Non tutte le ciambelle riescono con il buco. Anzi

Riuscire a capire come “tutto” si tenga è la cosa che in alcuni momenti della vita della Repubblica sembra impossibile. 

Riuscire a capire chi siano alcuni personaggi e quale funzione in realtà svolgano dentro e fuori le istituzioni è ancora più complesso. 

Che l’avvocato Pietro Amara sia figura classificabile elemento di rango come manovratore nelle vicende legali e illegali attinenti non pochi centri nevralgici del potere, non credo che nessuno possa dubitarne. Amara racconta, da anni e in vario modo, cose gravi e ritengo che lo stia facendo, avendo studiato legge, in piena consapevole responsabilità.  

Perché poi quanto fatto ed ammesso da Amara non abbia influito nella vicenda giudiziaria (tutti assolti) ENI/Nigeria/corruzione internazionale/altro, è un mistero misterioso. E a proposito di tale “mistero misterioso” ritengo sia compito, ora più che mai, di giudici (anche di una qualche residuo politico onesto) capire alcune dinamiche. Amara comunque direi di ritenerlo la prova certa che alcuni processi, in Italia, si indirizzano e, una volta indirizzati, si arriva ad attuare il palpeggiamento di alcuni magistrati che ci stanno ad essere “toccati”. 

Dicevo che “non tutte le ciambelle riescono con il buco” mutuando questo proverbio popolare dal capitolo 11° del libro ENIGATE di Claudio Gatti, raccolta di documenti sulle tangenti internazionali (ma tali non dovrebbero più essere considerate dal momento che tutti – e ho scritto tutti – gli imputati sono stati strassolti) che l’ente petrolifero è stato accusato di aver pagato. Il libro, non lo dimenticate, è uscito nell’ottobre del 2018, con l’impegnativa prefazione di una persona seria quale Milena Gabanelli

A pagina 158-159 del lavoro di Gatti si legge:

“Secondo Maspero, Amara gli avrebbe inviato un messaggio WhatsApp in cui lo invitava a chiamare Lipera, assicurandolo tra l’altro del fatto che «Max sa tutto»>.

Chiamato a deporre, Massimo Mantovani nega i essere quel “Max” Ma da un decreto di perquisizione firmato dall’aggiunto milanese Laura Pedio il 6 febbraio 2018 apprendiamo che il direttore legale dell’Eni non nega di conoscere Amara:

In merito alla propria conoscenza con Amara, Mantovani riferiva di non ricordare esattamente quando lo avesse conosciuto, indicando di averlo sicuramente incontrato nel corso del 2016. Tuttavia, i rapporti tra Amara e Mantovani sono apparsi risalenti nel tempo e connotati da una certa ambiguità, come è emerso dall’analisi di un filmato oggetto della nota dell’11 maggio 2017 del Nucleo di Polizia Tributaria di Roma della Guardia di Finanza trasmessa a questo ufficio giudiziario. Tale filmato documentava una riunione della società Sti Spa alla quale prendevano parte, oltre ad Amara Pietro e Armanna Vincenzo due altri soggetti […] nel corso della medesima questi discutevano di un’operazione finanziaria avente a oggetto la cessione di un asset di una società rientrante nell’orbita del gruppo Eni all’imprenditore nigeriano Kola Karim. Il contenuto delle conversazioni intercorse in tale meeting confermava l’esistenza di un rap porto consolidato di conoscenza tra Mantovani e Amara, in quanto Armanna, a un certo punto dell’incontro, sollecitava quest’ultimo a contattare il dirigente Eni per suggerire l’avvicendamento dei due manager del gruppo che in quel momento si trovavano in Nigeria, per rendere possibile la realizzazione dell’operazione di cessione. A fronte di tale richiesta di Armanna, Amara non avanzava alcuna obiezione sull’effettiva possibilità di interloquire con Mantovani anche su questioni particolarmente delicate e apparentemente non attinenti al suo mandato, essendo egli stesso legale esterno dell’Eni esperto di reati nel settore ambientale. Si aggiunge che Mantovani, nelle sommarie informazioni, ha confermato di avere continuato a frequentare Amara in situazioni confidenziali (invito a cena a casa dello stesso Mantovani a Roma) anche dopo aver avuto la certezza che il complotto era stato innescato a Siracusa proprio a seguito della denuncia depositata da un uomo di fiducia di Amara, Ferraro Alessandro.

Con un’ordinanza di misure cautelari emessa dal Tribunale di Messi na, il 6 febbraio 2018 l’avvocato Amara viene arrestato per reati contro la Pubblica Amministrazione e corruzione in atti giudiziari assieme ad altre quattordici persone, inclusi l’avvocato Giuseppe Calafiore, gli imprenditori Fabrizio Centofanti ed Enzo Bigotti e Giancarlo Longo, il PM della procura di Siracusa che ha avviato l’antinchiesta giudiziaria in seguito alla denuncia di Alessandro Ferraro, il factotum di Amara. Dall’indagine di Messina emerge che Amara è stato parte di una rete di faccendieri che, per anni ha manipolato il sistema di giustizia sia penale sia amministrativa (uno degli obiettivi era quello di influenzare appalti milionari gestiti dalla Consip). E il loro principale referente nella magistratura Longo, il quale si è evidentemente prestato a servire interessi non solo estranei ma spesso anche contrari al suo ruolo.

Secondo la Gip di Messina, «per denaro, il magistrato ha mercificato il potere giudiziario per favorire altri sodali, sviando l’azione giudiziaria dall’unico fine che è quello di accertare la verità processuale. La gestione spregiudicata della pluralità di procedimenti oggetto di analisi – in taluni casi da lui stesso appositamente avviati, attraverso l’iscrizione e l’autoassegnazione sulla base di denunce dal contenuto assolutamente generico – deve ritenersi, in considerazione delle risultanze investigative, strumentale al perseguimento di interessi estranei all’amministrazione della giustizia».

I metodi di cui si sarebbe servito sarebbero stati soprattutto due: la creazione di “fascicoli-specchio”, aperti allo scopo di monitorare – o peggio sabotare – indagini assegnate ad altri colleghi, e la creazione di “fascicoli-minaccia”, in cui erano iscritti con chiara finalità minatoria soggetti ostili agli interessi dei suoi referenti. Nel caso in questione gli elementi finora emersi portano a concludere che abbia usato entrambi i metodi: per delegittimare l’indagine di De Pasquale e Spadaro, e per minacciare Zingales e Litvack. Che a chiedergli di farlo sia stato l’avvocato Piero Amara, è stato poi lo stesso legale ad ammetterlo.”

Corruzione in atti giudiziari“. Chissà cosa vuol dire per noi comuni mortali?

E  “…analisi di un filmato oggetto della nota dell’11 maggio 2017 del Nucleo di Polizia Tributaria di Roma della Guardia di Finanza trasmessa a questo ufficio giudiziario. Tale filmato documentava una riunione della società STI SPA alla quale prendevano parte, oltre che Amara Pietro e Armanna Vincenzo due altri soggetti…”

Quando si cita Sti Spa si intende quella di Via Bissolati 20, società di sostanziale proprietà di Ezio Bigotti, quello? 

Forse (anzi, senza forse) il film che va rivisto, frame by frame, non è solo quello di quella riunione ma di tutto quanto è accaduto, per troppi anni, ad opera dei vari Amara che in questo Paese hanno fatto e disfatto la giustizia. 

Cioè intervenendo perché giustizia non fosse quasi mai fatta. 

E chiudo, costretto a interessarmi nuovamente di Amara, Ezio Bigotti, Sti Spa ricordando quanto ebbe a dire Claudio Descalzi ai giornalisti il 12 febbraio 2018: “Solo il pensare possibile che come ENI ci mettiamo lì, invece di lavorare, a fare depistaggi, è una cosa che mi fa assolutamente indignare“. 

Non era lui che, per sentenza, metteva in atto i depistaggi. Contento? 

Ci pensava, a quanto si comincia ad appurare, Piero/Pietro Amara a generare “fenomeni utili al perseguimento di interessi estranei all’amministrazione della giustizia“. E lo ha saputo fare, così sembra, convincendo magistrati, per denaro, a mercificare il potere giudiziario per favorire i loro sodali, sviando l’azione giudiziaria dall’unico fine che è quello di accertare la verità processuale.

Vediamo di fare luce su questo ennesimo groviglio bituminoso.  

Perché, questo penso, sta succedendo qualcosa di ancor più grave del solito. Terrà quel che avanza dello Stato? La Repubblica potrà essere salvata? E a che condizioni?

Oreste Grani/Leo Rugens

P.S.

E poi, diciamolo, sia Pal-amara che Amara, per motivi certamente fra loro diversi, appaiono due protagonisti/testimoni altamente attendibili. 

Uno è anche un criminale (Amara); l’altro (Palamara) – per ora – solo “biricchino”. Tanto che per arrivare a non credere al combinato disposto Amara/Pal-Amara (e quando si verrà a sapere cosa stia raccontando, anche Nicolino Grande-Aracri, a prescindere dai dubbi o certezze che aleggiano in queste ore intorno al neo-pentito), noi che abbiamo fatto il militare a Cuneo e tra poche ore avremo 74 anni vissuti, dovremo compiere un grandissimo sforzo. 

E se si arriva a credere ad Amara/Pal-Amara/Grande-Aracri (è importante saper interpretare non solo le loro eventuali verità ma chi genera dubbi sulle loro affermazioni) la questione di come sia stata amministrata la giustizia negli ultimi decenni diventa questione gravissima (se non determinante) per la tenuta democratica di questa nostra sofferente Patria. 

Perché, sentite a me, se fosse vera questa storia “ungherese” (ma anche un po’ monegasca, passando per la vetta del Titano, senza mai trascurare la bellezza della asimmetrica Piazza del Campo e di come l’Aspromonte, la Locride, i due mari siano parte di questa geografia europea) l’intera storia delle classi dirigenti italiane (non solo quindi magistrati, avvocati, burocrati, ministri, sottosegretari, sottopanza dei sottosegretari e dei capi di gabinetto dei ministri) andrebbe riscritta ritrovandosi alcune migliaia di cittadine e cittadini, estranei al mondo massonico, obbligati dalla gravità dei fatti, a dover pretendere di potersi servire della loro stessa residua ragione per una attività di rischiaramento, di passaggio, si direbbe paradossalmente proprio in ambiente latomistico, dall’oscurità alla luce. Perché, sentite a me, se scattasse in alcuni (anche fossero pochi onesti parlamentari sopravvissuti) l’autoconsapevolezza di avere una responsabilità nella storia, si aprirebbe una stagione di lotte politiche e civili per un drammatico rinnovamento della cultura che sola può innescare una sufficiente tensione critica nei confronti di questi poteri (i criminali ci stanno imponendo una cultura mortifera e senza futuro se non il loro e quello dei loro servi), e per un cambio paradigmatico soprattutto della vita sociale. La parola che paradossalmente (sembra infatti vecchia e consunta) potrà essere chiave per comprendere lo spirito della fase in cui siamo immersi è: riforma

Per questo, sentite a me, bisogna prendere la palla al balzo quando alcuni ci propongono, come condizione per farci vedere i piccioli, le riforme (a b c d …) e prepararsi a idearne molte e tutte incisive. Riforme quindi a tutta manetta, dal catasto, fino all’esercito. Riforma profonda delle istituzioni preposte alla sicurezza della Repubblica. Riforme quindi dell’istruzione e della burocrazia. Riforma della e nella sanità. Riforma di una ritrovata libertà di pensiero (i social sono maledettamente altro!) capace di rigenerare un’opinione pubblica senza la quale il pericolo antidemocratico si ingigantisce. Una riforma del fisco e dell’equa distribuzione degli utili che rimetta al centro della vita sociale l’uguaglianza. Perché, sempre se mi volete leggere, senza equità non c’è neanche la ricerca (non dico il raggiungimento) della felicità. Senza equità si preparano solo le nuove tenebre dell’ignoranza (altro che i comitati tecnico scientifici di sto’ cazzo!) e dell’oscurantismo superstizioso. 

Ci vuole un nuovo clima illuministico (sperando che mi stia facendo intendere) che spezzi la logica di un assolutismo asfissiante da una parte in mano ai peggiori esponenti della partitocrazia (al massimo impegnati a spartirsi soldi e potere seguendo esclusivamente logiche da banda di quartiere) e dall’altra ai vertici di affaristiche massonerie criminali (come definire la degenerazione della tensione di un tempo verso il progresso, l’uguaglianza, la fratellanza, la giustizia giusta a cui stiamo assistendo?) in continua proliferazione, senza altro fine che servire Mammona.  

P.S. al P.S.

L’arte investigativa è trarre informazioni certe e riscontrabili perfino da “confessioni/racconti”inattendibili. Anzi, questa è la scienza. Il resto sono filmati, perizie balistiche (se si trovano le armi), impronte digitali, bonifici. 

Difficile capire subito (o dopo gli opportuni riscontri) cosa voglia dire uno come Gaspare Mutolo (l’autista di Riina) quando, dal carcere speciale di Spoleto, manda a chiamare, tramite un suo giovane avvocato calabrese, nientepopodimeno che Giovanni Falcone (ormai dirigente al Ministero) per, tra le pieghe della conversazione, segnalargli che tali Mimmo e Bruno (Domenico Signorino e Bruno Contrada) sono amici dei mafiosi oltre che formalmente servitori dello Stato. Intendo dire che i labirinti e le matriosche in questioni di mafia, potere finanziario, degenerazioni massoniche non hanno limiti. Semplificare non solo è un gravissimo errore ma potrebbe generare sospetti.