La pandemia non è un temporale ma una questione di scelte sbagliate

Questo slideshow richiede JavaScript.

La pandemia non è un evento naturale come un uragano, un terremoto o un’eruzione vulcanica bensì un evento “culturale” in quanto determinato da scelte compiute da individui o meglio gruppi di idividui. Fin dal manifestarsi delle più antiche epidemie, gli esseri umani hanno compreso che dai comportamenti che si assume di fronte alla malattia dipende il diffondersi del morbo. Oggi appare tanto più vero quanto più la scienza ci ha aiutato a comprendere come un virus si moltiplica o si diffonde.

Questa banale premessa implica che se al comando di una nazione si trova una massa di incompetenti con ogni probabilità le scelte che saranno fatte porteranno al disastro, il che è puntualmente avvenuto, quasi dappertutto in Occidente.

Appare paradossale che la parte del mondo più avanzata dal punto di vista tecnico-scientifico, quindi specialistico, sia quella che sta pagando il prezzo più alto intermini di vite e di Pil, il che obbliga a riflessione profonda.

Poiché nelle democrazie occidentali spetta alla classe politica e a quella dirigente degli organismi statali il compito di vegliare sulla sicurezza nazionale, appare evidente che il fallimento in corso vada a loro imputato, senza se e senza ma.

Detto questo, a chi mi chiede “cosa farei io al loro posto”, risponderò: “ritenere che chi ci ha messo nella buca sia in grado di tirarci  fuori è sbagliato”, quindi…

Al momento più che radunare intellettualità e riflettere su come adattarsi allo scenario futuro, sia esso un dispotismo sia una apocalisse, non posso fare. Aggiungo che la scena del crimine è sotto gli occhi di tutti ma saper leggere gli indizi non è da tutti; ci vogliono grandi investigatori, quindi diffidate di chi vi spiega cosa accadrà se esso appartiene alla schiera dei decisori.

Buona lettura

Alberto Massari

Schermata 2020-04-28 alle 13.29.16

Coronavirus, Bremmer al Corriere: «L’incompetenza di Trump mina l’America, non la democrazia»

Il politologo Usa: «Senza una guida federale saranno i capi delle corporation a decidere se e come ripartire, Con le imprese costrette a ridimensionarsi e automatizzarsi avremo molta disoccupazione: senza forme di redistribuzione della ricchezza ci sarà il distacco dei cittadini dalla politica

di Massimo Gaggi

NEW YORK «Donald Trump non mette in pericolo la democrazia: non è Orbán, non vuole i pieni poteri. Quando ha parlato di total authority sugli Stati dell’Unione era in uno dei suoi momenti d’incontinenza e megalomania: si è rimangiato tutto. Il vero dramma per l’America è la sua totale incompetenza. Il Paese nelle mani di un incompetente nel momento più difficile della sua storia recente tra il virus che fa strage e un infarto dell’economia che impone un ripensamento del modo di funzionare del capitalismo Usa mentre si allarga a dismisura l’area d’intervento dello Stato federale».

Ian Bremmer, politologo e fondatore di Eurasia, il maggiore centro Usa di analisi sui rischi internazionali, è convinto che l’Amministrazione americana, dopo aver tardato a capire la gravità della pandemia, stia sottovalutando di molto anche le sue conseguenze economiche.

Il presidente cambia spesso rotta e ascolta poco i suoi epidemiologi. Gli Stati faranno da soli, ma il sistema produttivo?

«Senza una guida federale saranno i capi delle corporation a decidere se e come ripartire: il presidente può dire quello che vuole ma i Ceo dei grandi gruppi sanno che il momento è molto difficile e non riapriranno le loro aziende finché la situazione non sarà sicura e sostenibile: una ricaduta sarebbe un disastro anche economico».

Una ripartenza in ordine sparso?

«Ogni settore è diverso ma la logica è comune. È stata creata una task force nella Business Roundtable, l’organizzazione dei capi delle grandi aziende, che dà indicazioni basate su tre fattori: la situazione sanitaria valutata in base alle raccomandazioni mediche e alla disponibilità dei necessari test clinici; la preparazione delle azienda in termini di distanziamento sociale, mascherine, sanitarizzazioni; infine, le condizioni ambientali esterne, dai trasporti a scuole e asili per i figli dei dipendenti. È tutto molto complesso, i tempi saranno più lunghi di quelli che la gente si aspetta: non ci sarà la ripresa rapida della quale parla Trump».

Lunghi quanto? Fino al vaccino?

«Credo che la transizione durerà tre anni. Anche quando avremo il vaccino — un anno è la previsione più ottimistica — dovrà poi essere prodotto in miliardi di dosi, distribuito e somministrato».

Due mesi di paralisi economica possono essere una parentesi nella quale vengono disattivare le regole dell’economia di mercato, ma tre anni non richiedono revisioni più profonde che toccano il modo di funzionare del capitalismo?

«Certo. Per questo il vero guaio dell’America è l’incompetenza del suo leader. Mai come oggi serve una guida forte e lungimirante: bisogna andare oltre le divisioni politiche e capire che, con le imprese costrette a ridimensionarsi e automatizzarsi per fare profitti pur producendo molto meno, avremo molta disoccupazione, forse un 10 per cento. Serviranno forme di reddito universale, protezioni per i lavoratori della gig economy, reti di sicurezza sociale: parliamo di un’enorme redistribuzione della ricchezza. Se non lo faremo cresceranno ancora le disuguaglianze, il distacco dei cittadini dalla politica, la polarizzazione. Sono qui i pericoli per la democrazia».

Vede problemi di tenuta del capitalismo?

«Sì. Dobbiamo porci domande essenziali sulla sostenibilità del capitalismo basato sul libero mercato in una democrazia rappresentativa. Non si tratta solo di spesa sociale: lo Stato dovrà sostenere le imprese con denaro pubblico non per due mesi ma per anni. In cambio chiederà loro di riportare in America produzioni trasferite in Asia in outsourcing. Sono cambiamenti epocali, con enormi implicazioni. Che la Casa Bianca non sta preparando a dovere».

Secondo molti in futuro sarò vincente il modello cinese, autoritario ed efficiente. Ma se il gigante asiatico perde il ruolo di fabbrica del mondo cambia tutto…

«Nel mondo G Zero non c’è più un Paese-guida. Finché aveva una forte interdipendenza economica con gli Usa, la Cina non poteva promuovere un modello alternativo. Ora che quei legami si allentano e prevalgono, anche a Pechino, le spinte nazionaliste, aumenta la pressione del modello cinese che si diffonderà, in Asia, nell’Africa subsahariana e, forse, in parte dell’America Latina».

Che ne sarà della leadership americana?

«Gli Usa restano per vari motivi — quelli politici e quelli legati alla difesa, alla tecnologia, all’energia e alla forza del dollaro — il punto di riferimento di buona parte dell’Occidente. Sicuramente del Giappone e, in Europa, di Gran Bretagna, Francia e Germania. Vedremo cosa accadrà nei Paesi del Sud e dell’Est Europa, Italia compresa, molto corteggiati da Pechino».