Franco Bernabè e la presidenza dell’ILVA 

Oramai è certo che Franco Bernabè sarà, tra un paio di settimane, Presidente dell’ILVA. Draghi (e non solo lui) ha deciso che la super patata bollente vada lasciata nelle mani di Bernabè (e non solo). Non credo che ci sia questione più complessa che quella rappresentata da come arrivare a non disperdere il patrimonio rappresentato dal tentativo (certo che ci sono macroscopiche luci ed ombre) di creare un ciclo autarchico di produzione siderurgica, cioè fare acciaio in Italia, ereditando/coltivando le scelte di una classe dirigente che, all’inizio degli anni Ottanta del XIX secolo pensò che senza il possesso di una evoluta siderurgia non si sarebbe potuto impostare alcun disegno di riscatto nazionale. 

Faccio riferimento alle radici dell’argomento perché a questo marginale e ininfluente blogger piacciono date e coincidenze. Era infatti il 10 marzo del 1884 quando quattro signori (Breda, Bon, Sconocchia, Rinaldi) entrarono nello studio del notaio Contessa, a Stroncone, località in provincia di Terni, e stipularono la costituzione di una società denominata SAFFAT (Società Anonima Forni e Fonderie di Terni) allo scopo di fabbricare acciaio e ferro, utilizzando alti forni e fonderie di ghisa, assumendo concessioni e imprese di condutture di gas e di acqua.

Acciaio, gas, acqua. Siamo ancora a questo.

Ma la coincidenza di date a cui facevo riferimento è che fu il 16 maggio del 1884 che Stefano Breda (con il resto del gruppo dirigente) che assunse la presidenza della società. Un 15/16 maggio di molti molti molti anni dopo Franco Bernabè, diventerà presidente dell’ILVA. Per riprendere un cammino o trovare delle soluzioni intelligenti.

Il 15 febbraio di questo tormentato 2021 abbiamo voluto pubblicare un post dedicato non tanto all’ILVA nei guai, come sappiamo essere, ma alla “nobilitate” di Mario Draghi alle prese con un tale complesso, transdisciplinare, problema. 

Il passo compiuto, la nomina di Bernabè, rassicura sulla volontà di non arrendersi. Come Draghi (in questo momento lasciate perdere altre e più sofisticate considerazioni sulle storie personali e professionali di questi uomini) anche Bernabè è di quelli che io chiamo persone morali. 

Morali e forti di una formazione internazionale senza la quale dal vicolo cieco in cui sembra ormai finito il “mostro sputafuocotarantino, non se ne potrà uscire. Auguri presidente Bernabè. Anzi, auguri a tutti e due perché il buon andamento della vicenda ILVA legherà in modo determinante la sorte di entrambi. Una sfida ambiziosa pertanto e una speranza (piccola ma esiste) per i cittadini di Taranto, per l’Italia mediterranea, per una lettura intelligente di quella fame d’acciaio che si delinea nuovamente nel mondo. Produzione che va portata a termine in modo lungimirante e sostenuto da una visione bioemulativa senza la quale ogni sforzo sarà vano. Produzione che prioritariamente andrà riorganizzata in “piena luce”.

Questo, tra gli altri, è il primo insegnamento della Natura: agire in piena luce e grazie alla luce

Oreste Grani/Leo Rugens  


QUI SI PARRÀ LA TUA NOBILITATE

O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate; 

o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, 

qui si parrà la tua nobilitate.

Inferno 2, 7-9

Commento di Natalino Sapegno: E neppure v’è orgoglio in quel verso famoso: qui si parrà la tua nobilitate {v.9}, che vuol dire in sostanza: qui avranno campo di mostrarsi, se ci sono davvero, tutte quelle doti di intelligenza, di sapienza artistica, di verità, che il poeta non piú esordiente ritiene di possedere.

Umberto Bosco e Giovanni Reggio per Qui… nobilitate suggeriscono più semplicemente: si vedrà ciò che vali.

In un senso più generico, l’espressione – diventata proverbiale – “qui si parrà la tua nobilitate” può essere resa appunto con “qui sarà messo alla prova il tuo valore” e si vedrà di cosa sei capace.

E intendo scrivere di Draghi, perché “quella degli altri”, oggi sopravvissuti nel Governo dei Migliori (a cominciare da Luigi Di Maio all’epoca non ancora imboscato alla Farnesina e finendo al tarantino Roberto Garofoli) abbiamo visto quanto sia stata inadeguata alla complessità della sfida. Sfida di un intero territorio (Taranto e la sua gente) impegnato in una “transizione” economica e culturale “ad altro”. 

Quante ILVA, quante “Palazzina LAF” sono implicite nella roboante definizione di “transizione” da un modo di lavorare ad un altro? 

Da qualche mese in alcuni post facevo riferimento al termine “transizione” per richiamare l’attenzione dei miei 64 lettori (sono stabili dopo la crescita esponenziale post Draghi) su quanto poteva accadere nel mondo del lavoro e non solo. In realtà mi avvalevo di poche cose che per conto mio avevo appreso negli oltre settanta anni di vita e molti pensieri messi a punto e ben esposti da Sergio Bellucci, intellettuale complesso di cui altre volte ho fatto cenno. 

Per ragionare della crisi dell’ILVA e quindi della città di Taranto o, meglio ancora, della sua affranta e vessata popolazione, me ne vado in Umbria, a Terni, al cerchio temporale che incluse la scelta di dare vita ad un luogo dove fabbricare acciaio.

Perché me ne sia andato a quegli anni e a Terni spero che sia chiaro subito a tutti: sto cercando di raccapezzarmi, ignorante in tutto come ritengo di essere, sui perché si mette su un “mostro” sputafuoco come un’acciaieria. Cerco analogie. Mi incuriosisce trovare i moventi personali ed economici che devono esserci necessariamente  dietro a tale titanica impresa. Parto inoltre dalla SAFFAT perché sono stato amico di Pompeo De Angelis che la lasciato scritto nella sua Storia di Terni, quinta parte, “Dall’acciaieria alla Seconda guerra mondiale” alcune considerazioni che possono aiutare ad interpretare non solo ciò che è accaduto in Umbria ma cosa, in epoca successiva, ha preso corpo nelle Puglie. 

Nasce l’Acciaieria

Creare un ciclo autarchico di produzione Siderurgica, produrre acciaio in Italia, divenne l’aspirazione fondamentale della classe dirigente all’inizio degli anni Ottanta del XIX secolo. Senza il possesso della la siderurgia non poteva completarsi il disegno del riscatto nazionale.

Il 10 marzo 1884, Breda, Bon e due ternani, Sconocchia e Rinaldi, entrarono nello studio del notaio Contessa di Stroncone e stipularono la costituzione di una società denominata SAFFAT (Società Anonima Forni e Fonderie di Terni). Lo statuto diceva: “Lo scopo della Società è la fabbricazione dell’acciaio e del ferro, l’esercizio degli alti forni e fonderie di ghisa, l’assunzione di concessioni e imprese di condutture di gas, di acqua e di altro, con la facoltà di acquisire stabilimenti congeneri, prendere e concedere cointeressenze in consimilari stabilimenti e imprese, assumere e partecipare in imprese per estrazione di minerali e combustibili, acquistare terreni ed erigervi edifici che possano conferire agli scopi sociali, fare in una parola, senza eccezioni, quello che si crederà opportuno allo sviluppo e applicazione delle industrie dell’acciaio, del ferro e della ghisa.”

Stefano Breda assunse la presidenza della società e, il 16 maggio, nominò Cassian Bon direttore delle nasciture fabbriche. Nel frattempo vennero sistemati in modo speculativo i conti finanziari.

Quando Cassian Bon comprò gli Alti Forni Lucowich i capitali della fabbrica semifallita furono valutati 482 mila lire, ma la nuova Società stabilì il suo capitale nominale in 800 mila lire, praticamente raddoppiando sulla carta il loro valore. I beni immobili di detta fabbrica valevano 252 mila lire, nel 1881. Una perizia di Sconocchia e Rinaldi, tre anni dopo, li ricalcolò in 2 milioni e 400 mila lire. Breda poté creare sulla base di questa stima azioni da 500 lire. Gli atti non vennero immediatamente depositati alla cancelleria del Tribunale di Spoleto e pertanto non furono controllati in attesa di una commessa del governo.
Breda, come da accordi precedenti, avanzò la proposta al Ministero della Marina di una fornitura di 8.600 tonnellate di acciaio per corazze di navi da guerra, che venne accettata e resa effettiva con anticipo governativo di 3 milioni e 200 mila lire, garantito da una ipoteca su Gli Altiforni della Stazione. Nell’ipoteca, la piccola fabbrica ex Lucowich ottenne, da parte del ministro Benedetto Brin, una valutazione ancor più consistente di quella già esagerata di Sconocchia e Rinaldi. Così gli atti furono formalizzati con la dichiarazione di un capitale di 6 milioni di lire. C’è chi ha detto che Breda trasformò la ghisa in oro. Dopo di che intervennero anche capitali bancari.

Ben più complicato si dimostrò il processo di trasformare la ghisa in acciaio. Lo scopo iniziale della SAFFAT era di fabbricare piastre per la flotta da guerra, in metallo omogeneo e di grande spessore, resistenti alla penetrazione dei proiettili. Ciò in un paese dove esistevano solo una trentina di piccoli forni a legna artigianali che arrivavano complessivamente ad appena 30.000 tonnellate annue di prodotto ferroso lavorato. In Inghilterra, nel decennio 1850 – 1860, la produzione siderurgica era di 3 milioni di tonnellate annue in altiforni a coke’.

Chi intendeva creare una Acciaieria a Terni partiva da zero in un settore in cui la complessità e l’altezza tecnologica era senza pari con altri rami dell’industria. I costruttori ternani cominciarono a sciamare per l’Europa per farsi una idea dell’acciaio, dato che la loro precedente esperienza di ingegneri non arrivava a tanto. Cassian Bon e l’ingegnere Bernard Pètot visitarono le Officine Schneider di Le Creusot, considerate le migliori del mondo nel campo delle corazze per navi da guerra. A Le Creusot si adoperava il maglio per la fucinatura. Poi Petot e l’ing. Costant Dodement si recarono in Inghilterra dove fucinavano non con il maglio ma con la pressa. La francofonia di questi ingegneri fu condizionante per la scelta del maglio.
Le presse furono anch’esse introdotte nel progetto, ma come ausiliarie: una da 6 mila tonnellate per sagomare e una da 2 mila tonnellate per rettificare le corazze.
Inoltre il signor Enrico Schneider, proprietario de Le Creusot, fornì altri ingegneri e personale dirigente, offri istruzioni ed informazioni, per cui l’origine del nuovo stabilimento fu alla francese.
Un italiano, l’ing. Bartolomeo Bartoli venne incaricato delle opere civili e un ternano, l’ing. Attilio Coletti, delle costruzioni ferroviarie. Quest’ultimo era il figlio di Ottavio Coletti di cui ci siamo occupati.
La fucinatura coinvolge grandi macchine. Si decise di dotare l’acciaieria di 1 convertitore Bessemer per trasformare la ghisa in acciaio mediante soffi d’aria che fanno bruciare il carbonio e il silicio; di montare 5 forni Martin Siemens che potevano far colare lingotti fino 115 tonnellate; di predisporre una fonderia per getti d’acciaio; di impiantare la laminazione anche per prodotti ferroviari. Mentre avanzava la costruzione, si cominciò a discutere, seppure copertamente, sulla convenienza del sito “Conca Ternana”. Qualche dubbio era venuto. La lontananza dai confini offriva la sicurezza militare, ma la distanza dal mare e la mancanza di collegamenti con un porto o per ferrovia, o per via navigabile, rendeva difficile rifornirsi di coke. Breda previde un alto forno a coke a Civitavecchia: si valutò di spostare il convertitore Bessemer sempre a Civitavecchia dove poteva arrivare il ferro dall’isola d’Elba. Venne comprato anche il terreno, ma il progetto fu giudicato soltanto “discreto”, vale a dire bocciato.
I fondatori commisero il loro primo grande errore: i finanziatori, i seguaci, i consiglieri politici di Breda rinunciarono alla cosiddetta “acciaieria a ciclo integrale” in cui le fasi del processo dalla materia prima alla trasformazione e alla produzione sono connesse: la ghisa viene prodotta sul posto e lavorata fino al laminatoio senza farla mai raffreddare del tutto, facendole perdere stato di malleabilità gradualmente.
A Terni fu applicato invece il processo “a carica solida”, ciclo che comincia con l’introduzione nei forni di ghisa e rottami di ferro per essere “decarburati”, per poi passare a sezioni successive. Questo secondo metodo comportò l’importazione di pani di ghisa, invece di produrla in loco.
Con il forno a coke e i convertitore Bessemer a Civitavecchia il ciclo integrale sarebbe stato possibile, ma la conca ternana avrebbe perso la sua centralità e sarebbero stati sentiti Campofregoso che temeva l’attacco via mare, Brin, che aveva deciso con una idea analoga, gli ingegneri che sostenevano l’importanza fondamentale della forza idraulica.
Al posto del coke, si scelsero altri combustibili quali la legna dei boschi cedui della Valnerina, del Cicolano e la lignite e le torbe di Morgnano e di Sant’Angelo a Spoleto e di Colle dell’Oro a Terni. Il fattore più favorevole per la grande industria a Terni, era stato dichiarato, doveva essere la Cascata delle Marmore, mai capi dell’Acciaieria si accorsero che bastava una quantità modesta di energia idraulica e che la potenza necessaria al funzionamento dei macchinari era inferiore al 5% della potenza resa disponibile dalla natura fluviale. La Cascata delle Marmore verrà sfruttata a dovere soltanto dopo il 1922, quando sarà utilizzata per produrre e vendere energia elettrica trasportabile a grande distanza.
Si progettò al momento una condotta forzata di 6 chilometri e mezzo dell’acqua del Velino per far lavorare 46 motori idrodinamici, 7 turbine, vari generatori elettrici d’illuminazione e compressori d’aria per i magli e le gru. Per tutto ciò bastavano ed avanzavano 5 metri cubi al secondo. Appariva soddisfacente il reperimento di manodopera, sulla scia tracciata dall’ingresso di maestranze per le fabbriche ai margini del Canale Nerino.
Il punto della Conca in cui impiantare l’opificio venne individuato in un angolo adiacente alla strada per la Cascata delle Marmore, tra il fiume Nera e il torrente Serra, a ridosso della Fabbrica d’Armi e di Gruber. Si ampliava così la zona industriale ad Est della città, al termine di un rettilineo, che aveva il punto diametralmente opposto in Piazza Tacito. Fu acquistata un’area rurale di circa 200 mila metri quadri su cui bisognava spostare la terra per oltre 500 mila metri cubi, mettere in sito 5.750 tonnellate di tubi in ghisa, avere 125 mila metri cubi di muratura per fondazioni ed elevazioni, 6 mila metri cubi di muratura refrattaria per forni e camini.
La direzione di questi lavori venne assunta dall’ing. Constant Dodement, che elaborò 2 mila disegni di piante topografiche ed ebbe a disposizione fino a 2 mila operai, con orari di giorno e di notte, in una fase stakanovista, che durò quattro mesi.
Per prima cosa, fu creato un collegamento ferroviario fra la Stazione, gli adiacenti Alti Forni ex Lucowich e il nuovo apparato, in modo che i chilometri di tubi in ghisa necessari per l’acquedotto e per funzioni minori dell’Acciaieria furono forgiati nella vecchia fonderia.
I binari, a questo scopo, coprirono una distanza di 2 chilometri e mezzo. Complessivamente le rotaie interne dell’Acciaieria si estenderanno per circa 15 chilometri. Infine una fonderia provvisoria fu istallata in loco prelevando macchinari dallo stabilimento della Stazione, così da non dover trasportare in treno pezzi di ghisa superiori alle 100-150 tonnellate.
Il lavoro di maggiore dimensione fu la fusione della sottoincudine del grande maglio: a Le Creusot la sottoincudine era di 850 tonnellate, fusa in sei pezzi, a Perm, in Russia, era di 665 tonnellate e fusa in un sol pezzo. Altre “chabottes” altrettanto grandi non esistevano in Europa. Più é grande la chabotte più pesante può essere il colpo della mazza.A Terni, si vollero superare i record: si decise per una sottoincudine da 1000 tonnellate fusa in un sol pezzo. L’ing. Pètot ne curò la realizzazione.
Fu approntata una fossa, contornata da un muro dello spessore di cinque metri. Il vano misurò m.7,50 per 6,50 e m. 4,80 di profondità e funzionò da camera di fusione.
Una “Monografia” della SAFFAT del 1889 ricorda così l’eccezionale fusione: “La sera del 13 settembre 1885, essendo ultimate le operazioni relative alla formatura, furono versate in essa tonnellate di ghisa fusa allo scopo di riscaldarla ed ultimarne la prosciugazione, e la mattina del 14 settembre di buon’ora si cominciò la fusione.
In quel giorno e nello spazio di 12 ore, ben 283 tonnellate di ghisa furono fuse all’Acciaieria mediante i due forni a manica della fonderia provvisoria, ed altre 359 tonnellate vennero fuse alla Fonderia e, a mezzo di locomotive trasportate sul posto e versate dentro la formatura.
Alla sera il calore prodotto da questa enorme massa di ghisa liquida era tale che si dovette per prudenza sospendere la fusione. Il 17 settembre la parte fusa della sottoincudine era ancora perfettamente liquida; la fusione venne ripresa e ultimata nello 993 stesso giorno.

Mentre veniva gettata la ghisa liquida, se ne aggiungevano pani solidi che si disfacevano e amalgamavano nel bagno, fino a far raggiungere alla sottoincudine il tonnellaggio previsto. La massa incandescente impiegò 6 mesi a raffreddarsi e a solidificarsi in un blocco unico. Procedendo, si fuse l’incudine e il martello che doveva colpire il lingotto. Infine fu possibile intraprendere il montaggio dell’insieme. Sopra l’incudine e il sottostante blocco di ghisa venne elevata una torre di 18 metri, che sollevò le 100 tonnellate del maglio.
Al gigante fu dedicato il più grande ambiente della città: una pagoda ottagonale con una diagonale di 54 metri ed una altezza massima di 45 metri, progettata dall’ing. Vanzetti, costruita in ferro come la Tour d’Eiffel, copriva l’attrezzatura. Nella nuova cattedrale di Terni si venerò il maglio più grande del mondo.
La struttura impiantistica dell’intero complesso era composta da dodici tettoie per le lavorazioni di forgiatura.
Due piazzali servivano da deposito per le materie prime e i prodotti finiti. Un altro capannone ospitava il laminatoio; un altro gruppo di fabbricati era dedicato al tornio. In una zona non coperta ci fu una vasca di 6 metri di diametro e 7 di profondità, riempita di olio d’oliva in cui si temprava l’acciaio. Inoltre si possono ricordare due gruppi di gassogeni per le necessità termiche. Da ultimo, una palazzina con torre conteneva le macchine per la luce elettrica, un laboratorio chimico e gli uffici amministrativi e tecnici. I venti ettari di zona industriale vennero recintati da un muro di mattoni.
Era anche accaduto che sotto le zappe e le vanghe degli sbancatori, che livellavano i terreni, che scavavano fondamenta e buche, fossero apparsi i resti di una necropoli villanoviana.

Breda diede ordine di conservare in un locale della fabbrica le suppellettili funerarie e Luigi Lanzi’, ispettore dei monumenti e degli scavi, si preoccupò di classificare i reperti, ma gran parte del materiale venne disperso e gli oggetti di maggior pregio, quali le spade e i bronzetti, vennero dati in omaggio ai visitatori dell’acciaieria in costruzione.
Seguitarono ad avvenire scoperte di tombe fino al 1887, nella zona fra il maglio e il canale Sersimone e, a quel punto, la SAFFAT cedette al Municipio di Terni quanto era rimasto dei ritrovamenti affinché si costituisse un museo civico. Da una relazione del 1908, firmata da Luigi Lanzi e A. Pasqui, più che di un Museo Civico (che il Comune non si costituì), ci è rimasta la memoria della necropoli.
La necropoli dell’Acciaieria si estendeva sotto il colle di Pentima sul lato destro del Nera.
Pasqui e Lanzi fanno notare che il cimitero “forse appartiene ad una città che non aveva sede nell’attuale Terni- conserva con rito costante gli allineamenti a filari, l’orientamento di questi, la disposizione dei cadaveri e della suppellettile e la copertura dei ciottoli in forma di piccoli tumuli appartiene a quel periodo in cui usavasi l’inumazione – conserva traccie di un periodo antecedente d’incenerimento, in modo che sempre più viene a confermarsi l’opinione, da me altre volte espressa, che nel costruire le fosse siansi distrutti i puticoli, ma religiosamente conservate le ceneri ed anche qualche cinerario disponendolo entro la medesima tombae ed ai piedi del cadavere inumato“.
Una nuova civiltà dell’acciaio cancellava bronzo e del ferro dei primordi.
A due anni dall’inizio venne installato il maglio, nel maggio del 1886, furono accesi i forni Martin e fu laminata la prima rotaia; in ottobre colò il primo lingotto per corazze. A gennaio dell’anno successivo l’intero stabilimento cominciò a funzionare e ai primi di luglio del 1887 uscì la corazza di prova per la nave “Ruggero di Lauria”.
L’inaugurazione delle Acciaierie avvenne con la visita del re Umberto I (accompagnato dal Ministro dell’Interno Crispi, dal Ministro della Guerra Bertolé-Viali e dal Ministro dei Lavori Pubblici Saracco) il 12 luglio 1887. Il treno reale arrivò a Temi alle ore 6,19. Il viaggio del corteo fra le fonderie dell’Acciaieria ternane cominciò all’ex Lucowich e proseguì, sulle rotaie di raccordo interno fino “alla città del ferro, dell’acciaio e della lignite”, (così descrisse l’impianto un giornalista presente). Gli ospiti non trascurarono alcun reparto. Il maglio rimase fermo e il momento più interessante fu quello della colata di un lingotto per una corazza della nave “Francesco Morosini”. All’atto del congedo Umberto I si intrattenne a lungo con Cassian Bon e con gli ingegneri francesi, poi visitò la Fabbrica d’Armi.
Al pro sindaco di Terni, senatore Alceo Massarucci, venuto ad ossequiare il sovrano insieme ai deputati Franceschini e Amadei e a presentargli i problemi della città, il re promise che avrebbe sostenuto una cooperativa per le case degli operai. Il treno dei visitatori ripartì alle 17,35.
L’importante visita non fu motivata da ragioni inaugurali, ma dalla presa d’atto di una crisi. A seguito del contratto con il Ministero della Marina del 16 maggio 1884, la SAFFAT doveva consegnare per il 1888 corazze per 8.600 tonnellate, ma al momento della visita reale ne aveva forgiate meno di un migliaio di tonnellate.
Il bilancio si era chiuso con un disavanzo di 1 milione di lire. I due istituti di credito nazionali, la Società di Credito Mobiliare e la Banca Generale, che maggiormente avevano concorso al finanziamento dell’Acciaieria bloccarono gli esborsi e iniziarono il recupero del credito.
La Banca Generale, che teneva una succursale a Terni, fu quella che sopportò l’onere maggiore. Poche settimane prima dell’arrivo di Umberto I, ci fu il licenziamento di 250 dei 3.000 operai occupati. Il Governo dovette intervenire per creare altri fondi su ulteriori ordinazioni di corazze navali e sostenere anche la Società Veneta su cui la crisi della Terni si riflesse. Il Ministero della Marina anticipò altri 5 milioni e 800 mila lire, che aggiunti ai 3 milioni e 200 mila lire del 1884, alzarono l’esborso pubblico a 9 milioni.
In contropartita la SAFFAt doveva, con contratto ministeriale del 14 luglio 1888, produrre altre 3.000 tonnellate di corazze. Ma era a tutti evidente che l’Acciaieria non poteva stare ai patti. Al 1° luglio ’88, la siderurgia ternana consegnò infatti 1613 tonnellate facendone mancare 6987 rispetto ai contratti. Inoltre venne innalzato di 300 lire per tonnellata il prezzo delle corazze.Con un atto addizionale al contratto del 14 luglio 1888 venne stabilito che l’aumento di prezzo aveva effetto retroattivo.
Vennero simultaneamente stanziati altri 3 milioni di lire per cui l’anticipo totale dello Stato alla Terni sali a 12 milioni. La Banca Nazionale, confortata da queste cifre, organizzò “un consorzio di sovvenzione” fra istituti di credito, composto di tre banche, e garanti la situazione debitoria. La visita del re e dei ministri era servita a promettere gli interventi straordinari.
Questi avvennero a tambur battente e il più straordinario fu una legge del Parlamento che elevò i già alti dazi sul ferro e sull’acciaio di provenienza estera, creando una protezione al ciclo a carica solida di Terni e alla sua cattiva gestione.
A novembre, il magnate tedesco Albert Krupp, invitato dal governo Crispi, venne a visitare l’Acciaieria e dichiarò di essere rimasto colpito dalla grandiosità dell’impianto.


A dicembre, si collaudarono le corazze costruite al poligono di tiro di La Spezia e quest’esame fu infine superato positivamente. L’ammiraglio Cottrau, capo della commissione di collaudo, telegrafò al Ministero della Marina: “Spezia, 5 dicembre. Primo tiro ha dato risultato eccellente. Penetrazione ed effetto percussioni minori di quelli constati in prove precedenti. Si è proceduto al tiro contro la seconda corazza. Il secondo tiro, benché troppo alto, ha dato egualmente un risultato perfetto. Penetrazione 18 cm. prima corazza, 25 la seconda. Metallo eccellente, nessuna spaccatura, protezione del cuscino completa. La Commissione è completamente soddisfatta.” La qualità sembrò dunque sufficiente, ma la quantità rimase irrisoria.Quando fu valutata in sede politica la vicenda de “la Terni”, venne in mente a qualcuno che Breda nella “Relazione letta all’Assemblea della Società Veneta, 8 giugno 1884” aveva dichiarato di voler  “emancipare la patria dall’estero”, ma lo stesso commentatore notò che l’Acciaieria di Terni “si è fatta sussidiare dalla patria per turare i buchi dei suoi cattivi affari.”
L’Acciaieria, pur essendo privata e con profitti per i privati, fu statalizzata nelle perdite e si trasformò decisamente in una fabbrica militare legata alle commesse dei Ministeri della Marina e della Guerra.
Quindi dovette farsi italianissima, Drastico fu l’intervento sui quadri direttivi dell’azienda.
Furono sostituiti in blocco Dodement, Pètot, Brucker, Clavarino. Vanzetti diede le dimissioni per contrasti con il direttore generale Rognetta. A capo dell’opera di risanamento comparve Alessandro Casalini, vice presidente di Breda, con pieni poteri sia sull’industria veneta che su quella ternana. Cassian Bon venne relegato in un angolo e si attivò in speculazioni locali.
Un documento del Ministero della Marina del 1888 afferma che la SAFFAT si trovava in cattive acque perché “aveva sperperato una parte dei suoi capitali in speculazioni azzardose e rovinose di miniere.” Ma nonostante le contraddizioni elencate, l’Italia entrò nel novero delle grandi nazioni industriali.

Pompeo De Angelis

La SAFFAT si trovava in cattive acque, quindi. Come l’ILVA. Come quasi tutta l’Italia.

Continua e parleremo dell’ILVA.

Oreste Grani/Leo Rugens