Pacciardi e Renzi: vediamo di non esagerare nei ricordi e nelle ricostruzioni dissacranti

de martini

COLAZIONE ALL’HUNGARIA

Matteo Renzi si lamenta che la magistratura e la guardia di finanza abbiano fatto una scorribanda semi persecutoria nei confronti della sua fondazione. Ha detto che il sistema di colpire usando la finanza era inaudito nella storia.

No.

Si tratta di una mascalzonata democristiana già usata verso – guarda un po’ – Randolfo Pacciardi e alcuni gruppi industriali finanziatori del movimento di Nuova Repubblica che si erano tassati per 30 milioni di lire ciascuno (del 1964) per creare e il settimanale “Folla“.

Ricordo in particolare la SNIA Viscosa di Marinotti cui la Gdf dopo una visita lampo comminò una multa di settecento milioni dell’epoca.

Marinotti si scusò di non poter continuare.

Non ricordo di preciso di quanto multarono le Ceramiche Pozzi, ma l’esito fu ugualmente esiziale.

Poiché Attilio Monti e i Moratti erano troppo potenti, usarono la blandizia.

Aldo Moro (col fido Freato al seguito), all’epoca presidente del Consiglio in carica, si recò in visita nell’ufficio privato di Monti, alla torre Velasca, chiedendogli di cessare i finanziamenti. Ignoro cosa fecero con i Moratti, ma anche loro smisero assieme ad Assolombarda.

Santo Aldo Moro, buonanima, scrisse una lettera formale a tutti i direttori di quotidiano dell’epoca chiedendo di non citare Pacciardi e il suo movimento.

Obbedirono tutti.

Un quarto di secolo dopo, Domenico Bartoli sul GIORNALE di Montanelli, scrisse un fondo su Pacciardi che concludeva con la frase “si levi l’interdetto”.

Lo tolsero. 

Pacciardi era ormai ultra ottantenne e Moro sottoterra.

Attilio Monti continuò a dare due milioni dal suo conto personale (e una collaborazione alla sua catena per la politica estera coi nomi Roberto Panerai e Renato Fermi) dicendo a Pacciardi che i soldi che dava agli altri erano per interesse, ma quelli che dava a lui erano per amore.

Renzi allevato alla stessa scuola di ipocrisia pretesca, non può lamentarsi ne vantare primogeniture vittimistiche.

Quando annunziarono il rapimento di Moro, corsi al bar Hungaria, vicino al mio ufficio, chiedendo una bottiglia di champagne.

La risposta del barista, Enrico, fu: “dottò, le abbiamo finite.” 

Una soddisfazione inutile e tardiva.

Antonio De Martini

Dietro questo racconto (certamente veritiero) c’è ben altro e un giorno all’amico De Martini il compito di svelarlo questo “altro”. In molti brindarono al rapimento/morte di Moro. Invece, io, fesso-fesso, cacchio-cacchio, cambiai la mia vita (ne pago ancora le conseguenze) perché intuii, durante i 55 giorni, che l’Italia sarebbe rimasta orfana e senza una politica estera se Moro fosse stato ucciso. A Tonino, se ben ricordo, andava bene che il sopravvissuto fosse Giulio Andreotti. A me no.

Un giorno anche di questa differenza dovremo arrivare a parlare. Differenza non da poco se arriva perfino alla morte di Mino Pecorelli, che sia De Martini che il sottoscritto abbiamo conosciuto. A fondo. Renzi è altro e non mi sembra degno di tanta attenzione o di ricostruzioni storiche in cui si arriva a citare Rendy, come chiamavamo il nostro Pacciardi.

Buona giornata a tutti quelli che c’erano e a vario titolo possono scrivere di quei tempi andati. In saluto particolare a Tonino che spero di vedere quanto prima.

Oreste Grani/Leo Rugens