Ma quale età dell’innocenza? Dalla violenza sulle donne al bullismo siamo tutti colpevoli

Abituati a vivere la violenza del mondo come qualcosa di assolutamente naturale, sedotti (e abbandonati) dalla possibilità che non ci accada quel male che vediamo microscopico nelle nostre televisioni, finiamo per essere cullati da stupri e da violenze senza nome, da torti senza colpa, che piegano il corpo di una donna, che offendono la dignità di un bambino e tremendamente decapitano una Comunità.

Ma chi sono i responsabili? Troppo spesso abbiamo sommato nomi su nomi, per aggiornare una statistica che non può essere tale. Chiariamo subito che i responsabili non sono, perché non sono responsabili ma colpevoli, dal momento che hanno perso ogni diritto e non hanno mai avuto una propria dignità.

Da quando hanno accarezzato con troppa forza un viso, da quando hanno gridato mezzo tono sopra il consentito, da quando hanno soltanto guardato male quella donna che avevano accanto, da quando hanno persino tolto un saluto. Da quando nati senza pudore, offendevano la propria mamma e insegnavano ai figli a non riconoscere il bene e il male o peggio ancora, non insegnavano ma lasciavano fare. Questo complesso di violenze, stratificate e a più livelli, da sempre esistente, ha portato a quella prepotenza che toglie la corona al nostro stato, che spegne le stelle che non guardiamo. Dovremmo sapere che uno Stato senza rispetto per le madri, difficilmente rispetterà i suoi figli. Eppure, negli anni abbiamo allevato, sdraiati su divani di pelle, i figli di una nuova violenza.   

Questa bruttura svelata dalle televisioni rimaneva tre metri oltre il nostro naso, nelle importanti e imponenti manifestazioni, e forse proprio per questo, l’abbiamo sempre vissuta come un fatto del nostro paese, dimenticandoci del mondo, ma cosa assai più grave, assolvendola.

Abbiamo allora vissuto due violenze: quella fisica che segnava un corpo e quella tacita che lo rendeva identico all’altro, cui ha contribuito il nostro modo di voler leggere informazioni in un certo modo e la reazione, che non c’è stata. Almeno che per reazione non si intenda una piazza piena, pure giusta, la nostra risposta è stata inesistente e senza vergogna. Nel nostro piccolo abbiamo contribuito affinché tutto peggiorasse.  Conoscendo così bene questo problema, tanto da spenderci in gloriose prime serate, non ci siamo accorti di un male nato in casa, parente diretto di questa cultura (ma quale cultura!), che orienta i nostri ragazzi e lascia un’eredità ignobile.

E il bullismo figlio non solo di ignoranza e menefreghismo, ma di buona famiglia e indifferenza, è cresciuto a pane e violenza nei piatti fondi ed eleganti, cappelli di prete. Così si è trasformata e si è evoluta la violenza, da fisica a psicologica, diretta a vittime più deboli, non perché prive di muscoli ma perché ricche d’amore.

Seppure non si possano fare distinzioni sulle violenze, diviene necessario, nel momento in cui se ne è persa la coscienza, prenderne atto. Il bullismo da ribelle quale era, ovvero espressione di una certa mancanza, è divenuto fenomeno borghese, espressione di un’altra mancanza. Il bullo che invidiava un vestito adesso invidia la vecchia giacca logora o addirittura la nudità. Attratti come sempre dagli estremi e avendo ogni cosa, finiamo per sentirci a disagio in ogni luogo. La peggior malattia del capitalismo, porta il ragazzo a desiderare per desiderare, a vedersi privo di quell’unica cosa che non può avere e invece ritrova nella spensieratezza di una ragazza che può offendere senza che gliene sia fatta una colpa, o senza che perda qualcosa delle mille che ha, come ha imparato a contatto con la violenza ogni giorno.

Abbiamo alienato la pace, abbiamo perduto il sentimento e rischiamo di far perdere ai figli e ai fratelli, la capacità di amare. Questa violenza troppo accessibile, non mostra soltanto un odio represso che colpevolizza chi lo subisce, ma un apparato di sentimenti in pericolosa evoluzione. Ci siamo fermati con troppa sufficienza a mostrare ai figli la differenza che vi è tra giusto e illecito, e gli atteggiamenti di bullismo, sempre più diffusi e sempre più diversi, mostrano una pericolosa debolezza societaria. L’istruzione che avviene nelle scuole non può non tener conto di questi fenomeni, ma soprattutto, non può permettere a quegli stessi genitori che accompagnano i figli allo stadio, alle partite la domenica e magari li abbandonano a intere serate televisive, di lasciar correre e di non prenderne atto. Perché proprio quei figli e quelle figlie saranno domani mogli e mariti. Il male diviene infatti pericoloso nel momento in cui è cosciente del danno che causa. Qualcosa che sembra ora avere una nuova veste, dannatamente firmata e per questo accettabile, pronta a farci naufragare nel mare della disuguaglianza.

Tanto plus in illis proficit vitiorum ignoratio, quam in his cognitio virtutis.

Sentiamoci dunque responsabili quando riempiamo le tasche dei nostri bambini con caramelle troppo zuccherate e ci diciamo maestri, perché quelle caramelle non addolciranno le bestemmie che nelle classi e subito dopo nella vita, da giovani e giovanissimi saranno dette, non daranno più amore ad un bambino invidioso che violenta l’altro. Quelle parole che divengono gesti, che lo vogliate credere o no, feriranno come lame una (nuova) giovane vittima, che non merita la vostra indifferenza, altrimenti consideratevi parimenti colpevoli. Non servono tweet ma istruzione; non servono rosari ma istruzione; non serve violenza ma istruzione.

C’è talmente tanta polvere nelle nostre case che non ha senso vedere il mondo sporco, almeno che non siate Greta, ma questa è un’altra storia.

 

“Tanto più giova in essi l’ignoranza del vizio che negli altri la conoscenza delle virtù” (Giustino, Historiae, II, 2, 15).

 

Adso da Melk