Torno a scrivere, voce nel deserto: che minchia c’entra Nicola Latorre alla guida dell’Agenzia Industrie Difesa?
Qualche giorno addietro, preoccupato (se non allarmato) dalle voci che davano Nicola Latorre aggirarsi per palazzi ministeriali nel tentativo (temo in via di successo) di accreditarsi come futuro “direttore” dell’Agenzia Industrie Difesa, ho aperto il ragionamento su cosa non dovesse accadere e su cosa sarebbe importante che, viceversa, si decidesse, nell’interesse superiore del Paese. L’attuale direttore è l’ing. Gian Carlo Anselmino che è in scadenza di mandato. Anselmino pare abbia fatto bene sostenuto dalla competenza “scientifica” di un c.v. ineccepibile e da ottimi collaboratori. Perché, spero si abbia chiaro, per guidare quello snodo della Difesa ci vuole competenza ed esperienza consolidata e non qualche anno passato, da politico di carriera, a passeggiare per i corridoi di Montecitorio o del Senato della Repubblica.
Spesso ad “inciuciare”. Spesso da uomo di parte, per molti anni dalemiano.
Ciò a cui abbiamo assistito da troppi anni (quando la politica annaspa, prima di affondare, prova a fare largo alle sue componenti incivili, ribadendo il primato dell’affarismo e dell’incompetenza), almeno in questo caso relativo all’Agenzia Industrie Difesa, da qualcuno che ne abbia l’autorità, andrebbe fermato.
Dare viceversa l’ennesimo segnale che, senza rispetto alcuno per il merito e la competenza, si piazzano politici recuperati dal “termitaio onnivoro“, deprimendo quello che di positivo si evidenzia tra le risorse interne, sarebbe un grave errore che, partendo da una struttura tipicamente civile-militare quale è l’AID, si potrebbe riverberare sull’intero comparto delle Forze Armate che, per certo, non godono di quella serenità che nella fase “storica” ci si augurerebbe.
Un ennesimo sfregio sostanziale che la politica dell’affarismo si prepara ad imporre alla P.A. dove può andare a parare?
Sfregio come quello recente messo in atto quando si è trattato di far prevalere logiche oscure perfino sull’approvvigionamento di “mascherine” escludendo platealmente le Forze Armate e in special modo l’AID?
E se questa nomina fosse la goccia che fa traboccare il vaso nel comparto della Difesa? Se fossi in voi non andrei a rischiare un’altro focolaio in un Paese – che già si regge sull’illecito – per far tornare in gioco Nicola Latorre. Che rimanga dove sta, se sta da qualche parte. E dico lui ma avrei potuto fare altri nomi di questo sistema politico che, strutturato come ci appare, ha bisogno di mezzi finanziari smisurati. Come diceva Italo Calvino nell’apologo sull’onestà nel paese dei Corrotti.
Torno a scrivere, voce nel deserto: che minchia c’entra Nicola Latorre alla guida di un comparto dove la competenza è quasi tutto?
Si preparano tempi difficilissimi, al limite di ciò che si poteva escludere quando il M5S assunse il ruolo di guardiano e pompiere sociale.
Si preparano tempi che nessuno può escludere assumano le forme tipiche di una vera e propria agitazione sovversiva, anticamera di fenomeni di considerevole consistenza numerica che si potrebbero arrivare a classificare come vera e propria anticamera di un incitamento all’inottemperanza delle leggi o a talune di esse.
Durate la fase acuta della pandemia avete assistito ad un esempio di ammirevole disciplina da parte della quasi totalità del popolo italiano.
Evitate di dare per certa questa disciplina e questo rispetto dell’ordine in presenza di informazione via web che continuasse a segnalare gravi fatti corruttivi o di favoritismi di parte.
La Magistratura, esempio recente, è scesa drammaticamente nella stima degli italiani. I politici, da tempo, risultano non pervenuti.
Evitiamo che gli stessi destabilizzino le Forze Armate con scelte solo apparentemente minori ma che si potrebbero innescare (conoscete il significato di innesco?) in un quadro generale che, ad estate in qualche modo superata, potrebbe far svegliare tutti in un incubo peggiore di quello vissuto durante l’assalto pandemico. Che come si intuisce dalla planetarizzazione del fenomeno, non è certo domato.
Oreste Grani/Leo Rugens
NICOLA LATORRE VIEN FATTO RESUSCITARE PER PIAZZARLO ALL’AGENZIA INDUSTRIE DIFESA?
Leo Rugens, sia pur sonnacchioso, marginale e ininfluente come ormai ha consapevolezza di vivere le sue giornate da felice e satollo pensionato, viene raggiunto da una diceria che nella savana si sta diffondendo: a dirigere l’Agenzia Industrie Difesa, i grandi pensatori in servizio permanente effettivo al bene dell’Italia vogliono piazzare l’avvocato Nicola Latorre.
Agenzia industrie difesa è un ente di diritto pubblico controllato dal Ministero della Difesa.
L’agenzia ha il compito di provvedere al coordinamento ed alla gestione degli stabilimenti industriali ad essa assegnati.
Venne istituita nel 1999[ allo scopo di gestire unitariamente “le attività delle unità produttive ed industriali della difesa”, con la missione di eseguire una loro razionalizzazione e ammodernamento e portarle all’economica gestione.
Gli impianti gestiti dall’agenzia possono essere raggruppati in tre settori specifici:
- munizionamento, con gli stabilimenti di:
- Baiano di Spoleto (allestimento e ripristino di munizionamento, demilitarizzazione di munizionamento, revisione di sistemi d’arma, allestimento di parti metalliche del munizionamento, distruzione di mine anti persona a pressione e da esercitazione)
- Noceto (demilitarizzazione di munizionamento, manutenzione delle componenti non elettroniche dei missili Hawk, interventi specialistici presso i reparti operativi)
- Torre Annunziata (produzione di artifizi e collaudi di dispositivi similari, valorizzazione di mezzi terrestri ed aerei ceduti in permuta dall’Amministrazione Difesa)
- manifatturiero, con gli stabilimenti di:
- Firenze (Stabilimento chimico farmaceutico militare, produzione di farmaci orfani, antidoti, materiali sanitari)
- Fontana Liri (produzione di nitrocellulose, nitroglicerina e polvere sferica e laboratorio per l’effettuazione di test e prove)
- Gaeta (dematerializzazione)
- Castellammare di Stabia (produzione di cordami)
- Cantieristica navale, con lo stabilimento di Messina (Arsenale militare, manutenzione, riparazione e modifiche naviglio militare e civile)
Ora un po’ di attenzione alle righe che seguono e al pensiero maligno di Leo Rugens.
Tra le attività indicate nei settori, quella di produzione di materiale farmaceutico effettuata dallo stabilimento di Firenze è rivolta non solo al personale militare ma anche alla popolazione civile: infatti l’Istituto (in collaborazione con AIFA) provvede direttamente alla produzione di penicillamina, mexiletina, ecolestiramina, farmaci salvavita ritirati dal commercio dalle società titolari del brevetto, in quanto considerata antieconomica la loro fabbricazione, in virtù della ristretta platea di consumatori.
Essi sono successivamente venduti a prezzo di costo ai pazienti bisognosi. Inoltre, al fine invece di fronteggiare un eventuale attacco bioterroristico, l’Istituto produce e conserva in 30 magazzini in tutta Italia, diversi antidoti nonché lo ioduro di potassio, necessario in caso di incidenti nucleari. Infine nel 2009 sono state fabbricate 30 milioni di capsule dell’antivirale oseltamivir per prevenire una possibile pandemiadovuta alla diffusione del virus H1N1.
Pandemia dovuta alla diffusione del virus H1N1 mi ricorda qualcosa che ho lasciato scritto da anni in questo luogo telematico. E non sono cose di poco conto. Certamente non questioncelle da affidare ad un dilettante allo sbaraglio (un altro dopo l’uomo delle mascherine Domenico Arcuri) che non mi sembra se ne possa intendere piazzato in una posizione super delicata quale una lettura sia pur superficiale della missione dell’ENTE possa far presumere. Ora più che mai che la struttura è destinata a crescere in modo esponenziale come finalità strategiche e quindi (ecco la parolina magica) come fatturato.
Nicola Latorre che al massimo si è interessato di come si organizzano le cene che il dominus di turno gli chiedeva di predisporre, già si era ritrovato al posto sbagliato nel momento giusto (per lui e il suo C/C) quando lo avevano piazzato, senza competenza alcuna pregressa (mi sfugge veramente il curriculum attinente a quel momento professionale e politico se non che avesse militato nell’organizzazione politica erede di quell’UNIONE del COMUNISTI MARXISTI LENINISTI che un certo piglio organizzativo militaresco lo aveva avuto negli anni Settanta), a fare il Presidente della 4° Commissione Difesa del Senato, potrebbe aver finito il Purgatorio (per motivi che a noi comuni mortali non sono noti, i boss del PD alle ultime elezioni parlamentari del 2018 non lo avevano neanche ricandidato) e ritrovarsi ad essere il Grande manovratore di un organismo delicatissimo denominato appunto Agenzie Industrie Difesa, attualmente guidato dall’ing.Gian Carlo Anselmino, formatosi a suo tempo (è considerato un dirigente competente) in Finmeccanica .
Nicola Latorre (Fasano, 14 settembre 1955) è un politico italiano. Avvocato, sposato con Stella Carparelli (preside dell’istituto Leonardo Da Vinci, Fasano), ha due figli.
Ha ricoperto la carica di assessore e Sindaco del comune di Fasano.
Comincia la sua militanza politica nel gruppo Unione dei Comunisti Italiani. Nel 1972 si iscrive alla Federazione Giovanile Comunista Italiana. Seguirà l’evoluzione del PCI in PDS per poi passare nei DS ed infine aderire al Partito Democratico. Era considerato molto vicino alle posizioni di Massimo D’Alema.
Dal 1998 è responsabile per le politiche istituzionali nella segreteria nazionale dei Democratici di Sinistra. Nello stesso anno è, insieme a Massimo D’Alema e Giuliano Amato, uno dei fondatori dell’Associazione Futura.
Alle elezioni suppletive del 2005 viene candidato al Senato della Repubblica, in regione Puglia, nel collegio uninominale n° 2 (Bari-Bitonto) sostenuto da L’Ulivo (in quota DS), venendo eletto senatore della XIV Legislatura.
Alle elezioni politiche del 2006 è ricandidato al Senato della Repubblica, in regione Calabria (come capolista) ed in regione Puglia (in seconda posizione), nelle liste dei Democratici di Sinistra (in seconda posizione), venendo rieletto senatore della XV Legislatura in entrambe le regioni ed optando per il seggio in Puglia.
Al Senato della Repubblica è vicepresidente del gruppo parlamentare L’Ulivo.
Alle elezioni politiche del 2008 è nuovamente candidato al Senato della Repubblica con il Partito Democratico, in regione Basilicata (come capolista) ed in regione Puglia (in seconda posizione), venendo nuovamente eletto senatore della XVI Legislatura in entrambe le regioni ed optando, come nel 2006, per il seggio in Puglia.
Nel 2008 è cofondatore di Riformisti e Democratici.
Alle elezioni politiche del 2013 è candidato per la quarta volta al Senato della Repubblica, in regione Puglia, nelle liste del Partito Democratico (in seconda posizione), venendo nuovamente eletto senatore della XVII Legislatura.
Il 7 maggio 2013 viene eletto Presidente della Commissione Difesa del Senato della Repubblica.
Non è più ricandidato in Parlamento nel 2018. In seguito allo scadere del suo mandato parlamentare, inizia a collaborare con Il Messaggero, di cui diventa editorialista.
Nell’estate del 2005 Latorre fu intercettato in una conversazione con Stefano Ricucci mentre questi, assieme alla Unipol di Giovanni Consorte, stava scalando la Banca Nazionale del Lavoro (BNL) bypassando le normali procedure di mercato (OPA). In un’altra occasione D’Alema chiese a Consorte di mettersi d’accordo con Latorre. Latorre fu intercettato mentre organizzava l’incontro a cena a casa sua. In una telefonata con Consorte, Latorre si lasciò andare in uno sfogo personale riguardo all’allora segretario del partito Piero Fassino, di cui disse “non capisce un tubo”. Per Latorre è stato ipotizzato dal GIP Clementina Forleo il concorso in aggiotaggio nell’ambito della scalata alla BNL organizzata dalla Unipol.
Latorre, intervistato da Repubblica Tv sulla divulgazione delle intercettazioni, commentò:
«Sono curioso di vedere quali motivazioni saranno date allo spargimento di veleni. Del resto in questi giorni abbiamo già letto molta spazzatura.» |
Il 14 novembre 2008, durante la trasmissione Omnibus sulla rete La7, la regia del programma scorse un suo comportamento controverso: il senatore suggeriva, su un foglio che cercava poi di far sparire, all’esponente del partito avverso PdL Italo Bocchino un’argomentazione per attaccare Donadi dell’IdV sulla questione, ampiamente dibattuta, della Commissione di Vigilanza per le Telecomunicazioni.
Oreste Grani/Leo Rugens
Latorre è pugliese, quindi questo convegno a Bari è “roba sua”. E proprio nella sessione dove c’è lui, guarda un po’ chi c’è…
https://go-bari.it/cultura-e-spettacoli/altri-eventi/4087-partito-democratico-a-bari-la-festa-nazionale-delleconomia-e-del-lavoro.html
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Dopotutto, Latorre era finanziato da CEPU, cioè l’antenato (non nobile) di Link Campus
http://orianomattei.blogspot.com/2012/12/per-i-politici-della-sinistra-italiana.html?m=0
Anche lui pelato… sembra il cugino di Minniti!
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Il fatto è che, oltre allo stesso barbiere, frequentano (non solo loro) anche le stesse fondazioni (del resto, è Pelato 1-che l’ha fondata)
https://www.analisidifesa.it/2017/03/convegno-icsa-anche-litalia-deve-avere-compagnie-di-sicurezza-private/
Non ricandidato da Renzi? Mbe’, è comprensibile: voleva mettere le mani su un settore che Attanasio voleva per sé (e per il suo amico Carrai)
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Il fatto che passasse “pizzini” ad Italo Bocchino trova la sua ragione in ALFREDO ROMEO, che li finanzia entrambi.
https://9dicembreforconiperlasovranita.blogspot.com/2017/11/prima-pago-poi-incasso-inchiesta-de.html?m=1
Effettivamente, per uno che dovrebbe gestire appalti, il legame con uno invischiato nella vicenda Consip, che aveva un avvocato come STEFANO VINTI che, secondo quanto riportano i quotidiani nazionali, è indagato perché sospettato di conprare le sentenze “a pacchetti di dieci”, non è proprio il massimo!!! Oltre tutto l’avvocato VINTI è stato pure rinviato a giudizio per corruzione perché avrebbe dato mazzette all’ad di Roma Metropolitane!
A proposito: chissà che fine ha fatto quella inchiesta…
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Da Bocchino a De Benedetti (ma si tratta di una cordata che ai figli non piace: alle origini del recente “parricidio”?)
http://orianomattei.blogspot.com/2011/03/su-il-giornale-contraerea-bisignani-il.html?m=1
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A proposito di Repubblica…
Dell’ex direttore EZIO MAURO si parla, in questi giorni, in relazione all’audizione si Nino Di Matteo in Commissione Antimafia e alla TRATTATIVA NELLA TRATTATIVA, che sarebbe stata prospettata dall’ex presidente della Repubblica GIORGIO NAPOLITANO.
Per caso, ho trovato questo articolo che lega MARIO MORI, VALERIO MORUCCI ed EZIO MAURO, giornalista che evita di fare domande….
http://www.lavocedellevoci.it/2018/03/14/moro-mori-morucci-quando-la-storia-diventa-una-docu-fake/
Mario Mori, tra l’altro, ha più volte dichiarato che, per lui, gli unici politici competenti tra quelli con cui ha avuto a che fare sono FRANCESCO COSSIGA e MARCO MINNITI.
Strane le vie del caso: Leorugens riprende a domandarsi perché NICOLA LATORRE, anche CLAUDIO SIGNORILE proprio adesso si pone delle domande, esce pure fuori questo strano ruolo di EZIO MAURO.
E il Cuculo, allungato sul divano, cercando tutt’altro, rinviene casualmente un filo che li lega…
MAGIA???
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Tanto per capirci, mi riferivo a questo
https://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2020/06/20/ingroia-amnesie-mauro-raccontai-anni-strana-proposta-quirinale_8HxYETqFonWSqM1Xfsx1ZN.html
SI SPIEGA ANCHE IL COMPORTAMENTO DI UN GIORNALISTA SERVO CHE HA SILENZIATO SU REPUBBLICA ILLECITI FIRMATI DAL COGNATO DI GIORGIO NAPOLITANO, GUIDO FABIANI
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UNIVERSI QUANTICI
ilcentro.it/abruzzo/elia-valori-e-folli-parlano-di-intelligence
“Ne discuteranno con lui l’editorialista di Repubblica Stefano Folli; Oliviero Diliberto, docente alla Sapienza di Roma; Nicola Latorre, presidente della Commissione Difesa del Senato; Sergio Santoro, presidente della VI sezione del Consiglio di Stato e Luciano D’Alfonso, presidente della Regione Abruzzo.”
corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/economia/2010/9-novembre-2010/vie-cina-secondo-elia-valoriil-manager-presenta-suo-ultimo-saggio-1804128810344
Alla presentazione del volume, organizzata dalla Cattolica Popolare, parteciperanno Antonio Azzollini, sindaco di Molfetta e presidente della commissione Bilancio del Senato, Nicola Latorre, vicepresidente del gruppo Pd al Senato, Enrico Cucchiani, presidente di Allianz Spa, e Umberto Vattani, presidente dell’Istituto nazionale per il commercio estero. Modererà l’incontro Paolo Messa, fondatore e curatore della rivista mensile Formiche. In questo saggio Valori punta l’attenzione su una realtà che conosce dall’interno da decenni grazie alla sua attività di manager e alla sua cattedra all’Università di Pechino.
19luglio1992.com/appaltopoli-nella-tana-del-toro/
E c’erano i suoi numerosi contatti del 2005 con GIANCARLO ELIA VALORI, di cui erano stati acquisiti i tabulati. Riguardavano il periodo delle scalate bancarie, quando Toro aveva aperto il procedimento parallelo a quello di Milano. Negli stessi giorni in cui Toro si sentiva con Elia Valori quest’ultimo era in contatto con diversi dei protagonisti delle stesse scalate, da Caltagirone a Gavio a Ricucci, fino a politici come Nicola Latorre
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QUESTA È UNA PERLA FRESCA FRESCA….
ildenaro.it/la-formula-strategica-del-mediterraneo-le-societa-dello-spirito-e-la-geopolitica/
“……Ci siamo fatti minacciare, per la Libia, dagli alleati, che ci facevano capire che avrebbero bombardato i siti ENI, se non avessimo bombardato anche noi quel Gheddafi che proprio i nostri Servizi militari avevano selezionato per il golpe anti-britannico in Libia, che fu pensato in un albergo di Abano Terme. 11 Ecco, se obbediremo ai nostri concorrenti e agli Usa, non saremo mai più presenti nel Mediterraneo, dove è nata la civiltà romana contro Cartagine e l’Imperium con Scipione, detto appunto l’Africano, a cui si fa cenno nel nostro Inno Nazionale, e che è del tutto essenziale, il Mediterraneo, per la nostra sopravvivenza strategica, economica, culturale e perfino geografica.”
Su Formiche non gliela pubblicano 🤣🤣🤣 o gliela pubblicano?
EPPURE NULLA È COME SEMBRA….UNIVERSI QUANTICI….
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E Latorre (ma è Minniti travestito?) proprio ieri scriveva di Libia sul Messaggero
https://mobile.twitter.com/Latorrenicola/status/1273844274279440384
Ma lo avranno avvertito che da quelle parti c’è il Sultano?
Oppure, seguendo il ragionamento di Oreste, si prospetta qualche gustoso business da quelle parti (Italian business vs Turkish warfare?? È questo che ha in mente il nostro Ministro degli Esteri?) ??
Chissà se ne sa qualcosa il sottosegretario Tofalo …
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Abano Terme/Disinformazia/Architetti Quantici/L’ Avvocato furbacchione/Kissinger associates/Supercazzole rotanti:
corriere.it/economia/09_marzo_18/tronchetti_libia_b2c40760-13e2-11de-9b77-00144f02aabc.shtml
LIBYAN INVESTMENT AUTHORITY (LIA)
Tronchetti nel board del fondo libico
Il numero uno di Pirelli ha accettato di far parte dell’advisory committee
MILANO – Marco Tronchetti Provera, presidente di Pirelli, entra a far parte dell’advisory committee del fondo sovrano libico Libyan Investment Authority (Lia).
Tronchetti ha accettato la richiesta proveniente direttamente dallo stesso fondo. Nel comitato figurano già importanti personaggi dell’economia e della finanza internazionale, tra cui il banchiere Lord Jacob Rothschild e Sir Howard Davies, direttore della London School of Economics. Il fondo, assieme alla Central Bank of Libya e alla Libyan Foreign Bank, detiene una partecipazione in Unicredit e si è detto alla ricerca di occasioni di investimento in Italia.
lastampa.it/blogs/2011/09/04/news/gheddafi-collaborava-con-mi6-e-cia-e-non-solo-come-e-diventato-il-nemico-n-1-dell-occidente-1.37251415/amp/
Gheddafi collaborava con MI6 e Cia, e non solo. Come è diventato il nemico n.1 dell’Occidente?
Tony Blair nella tenda di Gheddafi nel 2004, ben prima di Berlusconi. E legami del regime con Cia e MI6, che soffiava addirittura al Raiss i nomi dei dissidenti in GB. Ora ci sono le prove, i documenti trovati a Tripoli e svelati dall’Indipendent e ripresi dalla Stampa.it In realtà era già era stato scritto da varie parti, anche da Undeblog il 10 aprile scorso. La novità oggi è apprendere quando e perché il dittatore libico sia stato scaricato dall’Occidente, col quale aveva avuto rapporti amichevoli e collaborativi ben al di là delle relazioni fra intelligence. Almeno da quando – nel 2004, appunto – aveva consegnato le centrifughe, rinunciando ai progetti nucleari (e mal gliene incolse). L’anno prima era cominciata la guerra all’Iraq di Saddam e Gheddafi temeva di essere il prossimo.
Il disgelo del 2004 e gli stretti rapporti con la GB.Peschiamo dal blog dell’analista canadese Andrew Gavin Marshall che sulle cose libiche ha condotto un’analisi dettagliata basata su notizie pubblicate dai giornali mainstream, ogni volta citati e linkati in nota, a cui rimandiamo.
La Libia di Gheddafi era stata finalmente liberata dalle sanzioni economiche dell’Onu che l’avevano colpita nel 1992, come punizione per l’attentato terroristico al volo 103 della Pan Am, l’oscuro caso Lockerbie – sebbene la sua colpevolezza non fosse mai stata provata definitivamente. Da quel momento ebbe molte relazioni nascoste con società e personalità straniere, britanniche prima di tutto, ma anche americane, francesi e italiane .
Cadute le barriere commerciali, il Dipartimento del Commercio americano “cominciò a funzionare da intermediario d’affari degli Stati Uniti. Società come Halliburton, Boeing, Raytheon, ConocoPhillips, Occidental e Caterpillar cercavano di mettere una base nel paese. Tuttavia ci furono vari problemi e lo sfruttamento da parte delle multinazionali venne via via fermato I Gheddafi domandavano loro di sfruttare il paese in associazione con società statali (e condotte dalla famiglia Gheddafi), le corporations resistevano, il Dipartimento del Stato (secondo cables diplomatici) cercava di intervenire ma spesso non si trovò un accordo. E però imprese come Occidental Petroleum, Petro-Canada, il fabbricante di armi canadese SNC Lavalin, riuscirono a penetrare nel mercato libico.
Coi cugini britannici in ogni caso le cose andarono alla grande.
Tony Blair, che aveva avuto parte attiva nel “nuovo corso” col dittatore, facilitò l’emergere di interessi industriali e finanziari in Libia. L’allora Primo Ministro in persona e un ex funzionario di alto livello dell’MI6 entrato alla BP aiutarono la petrolifera inglese a entrare in Libia. Relazioni sociali e d’affari vennero stabilite con la famiglia del Raiss. Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi già allievo della London School of Economics, intratteneva intimi rapporti col Segretaripo al Commercio Lord Mandelson e nell’estate 2009 entrambi furono ospiti di Lord Jacob Rothschild nella sua villa di Corfù. Fino al 2009 Lord Rothschild fu un consigliere del LIA, l’Autorità Libica per gli Investimenti, agenzia statale creata nel 2006 per diversificare gli investimenti dei proventi di gas e petrolio. Tony Blair, che dopo aver lasciato da primo ministro trovò lavoro alla JP Morgan, ha continuato ad andare in Libia come rappresentante della megabanca americana e il figlio di Gheddafi si è riferito a Blair come a un “amico di famiglia”.
La JP Morgan Chase nel gennaio 2011 ha riferito di “avere tra le mani molti contanti della LIA e una parte delle riserve della Banca Centrale Libica. Secondo un finanziere libico, nell’estate 2008 “una gran percentuale dei fondi LIA erano affluiti nei mercati interbancari attraverso la banca centrale libica, che aveva dato mandato a banche internazionali di investire la liquidità.
Torniamo al 2004. Già una decina di giorni dopo che le sanzioni contro la Libia erano state rimosse, una delegazione segreta di funzionari britannici si precipita in Libia per aprire la strada agli interessi del british business e non solo. Tra questi ci sono Lord Foster della Thames Bank, Lord Gutrie di Craigiebank, già capo staff dell’Esercito e il finanziere Lord Rothschild, che porta con sé il figlio Nathaniel. Come riferito dal Times, 29/8/2009, “in gioco c’era l’accesso alle riserve libiche di petrolio e gas e l’opportunità di approfittare dei 90 miliardi $ del fondo sovrano libico, e della Libian Investment Authority” di cui Lord Rothschild, come abbiamo visto, diventa poi consigliere.
Quando Blair e la sua missione segreta andarono in Libia nel 2004, l’incontro “produsse ottimi contratti per la Shell” e “un mese prima di lasciare da premier, Blair incontrò di nuovo il colonnello Gheddafi a Tripoli nello stesso momento in cui la BP firmò un accordo con la Libyan National Oil Company”, scrive a sua volta il Daily Mail, 5/6/2010. E l’ex premier britannico, come si è detto, favorì affari a favore di JP Morgan. Ma quando comincia la guerra, nel 2011, gli “amici” di Gheddafi in Occidente gli voltano le spalle e una nota del suo ufficio nega che l’ex premier abbia avuto” rapporti di sorta o un ruolo di consigliere con alcun membro della famiglia Gheddafi, il governo libico o la LIA”.
La svolta del 2009. Le risorse libiche usate da Gheddafi come arma politica.
Gheddafi potrebbe aver firmato la sua condanna nel 2009 – ipotizza Andrew Gavin Marshall – quando il suo governo riunisce 15 alti dirigenti di multinazionali del petrolio e dell’energia e chiede loro di pagare il conto – pari a 1.5 miliardi di $ – per il risarcimento imposto alla Libia alle vittime dell’attentato Pan Am su Lockerbie. Il Raiss cercava di far pagare a coloro che traevano vantaggio dalla ricchezza della Libia, vale a dire le società straniere, i costi della punizione inflitta al suo paese attraverso le sanzioni che ne avevano duramente colpito l’economia. Funzionari libici avvisarono le petrolifere che se non avessero aderito alla richiesta, ci sarebbero state “serie conseguenze”.
Nel gennaio di quell’anno Gheddafi minaccia: il petrolio libico “dovrebbe forse essere posseduto da società nazionali libiche o dal settore pubblico, così da controllare i prezzi del petrolio, controllare la produzione petrolifera e magari fermarla”. “La Libia si sta forse prendendo la guida dei suoi amici Venezuela a Russia e si sta preparando a lanciare una nuovo round di nazionalismo energetico?”chiede la rivista economica Forbes che, immaginando la risposta, scrive: “Il solo pensiero fa rabbrividire Conoco Phillips, Marathon Oil, Occidental Petroleum, Amerada Hess e Boyal Dutch Shell. Tutte hanno fatto in Libia massicci investimenti”. I giornali libici discutevano tutti della possibilità di nazionalizzare .
Perdere la Libia, il maggior produttore di petrolio dell’Africa con riserve che supererebbero anche quelle della Nigeria, rappresenterebbe un’ enorme danno per gli interessi dell’Occidente . Nel marzo 2009 i libici stavano cercando di convincere tre petrolifere americane che operavano nel paese a rivedere i contratti, dando alla Nazione Nord Africana una quota maggiore della loro produzione. Così come avevano già fatto con Petro-Canada, l’italiana ENI, la spagnola Repsol e l’americana Occidental.
Nel marzo 2010 la stampa mediorientale scrive che “la Libia è una forza economica con cui fare i conti”, avendo sfidato sia l’Europa che l’America e “ha avvisato le petrolifere Usa che i loro contratti sono in pericolo”. Le corporations del petrolio hanno sempre maggiori difficoltà nel fare affari in Libia e, come riferisce un esperto, molte società stanno cercando di uscirne.
Alle richieste di rinegoziare in termini sempre più duri i contratti si aggiungono episodi come l’espulsione di società Svizzere e perfino il fermo di due uomini d’affari svizzeri dopo che la polizia di Ginevra aveva arrestato uno dei figli di Gheddafi . E la derisione del Raiss da parte del portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Philip Cowley, col suo seguito di offese e richiesta di scuse (mai arrivate).
Come spiega un commentatore di un think tank americano, l’uso del petrolio come leva politica rappresenta una svolta nella leadership libica: Dopo decenni di isolamento, le riserve libiche e il ricco fondo sovrano del valore di almeno 60 miliardi $ gli hanno dato un potere di influenza immenso verso i governi occidentali. L’Italia riceve circa un quarto della sua energia dalla Libia e molti altri paesi europei contano sul fatto che le riserve di gas libico li liberino dalla dipendenza russa. “Il futuro delle nuove scoperte in realtà è ridotto a un piccolo numero di società – come Bp, Exxon Mobil, Shell – che hanno massicci programmi di esplorazione per i prossimi anni. “ e tuttavia “ per ora le petrolifere stanno lasciando, invece di arrivare”.
A ciò si aggiunge una baruffa diplomatica nel novembre 2010, quando la Libia espelle un diplomatico americano “per aver rotto le regole diplomatiche”.
In ottobre Chevron e Occidental Petroleum non rinnovano le licenze, in vigore dal 2005, e lasciano il paese.
Cosa è saltato in mente a Gheddafi? Si era montato la testa, o la alzava come rappresaglia per i torti finanziari subiti?
Il Raiss viene da sempre considerato “un pazzo” imprevedibile. Chiaramente, dopo aver stabilito relazioni importanti con le élites straniere, da JP Morgan a Rothschild, al principe Andrew della Famiglia Reale britannica a Tony Blair, aver reso “amici” suoi e della famiglia personaggi al top della finanza e delle petrolifere occidentali, e dopo che queste élites lo avevano aiutato a ottenere investimenti e avere accesso ai mercati occidentali, quando si è sentito abbastanza sicuro ha cominciato a usare la sua nuova leva finanziaria e petrolifera come un’arma politica. Così spiega il nostro blogger.
Però stranamente omette di raccontare gli “incidenti” di percorso degli investimenti libici nelle banche occidentali, e americane in primis. Investimenti miliardari che, durante la crisi, e con la fame di liquidi da parte delle banche, sono di colpo sfumati nel nulla, ed erano (sono ancora?) oggetto di cause legali internazionali. Vedi Underblog 11/7/2011. Sentendosi tradito dagli occidentali, il Raiss potrebbe aver deciso di indurire la sua posizione come rappresaglia, o addirittura di cambiare strada.
Fatto sta che a fine 2010 tutto pare deciso.
Ne racconta un giornalista blogger collaboratore abituale di Asia Times, ma più estremo del primo, che parla dell’insurrezione libica e dell’”intervento umanitario” occidentale come di una “rivoluzione made in France”. Con britannici e americani defilati (ma non meno interessati, come si è visto). Una “guerra francese”, così come il CNT sarebbe “un’invenzione francese” del piccolo Napoleone Sarkozy.
Una guerra che sarebbe cominciata nell’Ottobre 2010, come ha già riferito Asia Times Online. Quando il capo del protocollo di Gheddafi, Nuri Mesmari, defeziona e fugge a Parigi dove sarebbe stato avvicinato dai servizi francesi e sarebbe stato preparato un colpo di Sato coinvolgendo i da sempre ribelli della Cirenaica. Sarko aveva una bel po’ di ragioni per vendicarsi di colui che viene irridentemente chiamato Big G.
Le banche francesi avevano detto a Sakozy che Gheddafi stava per trasferire miliardi di euro a Banche Cinesi. Poteva certo essere di esempio ad altri paesi arabi o ricchi fondi sovrani.
Le corporations francesi gli avevano riferito che Gheddafi aveva deciso di non comprare più gli aerei da combattimento Raphale, e di non coinvolgere più i francesi nella costruzione di una centrale nucleare.
La Total, il gigante energetico francese, aspirava a una fetta molto maggiore della torta energetica libica, che sul fronte europeo veniva mangiata in gran parte dall’Eni, grazie al fatto che il Premier Silvio “bunga bunga” Berlusconi, un amico certificato di Big G, aveva siglato un complesso accordo con lui (qui si dimentica che le buone relazioni dell’Eni con la Libia sono di lunghissima data).
Il colpo di Stato sarebbe stato perfezionato in dicembre a Parigi, la prima dimostrazione popolare in Cirenaica in febbraio – largamente istigata dai cospiratori – viene sottratta ai protagonisti. Il filosofo Bernard Henry Levy vola con la sua camicia bianca a Bengasi per incontrare i “ribelli” e telefona a Sarkozy, virtualmente ordinando di riconoscerli come legittimi. Seguono le note vicende.
Insomma.
Big G avrebbe dovuto vedere il cartellino rosso, grande come una casa. Da quando il primo ministro Mossadeq fu deposto dalla CIA in Iran nel 1953, la regola è non contrastare the big oil, le grandi petrolifere. Per non parlare del sistema finanziario/bancario, promuovendo idee sovversive. E Gheddafi aveva cercato di portare via i petrodollari e di vendere all’Africa l’idea di una moneta unificata, il dinaro d’oro, idea sostenuta da molti paesi africani. Così almeno riferisce il nostro blogger.
E qui ci fermiamo. Tralasciando un’altra parte importante della novella, quella geopolitica, che toccherebbe il ruolo dell’Africom , il comando Nato per l’Africa creato da George W. Bush, osteggiato da Siria, Libano e Libia, che proprio in Libia dovrebbe trovare una sua base. Sentinella a contrasto dell’avanzata della Cina nel continente nero dove, fra l’altro, la mano d’opera un giorno sarà ben più a buon mercato che in Asia.
ilsole24ore.com/art/notizie/2011-09-25/libia-colloqui-segreti-blair
Libia: sei colloqui segreti tra Blair e Gheddafi
Come sono belli gli affari. Soprattutto quando si riesce ad aggirare la giustizia. Stavolta, però, non si parla dell’Italia ma della Gran Bretagna dove l’ex premier Tony Blair, appena dimesso dall’incarico si era precipitato, naturalmente per ragioni umanitarie, a incontrare segretamente Gheddafi. Sei faccia a faccia in Libia tra il 2008 e il 2010 rivelati sul numero odierno del Sunday Telegraph, che chiede all’ex leader laburista di chiarire se negli incontri è mai stato discusso il rilascio dell’attentatore di Lockerbie Abd el-Basset al Megrahi. Cinque incontri, infatti, sono avvenuti nei 14 mesi che hanno preceduto il rilascio di Megrahi dalla Scozia, tra il 2008 e il 2009.
La vicenda è una delle più opache della storia della diplomazia britannica. Il 21 dicembre 1988 un Boeing 747-121esplose in volo per l’esplosione di un esplosivo al plastico sopra la cittadina di Lockerbie, nella regione di Dumfries e Galloway, in Scozia. Nel disastro aereo morirono 270 persone, 259 a bordo dell’aereo e 11 persone a terra colpite dai rottami del velivolo. La maggioranza delle vittime (189) era di nazionalità statunitense. La giustizia britannica, competente per territorio, arivò a giudicare due sospetti, membri dei servizi libici: Abd el-Basset al-Megrahi e Lamin Khalifah Fhimah. Gli accusati erano stati consegnati dopo estenuanti trattative con Gheddafi. Il 31 gennaio 2001, Megrahi fu condannato all’ergastolo mentre Fhimah fu prosciolto. Il 20 agosto 2009 Megrahi fu rilasciato perché malato di cancro. Il 4 luglio 2010, lo stesso medico che gli aveva dato non più di tre mesi di vita disse che l’uomo avrebbe potuto vivere altri 10 anni (in effetti è ancora in vita, anche se malato).
La sorprendente vicenda è riemersa durante le sommosse in Libia: Il 23 febbraio 2011, intervistato dal quotidiano svedese Expressen, il ministro libico della giustizia Mustafa Muhammad Abd al-Jalīl ha ammesso le responsabilità dirette del colonnello Gheddafi nell’ordinare l’attentato. Non solo: nel giugno 2009 lord Mandelson, allora numero due del governo Brown, partecipò a una festa per il compleanno di Saif Gheddafi (figlio del colonnello e volto “moderno” del regime) in Montenegro, con Oleg Deripaska, l’ oligarca russo, Nat Rothschild e Lakshmi Mittal, l’indiano che è il quarto uomo più ricco al mondo. Poco dopo alle imprese britanniche vennero riconosciute concessioni pegtrolifere in Libia. Due mesi dopo Megrahi era libero.
I contatti segreti sollevano interrogativi anche su altri interessi di affari di Blair: una visita nel gennaio 2009 avrebbe coinciso con gli sforzi della banca J.P. Morgan (che paga Blair due milioni di sterline all’anno in consulenze) di negoziare un accordo tra la Libyan Investment Authority (Lia) e una società dell’oligarca russo Oleg Deripaska, un amico dello stretto collaboratore dell’ex premier, Lord Mendelson. L’intesa da molti miliardi di dollari alla fine non andò in porto.
È anche emerso oggi che Mark Labovitch, un noto banchiere reclutato come chief operating officer della sua società di investimenti Firerush Ventures, si è dimesso dopo appena un anno. E intanto sulla testa dell’ex premier pendono le rivelazioni di Channel 4 sul suo ruolo in contratti multimilionari in Palestina.
Il programma Dispatches svela che, nei panni di rappresentante del Quartetto, Blair aiutò a convincere il governo israeliano a aprire le frequenze radio in modo che una società di telefonia mobile, Wataniya, potesse operare in Cisgiordania, oltre ad adoperarsi per lo sviluppo da parte di British Gas di un grande giacimento di gas naturale al largo di
Gaza. Sia Wataniya che British Gas sono clienti di J.P. Morgan.
ilfoglio.it/articoli/2011/06/21/news/gheddafi-il-beduino-64895/amp/
“Colonnello, come conciliate un simile disprezzo per il mondo occidentale e gli affari che fate con i suoi maggiori esponenti, con Gianni Agnelli, ad esempio?”. “Gianni chi?”, risponde stupito il rais. “Gianni Agnelli, il presidente della Fiat”. “La Fiat? La mia azienda, my company!”. Con questi pochi tratti di penna Oriana Fallaci ha scritto il miglior ritratto di Muammar Gheddafi, quando lo intervistò il 2 dicembre del 1979. Tutto è “mio” per il dittatore di Tripoli, che poco si interessa ai particolari, anche se sono della statura di Gianni Agnelli.
L’iperego del rais non ha soltanto componenti di natura caratteriale, ma anche di matrice etnica. Perché tutto, dall’inizio alla fine, nella vita di Muammar Gheddafi è marcato da una concezione beduina e tribale non soltanto del suo paese, ma del mondo intero. Al colonnello non poteva neanche passare per la testa che la Fiat, pagata con i fondi sovrani dello stato libico, non fosse la “sua” fabbrica, di proprietà personale, come tutto quanto toccava e muoveva. Le guerre (anche quella che avrebbe voluto dichiarare alla Svizzera, colpevole di avergli maltrattato un figlio capriccioso), gli affari, i commerci, la diplomazia, il terrorismo dal 1969 a oggi sono stati monopolizzati dalla concezione beduina di Muammar Gheddafi. La tenda beduina che il rais piantava dappertutto nelle sue visite di stato, fosse villa Doria Pamphilj o nel giardino di Palais Marigny, adiacente all’Eliseo, è stato il suo rivendicato ed efficace simbolo-feticcio.
Gheddafi non ha mai aspirato a essere e ad agire come un capo di stato (concetto che gli è sempre stato estraneo), men che meno come un leader politico o religioso, o come l’amministratore di una immensa ricchezza in petrodollari. Tutte queste funzioni si riassumevano, confusamente, come confuso fu il suo Libro verde, nel fatto di essere il rais, il capo della tribù più potente del suo paese, che doveva dominare, con le buone o con le brutte, le tribù concorrenti con un reticolo di alleanze, tradimenti, matrimoni, trappole e furbizie tese a mantenere la loro sottomissione. A partire dal millenario punto di forza dei leader beduini: il controllo dei pozzi. Un tempo di acqua, ora di petrolio. Con una estraneità totale, nativa, culturale, per tutto quanto obbligasse a “lavorare la terra”, a impiantare opifici e fabbriche. Il suolo, per un beduino, va dominato soltanto per quel che danno le sue viscere. Al meglio. Null’altro.
Il tutto immerso in un elemento di mistero, nel quale si nasconde la risposta al clamoroso errore sulla sua resistenza (e sulla sua capacità di sfuggire al killeraggio missilistico) compiuto dalla coalizione voluta da Nicolas Sarkozy, David Cameron e Barack Obama. Il mistero riguarda la struttura decisionale, il funzionamento di un quadro di comando libico che ha sempre dimostrato di essere in grado di fare fronte a una serie complessissima di operazioni. Si guardi al cruciale biennio 1975-1977 e si vedrà come il colonnello, con una struttura di potere assolutamente monocratica, è riuscito contemporaneamente a condurre due guerre (Ciad e Egitto), acquistare la quota di minoranza nella Fiat, dirigere il rapimento dei ministri Opec a Vienna e infine a delineare la nuova ideologia del regime, lanciando con una grande operazione mediatica il suo confuso Libro verde. Il tutto avviando complesse trame terroristiche, vuoi con Abdu Nidal e Settembre Nero (in raccordo con la Stasi della Ddr), vuoi finanziando la Rote Armee Fraktion, la Eta basca e l’Ira irlandese. Una mole poderosa e intricata di iniziative e dossier, gestiti tutti attraverso il Diwan della “tenda beduina”, che ne ha garantito, oltre ogni analisi e aspettativa, la sopravvivenza, nonostante più di tremila operazioni della Nato.
La vita di Muammar Gheddafi, nato a Sirte il 7 giugno 1942, fu segnata, secondo gli agiografi libici, da un episodio drammatico, ovviamente impossibile da verificare: mentre giocava con due cugini esplose una mina – forse italiana, forse inglese – che straziò i due parenti e lo ferì a un braccio. Se vero, l’episodio potrebbe spiegare alcune cose. La sua formazione scolastica fu affidata alla madrassa di Sirte, in cui fu preso dall’entusiasmo per il vento che allora percorreva tutto il Maghreb: il panarabismo di Gamal Abdel Nasser, suo punto di riferimento forte, per alcuni anni a venire. Iscritto all’Accademia militare di Bengasi, si specializzò in Gran Bretagna (dove apprese discretamente l’inglese, che però ha sempre finto di ignorare in tutte le visite ufficiali, così come l’italiano, peraltro).
Molti analisti – non senza ragione – considerano questa specializzazione all’estero come prova certa dei legami del futuro rais con i servizi segreti inglesi, che avranno un ruolo determinante nel golpe del 1969. A 27 anni fu capitano dell’esercito e subito entrò in contatto con un gruppo di giovani ufficiali che – su sollecitazione discreta vuoi dei servizi inglesi, vuoi del Sid italiano – il 26 agosto 1969 organizzò un incruento colpo di stato contro il re Idris. Sono evidenti le ragioni che spinsero inglesi e italiani – saldamente già radicati in Libia con i loro impianti estrattivi – a cercare un interlocutore meno vacuo e assenteista (e per di più odiato dai tripolitani, perché membro di una dinastia della Cirenaica) al timone della Libia. Erano fortissime anche le ragioni che motivarono i giovani ufficiali, scandalizzati per la decisione di re Idris di non partecipare alla guerra contro Israele del 1967 – in un paese che reagì alla sconfitta dando vita a pogrom sanguinosi contro la storica comunità ebraica.
Il golpe riuscì senza spargimenti di sangue. Gheddafi si mise subito al comando, a fianco di Abdessalam Jallud – suo braccio destro sino al 1993, quando cadde in disgrazia – e di Abdel Fattah Younis al Obeidi, che, dopo anni spesi a occuparsi della repressione interna, oggi comanda gli insorti di Bengasi (appartiene alla tribù degli Harabi della Cirenaica, alla testa della ribellione). Il colpo di stato fu accolto con indifferenza nelle cancellerie europee e salutato con simpatia dalla sinistra comunista, Pci in testa, in quegli anni convinta – su impulso sovietico – che il nasserismo di cui Gheddafi fu inizialmente alfiere fosse il massimo del “progresso”, la punta di diamante del “fronte antimperialista”, in un contesto in cui Israele era definito “quinta colonna dell’imperialismo americano” e i palestinesi ricoprivano il ruolo di vietcong.
La matrice panaraba e quindi ferocemente antiisraeliana (e antisemita) del giovane colonnello fu indubbiamente determinante nella sua ascesa, ma si rivelò di breve durata. L’unificazione tra Libia, Egitto e Siria, che Gheddafi proclamò solennemente nel 1972, non fu mai realizzata a causa della assoluta nebulosità del progetto e della totale diffidenza di Anwar el Sadat, che da allora in poi definì il rais “quel pazzo di Tripoli”.
Identica sorte ebbe il tentativo concordato l’8 gennaio del 1974, da Gheddafi e dal tunisino Bourghiba, che, dopo un incontro improvviso in un hotel di Djerba, annunciarono la fusione dei due stati e la nascita della Repubblica arabo islamica che univa Libia e Tunisia. Il progetto, finito rapidamente nel dimenticatoio, non è mai decollato. Sono due fallimenti che giocheranno un ruolo esiziale sul futuro economico dell’Africa mediterranea.
L’impostazione tutta ideologica e verticistica del panarabismo, sommata alla superbia personale dei dittatori, fece fallire le fantasiose unificazioni statali e creò strascichi polemici e diffidenze (anche guerre, come vedremo) tra i paesi nordafricani. Ne conseguì una politica di frontiere chiuse e la totale assenza di relazioni economiche, investimenti reciproci, commerci, creazione di infrastrutture comuni che – come è avvenuto in Europa – grazie alla formidabile possibilità di finanziamento da petrolio, avrebbe potuto trasformare questi paesi in una potente area di sviluppo, invece che in quella riserva di sottosviluppo cui sono ridotti oggi (Libia inclusa).
Da subito, il nuovo regime lasciò trapelare il tratto più profondo, istintivo, innegabile del nuovo rais: la ferocia. Innanzitutto e sempre nei confronti del suo stesso popolo, con le centinaia di impiccati senza processo (anche per aver fischiato Saadi, il figlio calciatore di Gheddafi, allo stadio), con la negazione di qualsiasi spazio di libertà, con la persecuzione (omicidi mirati e torture incluse) dei suoi potenziali avversari, con la negazione della pur minima libertà di stampa e di pensiero e anche con episodi grotteschi, come quello dell’imprigionamento per ben otto anni e della successiva condanna a morte di sei infermiere bulgare, liberate nel luglio 2007, accusate di avere volutamente infettato di Aids alcuni pazienti. Ferocia dispiegata con incredibile fantasia e attivismo sul piano esterno, a partire dall’odio fanatico, con chiare venature di antisemitismo, per Israele, stella polare della sua politica estera. Odio che si è concretizzato – dato indicativo della strategia gheddafiana – nel finanziamento delle organizzazioni terroriste più spregiudicate e sanguinarie e mai – neanche nel 1973 – nel contrasto militare in campo aperto. Odio che ha scavato anche un ulteriore abisso nei confronti della leadership dell’Arabia Saudita (già motivato dai legami religiosi dei wahabiti con la Senussiyya, la confraternita della Cirenaica, legata a re Idris e centro delle attività secessionistiche di Bengasi), accusata per la sua alleanza con gli Stati Uniti e per lo stesso piano di pace con Israele propugnato da re Fahad.
Gheddafi è stato dunque essenzialmente un uomo capace e straordinariamente feroce, che si è circondato di uomini feroci. Lo dimostrò nel modo con cui saldò i conti con l’Italia: nel momento stesso in cui siglava contratti faraonici con l’Eni, Gheddafi emise, il 21 luglio 1970, un decreto di confisca di tutti i beni – inclusi i contratti Inps – dei 20 mila italiani residenti in Libia e li espulse in massa, imponendo la data limite per la fuga del 15 ottobre del ’70. La decisione del rais è in linea con la sua feroce furbizia beduina: non colpì affatto l’Italia, con cui anzi intrattenne fruttuosi affari, ma depredò tutti gli italiani che aveva sottomano. Pratica, peraltro, “copiata” dal mentore Nasser, che nel ’56 aveva fatto una mossa simile, ma in modo più sottile, nazionalizzando tutte le imprese e le attività degli stranieri, italiani in testa.
Stesso esito per questa diaspora forzata dei nostri connazionali: la rovina e la chiusura della rete di piccole industrie, aziende agricole moderne, attività artigianali meccanizzate impiantate dagli italiani che, nazionalizzate o confiscate, nel giro di pochi mesi andarono in rovina con un immenso danno economico per l’Egitto, come per la Libia. Naturalmente, la Libia di Gheddafi nazionalizzò anche le proprietà petrolifere straniere, ma non destò stupore, perché il fenomeno coinvolgeva in quei primi anni 70 tutti i paesi produttori e fu subito assorbito con una rapida trattativa che elargiva alle società petrolifere concessioni redditizie (scelta imposta anche dal fatto che nessun paese produttore aveva la minima intenzione di investire i profitti da petrolio nei costosissimi impianti di estrazione, trasporto e raffinazione).
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C’è anche DIFESA SERVIZI SPA, il cui ad è scaduto dal 2013. Gestisce il patrimonio immobiliare della Difesa, tra cui, ad esempio, il grande arsenale di Taranto (aree molto molto appetibili!!), dove proprio ARCURI ha bandito un concorso per la riqualificazione della Città Vecchia (al 3° posto il cognato di Enrico Garaci, CAMILLO NUCCI che, tra l’altro, era anche il progettista dell’aeroporto internazionale di Frosinone (mai realizzato, ma costato 5 milioni di denaro pubblico della Regione Lazio di Marrazzo), al quale era interessato (project financing) un personaggio come PIETRO DI MICELI, il cui nome rricorre in molte inchieste su mafia/massoneria/servizi, in cordata con RICCARDO FUSI (quello della “cricca” delle grandi opere) assistito dall’avvocato STEFANO VINTI (legale, oltre che di ALFREDO ROMEO e di FRANCESCO CORALLO, figlio del boss GAETANO e proprietario di GLOBAL STARNET/BPLUS, anche della figlia del progettista LUCIA NUCCI, imputata a Roma per il reato di falso in atto pubblico), attualmente rinviato a giudizio per corruzione insieme all’ad di Roma Metropolitane e indagato in seguito ad un’intercettazione di ITALO BOCCHINO in cui questi sosteneva che l’avvocato Vinti comprasse le sentenze “a pacchetti di dieci”.
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Difesa_Servizi
La figlia di CAMILLO NUCCI, LUCIA NUCCI, insieme ad uno dei redattori dei criteri della gara per il concorso di Taranto, PAOLO AVARELLO, partecipa anche ad un progetto di riutilizzazione dell’area dell’aeroporto militare di GUIDONIA.
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Se un 64° di quanto affermi risultasse vero…. Buon fine domenica che per quelli della mia generazione è sempre domenica
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Lo è!! 100% e documentato!!
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Qui Di Miceli, Fusi, aeroporto di Frosinone
https://www.comitato-antimafia-lt.org/lareroporto-di-frosinone/
Il progettista è CAMILLO NUCCI (ho un file pdf col progetto e anche di quello di Guidonia, in cui LUCIA NUCCI risulta collaboratrice di PAOLO AVARELLO, che è quello dei criteri del concorso di Arcuri a Taranto – tra l’altro: fratello di MARCO AVARELLO, di ECOSFERA, vedi GRUTTADAURIA e sentenze varie cricca del terremoto dell’Aquila)
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Qui STEFANO VINTI e RICCARDO FUSI
https://www.lanazione.it/firenze/cronaca/2010/02/20/295270-quattrocchi_ingeneroso.shtml
Tra l’altro nell’articolo precedente si parla di MASSIMO FINI (fratello di Gianfranco), che è il direttore scientifico del SAN RAFFAELE (ANGELUCCI) e ENRICO GARACI ne è il presidente. E STEFANO VINTI è il difensore di CORALLO al Tar.
Ciao! Ho il frigo vuoto e vado a mangiarmi una pizza!
Fammi sapere se Ermellino (tarantina?) è interessata a documentazione su patrimonio immobiliare Difesa (almeno 2 atti di convegno!!)
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Certo che sarà interessata. Tieni conto che per 64° intendo misura editoriale cioè un 64° di un foglio UNI A4. Ma questo è un altro discorso.
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