Qui viene giù tutto, strilla il titolone di La Repubblica

Qui viene giù tutto, si legge su un giornale nazionale un tempo capace perfino di essere lui stesso un luogo di elaborazione politica. Un tempo, ho scritto, attribuendo a La Repubblica un ruolo strategico che, se si escludono i primi anni dall’esordio in edicola, non ha mai più avuto, avendo lavorato, proprietà e direttori, senza una visone prospettica se non la conservazione di quello che è sembrato tornare loro utile. Il Paese non era contemplato (se non a parole stampate) ed oggi questa assenza di visione e di amore non solo è svelata ma non possiamo non attribuire, con altri, proprio alla testata gravi responsabilità in questo tracollo. La responsabilità primaria è consistita in quel gioco delle parti spartitorio che ha visto per decenni Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti in tacito accordo. Giorno dopo giorno, a prescindere dalla recita dei rivali, la sostanza è rimasta: i magistrati devono ancora ricordare agli italiani che il moribondo Silvio Berlusconi è un corruttore; che la P2 era una associazione di lucidi criminali stragisti; che la mafia siciliana era in accordo, da prima della nascita di Forza Italia, con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.

In questi decenni di consociativismo sostanziale tra questi due schieramenti affaristici si radicava il declino dell’Italia, in alcuni passaggi lento, limitatamente percepibile, per attività soporifera dei media dei due padroni. In altre fasi il declino diventava problema politico e sociale quando, spazzatura sotto il tappeto, i suoi effetti si rivelavano molto più diffusi e quando il costo dell’ignorarli diventava insostenibile ad ogni tipo di governo. I fattori economici erano l’innesco ma non avendo i due grandi avidoni voluto mai cedere un grammo alla bilancia dell’equità e della giustizia giusta, questa dissipazione è avvenuta usando come combustibile a cui si attingeva per alimentare il grande falò suppellettili, libri (e tra essi la Costituzione e i codici) e certamente i ricordi del sangue versato. C’è stato un momento, diciamo una decina di anni addietro, che un certo numero di italiani, riempiendo le piazze sotto le cinque stelle, sono sembrati avere piena consapevolezza di questo declino ed avvertendo la necessità di rompere la spirale e di interrompere la recita, hanno invocato a piena voce un cambio strutturale fatto di riforme e di comportamenti politici. Nel momento in cui erano massimamente inquieti e pronti a reagire ai ritardi accumulati da questa informale diarchia, alcuni milioni di compatrioti hanno invocato un  progetto di nuovo e più equo sviluppo che interrompesse l’era dei forti dispendi economici ad esclusivo vantaggio di quella che un buon titolo di un libro definì la Casta.

Milioni di cittadini, anche messi in rapporto tra loro dalla rete internettiana, sperarono in un definitivo assetto unitario dell’Italia, non più sotto una  sola stellona provvidenziale ma, fortunati noi nel mondo, avendone scoperte cinque. Niente più leggi spot per correggere, in una sequenza infinita, situazioni emergenziali.

Gli istituti specializzati che fotografavano in quei momenti la situazione del Paese (eravamo nel biennio 2009-10) affermavano che milioni di italiani erano andati avanti e pretendevano non dico chi li guidasse ma almeno ne assecondasse gli obiettivi. Primo fra tutti che nessuno rimanesse indietro zavorrato da una ridda di proposte, slogan, programmi che venivano puntualmente smentiti il giorno dopo.

Gli italiani (un gran numero) erano ormai insofferenti (pronti a menare) a sentire parlare di riforma della giustizia, della pubblica amministrazione, della scuola, del rilancio della ricerca, di pensioni miserabili, di corruzione dilagante, di criminalità imperante, di nessuna attenzione alla meritocrazia. Erano i momenti in cui Roger Abravanel sosteneva che la mancanza di meritocrazia era la causa del declino della nostra economia (eravamo gli ultimi e siamo rimasti gli ultimi grazie a questo cancro devastante) e della spaventosa (nel 2009!!!) mancanza di equità della nostra società, che ha un gap (vuol dire divario) tra ricchi e poveri (e non quelli canterini da Festival di Sanremo) analogo agli Stati Uniti, ma non aveva neanche lontanamente la mobilità sociale che appariva a quelle latitudini.

Dieci anni addietro, quando cominciava a serpeggiare il grande vaffanculo grillino, eravamo la società sviluppata (mi scuso per la semplificazione) con il più rapido declino economico e la maggiore ineguaglianza sociale.

Quando si alzò l’onda a cinque stelle (lo tzunami un tempo tanto celebrato) la società italiana, nella sua parte più sensibile, era pertanto stanca della mancanza di regole e di merito e attribuisce questo limiti gravissimi alla sua classe dirigente.

In una lettera del 29 giugno 2009 (vi prego di guardare le date e di dare il giusto significato al decennio della speranza grillina ormai consumatosi) la situazione era delineata e i ragazzotti a cinque stelle ebbero il privilegio della storia di ereditare tale opportunità. Rileggere la lettera non basta. Vi consiglio di fare un passo in più e spostarvi sul post a seguire vista la fonte autorevole che ospitò la lettera e il dibattito spontaneo che ne seguì.

“Caro presidente Napolitano, chi le scrive è una non più giovane ricercatrice precaria che ha deciso di andarsene dal suo Paese portando con sé tre figli nella speranza che un’altra nazione possa garantire loro una vita migliore di quanto lo Stato italiano abbia garantito al­la loro madre. Vado via con rab­bia, con la sensazione che la mia abnegazione e la mia dedi­zione non siano servite a nulla. Vado via con l’intento di chie­dere la cittadinanza dello Stato che vorrà ospitarmi, rinuncian­do ad essere italiana.

Signor presidente, la ricerca in questo Paese è ammalata. La cronaca parla chiaro, ma oltre alla cronaca ci sono tantissime realtà che non vengono denun­ciate per paura di ritorsione perché, spesso, chi fa ricerca da precario, se denuncia è auto­maticamente espulso dal «siste­ma » indipendentemente dai ri­sultati ottenuti. Chi fa ricerca da precario non può «solo» contare sui risultati che ottie­ne, poiché in Italia la benevo­lenza dei propri referenti è una variabile indipendente dalla qualità del lavoro. Chi fa ricer­ca da precario deve fare i conti con il rinnovo della borsa o del contratto che gli consentirà di mantenersi senza pesare sulla propria famiglia. Non può per­mettersi ricorsi costosi e che molto spesso finiscono nel nul­la. E poi, perché dovrebbe adi­re le vie legali se docenti dichia­rati colpevoli sino all’ultimo grado di giudizio per aver con­dotto concorsi universitari vio­lando le norme non sono mai stati rimossi e hanno continua­to a essere eletti (dai loro colle­ghi!) commissari in nuovi con­corsi?

Io, laureata nel 1990 in Medi­cina e Chirurgia all’Università di Pavia, con due specialità, in Pediatria e in Genetica medica, conseguite nella medesima Uni­versità, nel 2004 ho avuto l’onore di pubblicare con pri­mo nome un articolo sul New England Journal of Medicine i risultati della mia scoperta e cioè che alcune forme di linfo­ma maligno possono avere un’origine genetica e che è dun­que possibile ereditare dai geni­tori la predisposizione a svilup­pare questa forma tumorale. Ta­le scoperta è stata fatta oggetto di brevetto poi lasciato decade­re non essendo stato ritenuto abbastanza interessante dalle istituzioni presso cui lavoravo. Di contro, illustri gruppi di ri­cerca stranieri hanno conferma­to la mia tesi che è diventata ora parte integrante dei loro progetti: ma, si sa, nemo profe­ta in Patria.

Ottenere questi risultati mi è costato impegno e sacrifici: mettevo i bambini a dormire e di notte tornavo in laboratorio, non c’erano sabati o domeni­che…

Lavoravo, come tutti i precari, senza versamenti pen­sionistici, ferie, malattia. Ho avuto contratti di tutti i tipi: borse di studio, co-co-co, con­tratti di consulenza… Come ul­timo un contratto a progetto presso l’Istituto di Genetica me­dica dell’Università di Pavia, fi­nanziato dal Policlinico San Matteo di Pavia.

Sia chiaro: nessuno mi impo­neva questi orari. Ero spinta dal mio senso del dovere e dal­la forte motivazione di aiutare chi era ammalato. Nel febbraio 2005 mi sono vista costretta a interrompere la ricerca: mi era stato detto che non avrei avuto un futuro. Ho interrotto una ri­cerca che molti hanno giudica­to promettente, e che avrebbe potuto aggiungere una tessera al puzzle che in tutto il mondo si sta cercando di completare e che potrebbe aiutarci a sconfig­gere il cancro.

Desidero evidenziare pro­prio questo: il sistema antimeri­tocratico danneggia non solo il singolo ricercatore precario, ma soprattutto le persone che vivono in questa Nazione. Una «buona ricerca» può solo aiuta­re a crescere; per questo moti­vo numerosi Stati europei ed extraeuropei, pur in periodo di profonda crisi economica, han­no ritenuto di aumentare i fi­nanziamenti per la ricerca.

È sufficiente, anche in Italia, incrementare gli stanziamenti? Purtroppo no. Se il malcostu­me non verrà interrotto, se chi è colpevole non sarà rimosso, se non si faranno emergere i migliori, gli onesti, dare più soldi avrebbe come unica con­seguenza quella di potenziare le lobby che usano le Universi­tà e gli enti di ricerca come feu­do privato e che così facendo distruggono la ricerca.
Con molta amarezza, signor presidente, la saluto.

Rita Clementi”

Ci fu la rivolta, senza che volasse uno schiaffo.

Ma tutto ormai (e questa è la tragedia nella tragedia) tutto è finito nel nulla per colpa di un branco di immeritocratici ragazzotti dimaisti che hanno preso letteralmente il potere nel MoVimento (e in proporzione nel Paese) e che ci stanno lasciando nel vuoto spinto.
Non c’è un solo settore che segni un qualche miglioramento o un solo provvedimento (il  416 Ter – goccia nel mare – non può certo bastare) che possa rassicurare che il Piano per il Sud 2030, oggi presentato a Gioia Tauro, non sia offerto, con i suoi oltre 100  miliardi di euro, su un piatto d’argento agli eredi dei tre mitici Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Ma questo non solo è lo stesso discorso ma certamente il più grave di tutti.

Oreste Grani/Leo Rugens