stretto di Hormuz e non nello spazio aereo iraniano con un missile Khordad (versione iraniana del Thunder 7) azione avvenuta in contemporanea con colpi contro posizioni militari statunitensi a Baghdad e Mosul. L’abbattimento del drone poi fa il paio con la continuazione di attacchi da parte delle milizie di Al-Houthi che prendono di mira gli aeroporti sauditi di Abha e Jizan, e anche la centrale elettrica di Jizan e dell’impianto di desalinizzazione di Jizan a breve.

A partire dal 10 luglio, comunque, sono iniziate una serie di iniziative volte a controllare lo stretto di Hormuz.

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«La cattura della petroliera britannica Stena Impero da parte degli iraniani, ha costretto il Regno Unito a rafforzare la propria presenza nella regione. I rinforzi che la Royal Navy è stata in grado di inviare nel Golfo Persico non sono stati sufficienti a scortare il numero di petroliere bisognose di protezione». La Royal Navy sta lottando per dispiegare abbastanza navi per far fronte agli impegni esistenti, tanto che potrebbe non essere in grado di scontrarsi contro la marina iraniana, riporta il blog finnico Vantage Point North.

A tutto ciò vanno raggiunti rischi per il gasdotto saudita Petroline, a Yanbu sul Mar Rosso, che può trasportare circa 5 milioni di barili al giorno ed è in fase di espansione fino a 7 milioni di bpd entro la fine dell’anno; per la riapertura del terminal di esportazione di Muajjiz, sempre sul Mar Rosso; per l’oleodotto di Abu Dhabi da Habshan a Fujairah nell’Oceano Indiano, che è comunque fuori dallo Stretto.

Non tutti i mali verrebbero per nuocere, però: a causa del forte aumento dei prezzi, Arabia Saudita e Abu Dhabi potrebbero persino aumentare i loro ricavi nonostante i minori volumi di spedizione. L’Oman, che esporta da Mina Al Fahal nel Golfo di Oman al di fuori di Hormuz, sta sviluppando un altro terminal e un centro di stoccaggio di petrolio a Duqm che potrebbe essere collegato ai gasdotti dei vicini dell’Oman per fornire un supporto alle esportazioni. Kuwait, Qatar e Bahrain, invece, dipendono interamente dallo Stretto. Anche l’Iraq ha bisogno di Hormuz per tutte le sue attuali esportazioni, mentre il collegamento con il gasdotto attraverso la Turchia rimane interrotto. Nonostante alcune discussioni con l’Arabia Saudita, l’Iraq non ha recuperato l’accesso al gasdotto Ipsa verso il Mar Rosso, preso dopo la Prima guerra del Golfo, mentre il suo gasdotto verso Aqaba in Giordania è ancora un progetto.

Se un blocco di Hormuz riducesse le esportazioni del Golfo, gli stock strategici mondiali dovrebbero essere sufficienti per quasi sei mesi, poi si verrebbe a creare il caos logistico, che richiederebbe accurati piani di emergenza; mentre i prezzi schizzerebbero verso l’alto per poi crollare con l’eventuale riapertura.

Le economie di Cina, Giappone, Corea del Sud e Ue sarebbero direttamente minacciate. Gli Stati Uniti, oggi uno dei principali produttori di petrolio, sono ancora importatori netti, ma ne soffrirebbero di meno, mentre la Russia ne trarrebbe grandi vantaggi.

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L’Amministrazione di Trump ha iniziato un tour per cercare alleati per l’Operazione Sentinel, pattugliamento dello Stretto di Hormuz, senza però grandi successi ad onor del vero, neanche tra i suoi alleati d’intelligence della Five Eyes. In una recente riunione tra i leader statunitensi e australiani, il neosegretario alla Difesa Mark Esper ha detto di aver già ottenuto una buona risposta da parte degli alleati e il Segretario di Stato Mike Pompeo ha detto ai giornalisti che sono in corso molti contatti, ma le loro controparti australiane non hanno preso alcun impegno: «La richiesta degli Stati Uniti è molto seria e complessa e la stiamo prendendo in seria considerazione», ha detto il ministro della Difesa australiano Linda Reynolds «Non è stata presa alcuna decisione», ha poi aggiunto. La Reynolds ha poi detto che il suo paese deciderà sulla base di ciò che è nel suo stesso interesse sovrano.

Che le cose stanno cambiando in merito alla navigazione nello stretto lo palesa la Nautilus International colosso nel settore marittimo: (Nautilus International è un’organizzazione sindacale e professionale indipendente, influente e globale, impegnata a fornire ai membri servizi di alta qualità ed economici e assistenza sociale ai necessari marittimi, ai loro familiari a carico e ad altri professionisti del settore marittimo)  che in un comunicato pubblicato sui media iracheni il 26 luglio asseriva: «Nautilus International ha proposto che il Golfo Persico, il Golfo di Oman e lo Stretto di Hormuz siano considerati una “zona pericolosa”, che richiederebbe un’assicurazione aggiuntiva per la vita e la salute dei marittimi nella regione. “Nautilus International sta cercando di convocare una sessione di emergenza del Comitato operativo militare britannico per discutere l’inclusione dello Stretto di Hormuz nell’elenco delle aree ad alto rischio di ostilità», ha dichiarato l’Unione dei marittimi.

La situazione dunque è tutt’altro che rientrata, a partire dal due agosto sempre dai media, questa volta britannici, che citano fonti statunitensi, si apprende che i jet da combattimento F-35E sui cieli di Hormuz sono stati armati con munizioni a raggi infrarossi di qualità e laser per individuare e distruggere obiettivi. Analisti militari a questa informativa hanno poi aggiunto che queste armi possono essere utili per colpire piccole imbarcazioni, come quelle usate dalle Guardie rivoluzionarie iraniane.

A tutt’oggi, gli Stati Uniti valutano che la Guardia Rivoluzionaria abbia costituito una flotta di oltre 100 navi, molte delle quali di piccole dimensioni e in rapido movimento. Si prevede che in un blocco potrebbero essere coinvolte le risorse iraniane aeree e terrestri, comprese le batterie missilistiche difensive costiere.

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E mentre tutti guardano con apprensione i fatti, qualcuno ha fatto i conti: l’agenzia di rating Fitch, in un report pubblicato sulle perdite in Iraq, ha riferito che se lo Stretto di Hormuz fosse chiuso alle esportazioni di petrolio l’Iraq avrebbe un rating a B meno. Perché di fatto mancano altre rotte a sud per far passare le petroliere. L’Agenzia ha stimato che la chiusura dello Stretto per un mese potrebbe portare alla perdita per l’Iraq di 5,6 miliardi di dollari in entrate petrolifere, cioè quasi il 3% del suo prodotto interno lordo. Secondo i dati della US Energy Information Administration e dell’International Energy Agency, il 21 percento della fornitura mondiale di greggio (21 milioni di barili al giorno) passa attraverso lo stretto di Hormuz.

E qui dobbiamo fare una nota su un un paese di cui nessuno parla ma che con la crisi di Hormuz e l’innalzamento della tensione tra Iran e USA rischia di cadere in una guerra civile che a cascata impegnerebbe Occidente e Oriente in una ennesima guerra per procura: l’Iraq. Con un governo giovane, l’Iraq, tentenna alle prese con gravi problemi di corruzione, attacchi Daesh costanti nelle regioni di: Salahuddin, Diyala, Baghdad, Ninive. Milizie che combattono contro l’esercito che combatte contro curdi, potete ribaltare questa frase come vi pare. La regione più difficile da gestire in questo momento è il Ninive. Altro tema scottante è la rivoluzione etnica, qualcuno l’ha definita epurazione nelle regioni seguito della guerra contro Daesh che ha portato in pancia all’Iraq: libanesi di Hezbollah, iraniani e afghani di milizie affiliate all’Iran. Paese che dipende per l’80% dalle esportazioni di petrolio e ancora fidelizzato all’Iran per l’approvvigionamento elettrico è costretto ad avere in pancia l’esercito statunitense che fa la guardia ai confini iraniani, tiene sotto controllo Daesh. E per concludere con Bassora regione attualmente in mano alle tribù locali dove si registrano sparatorie continue, arresti senza motivazioni, l’emergere di spaccio di droga e veri e propri “laboratori” di produzione di droghe. Bassora da dove passano ogni genere di beni da e per l’Iran.

A concludere questa carrellata di “buone notizie” il sei agosto il presidente iraniano Rouhani ha indirizzato messaggio alla Gran Bretagna: “Hormuz non può essere aperto alle tue navi e Gibilterra alle navi iraniane”.

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Già nel dicembre del 2018, il presidente iraniano Hassan Rouhani aveva lanciato un avvertimento: il 4 dicembre, in seguito alle osservazioni degli Stati Uniti che le sanzioni su Teheran erano già riuscite a tagliare le esportazioni di petrolio iraniano, Rohuani ebbe a dire: «Gli Stati Uniti dovrebbero sapere che stiamo vendendo il nostro petrolio (…) e non è in grado di fermare le esportazioni di petrolio iraniano E dovrebbe sapere che se un giorno intende bloccare il nostro petrolio, nessun petrolio sarà esportato attraverso il Golfo Persico».

Gertrude Bell e Elijah Baley