Fin dove potrebbe portare il caso Roberto Rosso?
Se vogliamo parlare seriamente del caso Roberto Rosso, direi di partire da un approccio metodologico che consiglia di non ritenere che aver arrestato Rosso sia cosa minore: Roberto Rosso mi risulta essere (se mi sbaglio chiedo scusa sin da subito) in strettissimi rapporti con tale Francesco Sempio. Sempio è persona che definire complessa è una semplificazione che, altrettanto, bisogna da subito evitare di fare. Altrimenti si arriva al paradosso di storpiarne il cognome e, nel farlo, renderlo invisibile a conclusioni investigative che invece tutto avrebbero dovuto divenire meno che dei vicoli ciechi. Come sono diventati rispetto alla sua persona e al sistema imprenditoriale che Sempio rappresenta. Vediamo se, arrestato Rosso, si esce da questa cecità indotta e, viceversa, passo dopo passo, cerchio concentrico dopo cerchio concentrico, i meriti investigativi di chi ha acchiappato il politico Roberto Rosso ci portano a scoperchiare ben altri crogioli bituminosi. Dobbiamo inquadrare (se vogliamo fare un buon lavoro utile alla collettività) gli eventuali rapporti politici, economici, culturali intercorrenti tra il Rosso e Sempio in un quadro più ampio attinente la scenaristica alimentare planetaria trattata in un volume (quello del 1/2015) di Gnosis Rivista Italiana di Intelligence.
Me ne vado lontano quindi ma solo perché come poi mi auguro emerga (se non sto prendendo una gravissima cantonata per omonimia) stiamo parlando del sistema mondo. E come se stessimo scrivendo di petrolio, armi, rifiuti, droga. Il riso infatti è materia prima di livello strategico e vediamo di trattarlo come va trattato. Se non ne sapete, studiate come ho fatto io. E ora so che anche le più inimmaginabili ipotesi criminali, intorno al riso, sono possibili. E non perché il riso faccia male. Anzi.
Qui mi fermo perché vorrei evitare di mandarmi di traverso il cenone che, nella nostra semplicità, come è tradizione, mia moglie ed io, affronteremo insieme. Guardando con fermezza e coscienza a posto, l’anno entrante e il tempo passato. Nel 2020 (che bel numero e come si presenta anche graficamente bene) vedremo di capire meglio che pesce sia stato pescato in Piemonte e come stiano gli eventuali rapporti tra il politico di turno e il re italiano del riso. Francesco Sempio, se è lui, potrebbe essere personaggio che deve le fortune imprenditoriali non solo al caso o a sue peculiari capacità personali. Come la vita insegna, ci sono sempre degli esordi difficili a cui bisogna dare una soluzione creativa e nel caso di Sempio la creatività potrebbe avere le fattezze di tale Giancarlo Piumazzi che lo condusse, partendo dalla provincia, a conoscere addirittura Angelo Epaminonda, il Tebano di Catania, a sua volta trasferitosi al nord e operativo addirittura per conto di Francis Turatello sul terreno delle bische (da far nascere e proteggere), della polvere bianca (solo cocaina si vantava Epaminonda di aver commerciato), prostituzione e quanto si poteva lucrare con modalità illecite.
Se non sono tutti casi di omonimia, Sempio un po’ di favori li ricevette da questi ambienti che proprio noti al mondo per far circolare denaro lecito non sono rimasti nella memoria collettiva di questo Paese (ci sarà pure qualche appunto riservato che si riferisca quel periodo e a quei contatti?), dell’FBI e, soprattutto, riguardando, negli anni successivi, anche business insediato a Cuba, negli archivi della CIA. Non vi faccio fare neanche lo sforzo di andare a consultare fonti aperte e vi riporto io quanto si può leggere del Tebano così, se fosse vero che Sempio gli deve qualcosa, avreste chiaro di quale complessità rizomica stiamo parlando.
Angelo Epaminonda, detto il Tebano (Catania, 28 aprile 1945 – aprile 2016), è stato un criminale e collaboratore di giustizia italiano, attivo nel corso degli anni settanta e ottanta, soprattutto nella città di Milano.
Nato a Catania il 28 aprile del 1945, ancora bambino si trasferisce con la famiglia a Cesano Maderno, in Brianza, dove il padre, di professione scalpellino, tenta di sfuggire ai numerosi debiti di gioco accumulati. Minorenne, mette incinta una ragazza di origine veneta e, pertanto, si trova costretto a sposarla. Cambia spesso lavoro perché non riesce ad accettare le gerarchie e con lo stipendio da dipendente non può mantenere i suoi crescenti vizi: le donne, le carte e la cocaina. In seguito, il suo secondo figlio muore di polmonite a pochi mesi di vita. Il rapporto con la moglie si deteriora sempre di più, per i suoi tradimenti, le sue lunghe assenze da casa e la scarsa voglia di lavorare e condurre una vita familiare.
Inizia a frequentare alcuni locali e night del centro di Milano, frequentati allo stesso tempo dalla Milano Bene e dalla Mala. Inizia a compiere piccole truffe e alcune rapine in banca finché entra nel giro del potente boss della Milano dell’epoca, Francis Turatello, allora re indiscusso delle droga e bische clandestine, che gli affida la gestione di alcune di esse e lo introduce ai vertici della malavita locale.
Tra gli anni settanta e ottanta a Milano si contavano in media 150 omicidi all’anno. Proprio in quel sanguinoso contesto Epaminonda prese il posto di Turatello, e divenne il nuovo referente lombardo della mafia catanese.
Nell’inverno 1979 è autore della celebre strage di Via Moncucco, al ristorante “La strega”, in cui persero la vita 8 persone.
Gestisce diverse bische tra Imola e Riccione. Le prende tutte, sottomette i gestori e ne uccide due, il primo perché non voleva sottostare alle regole imposte e l’altro per dare una dimostrazione ad un altro gruppo di mafiosi. Si chiamavano Calogero Lombardo e Arcangelo Romano, uccisi nel 1983 e nel 1984. Uno a San Giuliano Mare, l’altro a Igea Marina.
Arrestato la prima volta nel 1980 per sequestro di persona, ma assolto per insufficienza di prove, fu rispedito in carcere il 30 settembre 1984 accusato di essere il mandante dell’omicidio di Turatello.
Dopo l’arresto, Epaminonda è stato il primo pentito di mafia a Milano. Ha confessato al magistrato milanese Francesco Di Maggio di aver ordinato o di essere stato complice di 17 omicidi, ricostruendone un totale di 44. Ha ammesso di aver gestito imponenti traffici di cocaina, in aggiunta al controllo del gioco d’azzardo e di alcuni casinò, ma ha sostenuto di non aver mai fatto vendere un solo grammo di eroina. Ai poliziotti che lo arrestarono Epaminonda fece i complimenti perché erano riusciti a scoprire la sua parola d’ordine e a pronunciarla in dialetto catanese. Le sue rivelazioni hanno consentito ai magistrati milanesi di arrestare 120 persone.
Il processo a Epaminonda, che fu il primo maxiprocesso a Milano, fu addirittura teatro di una sparatoria: il catanese Jimmy Miano sparò contro il presunto mandante dell’omicidio Turatello nell’aula bunker di San Vittore a Milano. Pur certificando il suo importante contributo alle inchieste antimafia, i giudici della corte d’assise inflissero al boss 29 anni di carcere, confermati sia in appello che in Cassazione. Una condanna che Epaminonda scontò quasi totalmente fuori dal carcere grazie alle normativa sui pentiti.
Nel 2007 Epaminonda è tornato in libertà cambiando per ragioni di sicurezza i propri dati anagrafici. Si è allora trasferito in una località segreta assieme alla sua famiglia.
È morto nell’aprile 2016 all’età di 71 anni, ma la notizia è trapelata solo nel dicembre successivo.
Nel libro Epaminonda racconta del rapporto con alcuni personaggi dello spettacolo ai quali vendeva cocaina, come Walter Chiari e Franco Califano. Racconta inoltre di quando fu visitato e operato dall’oncologo Umberto Veronesi e quando Turatello offrì rifugio al latitante Graziano Mesina.
Per intendersi e scendere ad un linguaggio di più facile comprensione, sempre se non ci fosse un caso di omonimia, questo Sempio a Berlusconi gli farebbe un baffo a tortiglione, se non una pippa. Ma, se non mi sto sbagliando, ad entrambi sono sempre piaciute le donne e quindi niente metafore sessuali. Di cattive frequentazioni comunque stiamo certamente parlando per entrambi. Agli esordi. Dopo è sempre difficile ricordare come è andata e chi ha messo i primi soldi. O chi ha consentito ad uno senza credito sufficiente di passare dalla piccola oreficeria (questo dicono che fosse l’attività di Francesco Sempio) a mettersi nelle risaie e a fare piccoli/grandi affari con Ligresti (quello) e Cabassi (quello). Per fare soldi bisogna avere soldi. Punto. E quando dico Ligresti mi torna in mente Catania (da dove saliva il Tebano e in generale da dove provenivano i mafiosi siciliani dalla pistola facile) e i grovigli bituminosi che hanno sempre accompagnato la fortuna/sfortuna dei Ligresti. Comunque se si avesse certezza di qualche business tra il Francesco Sempio e don Salvatore Ligresti direi di porci il problema di come sia stato possibile sedersi a quei tavoli. Tavoli a cui in quella Milano si arrivava anche grazie all’avvocato Antonino La Russa, anche lui siciliano proveniente dal comune di Paternò, provincia di Catania, e padre di Ignazio La Russa, 50 anni dopo compagno di partito di Roberto Rosso e di Giorgia Meloni.
L’intelligenza, scrivo in altra sede, è circolare, frattalica e mai binaria.
Ho accennato ad affari del Sempio con Cabassi. Intendo Giuseppe Cabassi cioè il top di quegli anni. Se non sono mai avvenuti questi piccoli grandi investimenti e contaminazioni finanziarie, chiedo scusa ai Cabassi. Ma se viceversa l’ex sfigato Sempio ci si è seduto a quei tavoli, bisogna continuare a chiedersi come e perché.
Roberto Rosso arriva molti anni dopo a reggere la coda del Gruppo Euricom/Curti Riso/La Habana ma quando parla di riso nelle vesti di pubblico amministratore, al riso dei Sempio si riferisce. Questa è la sostanza. Sperando, per amor di Patria, di non scoprire che quando uno parla del riso dei Sempio si riferisce solo al loro legittimo aver saputo fare impresa.
Comunque se conoscete un po’ Leo Rugens cominciate a capire che se chi di dovere ci mette il naso, le orecchie, le dita, l’arresto di Rosso potrebbe portarci dove, viceversa, qualche anno addietro, un trucco semantico, ha impedito di capire come gira il mondo.
E non ritengo solo quello del riso.
Oggi è l’ultimo dell’anno per cui mi è facile dire ci vediamo nel 2020 per continuare a trattare la materia.
Materia affascinante e pericolosissima se non ci troviamo di fronte a casi di omonimia o di errori calligrafici.
E poi – diciamolo – che il rosso non è solo il colore del sangue (e qui di sangue anche non metaforicamente ne è scorso) ma quello del cognome (Roberto Rosso appunto) del bandolo del fil rouge e, infine, cosa non minore, quella della MN Jolly Rosso.
In che casino cromatico mi sto mettendo? O vi sto per mettere?
Oreste Grani/Leo Rugens