Un pericoloso cretino che fu



Torno sul “cretino” perché il tema, filosoficamente parlando, mi affascina, in particolare mi attrae la ricchezza semantica del termine, così come la sua indeterminatezza. Tutti sappiamo riconoscere il cretino, soprattutto se opera nel campo che ci è proprio, eppure faremmo fatica a darne una definizione. Mi chiedo, per esempio, se le leggi della stupidità, individuate e indagate dal grande Carlo Cipolla, coincidano con quelle della cretineria, quindi se “stupido” e “cretino” siano termini equivalenti. La “Terza (e aurea) Legge Fondamentale: una persona stupida è una persona che causa un danno a un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita” descrive esattamente un mucchio di gente, il Gelli in questione, considerando che almeno un po’ di galera se l’è dovuta fare. A dire il vero, a fronte del peso dei crimini che gli si attribuiscono, invece di marcire in in carcere fino all’ultimo giorno, è morto nel suo letto, così il suo dominus, Andreotti Giulio, un semplice “bandito” secondo la teoria di Cipolla. E qui siamo tutti d’accordo nel distinguere nettamente i due, salvo considerare la mancata presidenza della repubblica sintomo di stupidità (cretineria) di Belzebù (del resto il diavolo fa le pentole ma non i coperchi).
Avvalendomi nuovamente dell’intelligenza di Fruttero & Lucentini che scrissero il 30.1.83 per La Stampa l’articolo riportato qui sotto e incluso nell’antologia “La prevalenza del cretino”, spero di aiutare anche voi lettori a comprendere come un soggetto degno di essere rappresentato da un Alberto Sorsi abbia potuto concentrare nelle proprie mani tanto potere, pur essendo palesemente un cretino.

Dionisia

Gelli come Sordi

Spesso ci sentiamo chiedere (e ci chiediamo noi stessi) come mai questo aggrovigliatissimo, tenebroso intreccio italiano che va dalla P2 allo lor, da Sindona a Cutolo, dai servizi segreti a Calvi alla mafia al terrorismo rosso e nero, non ci suggerisca un roman­zo. La risposta immediata è che si tratta già di un romanzo, e talmente ricco di personaggi incredibili, sensazionali coincidenze, fantastiche scenogra e, che nessun romanziere saprebbe far me­glio (o peggio).
C’è poi il fatto – ci diciamo – che manca il distacco, il recul indispensabile per narrare di queste vicende, che sono tutte an­cora aperte, inconcluse, sfrangiate, grezze, prive dunque di una sedimentazione non tanto giudiziaria, politica o sociologica, ma estetica. Come potrebbe un romanziere dirozzare una materia così magmatica, cronachistica, trasfigurarla in una verità di superiore respiro?
Ma appunto questo facevano i grandi scrittori dell’Ottocento, che senza un tremito affrontavano il magma turbinoso del loro tempo e riuscivano a scalpellarlo in ispirati capolavori. Le no­stre sono solo scuse – riflettiamo tristemente -, la verità è che se non si ha il genio e la tempra dei Dumas e dei Balzac, dei Di­ckens e dei Dostoevskij, queste cose conviene scordarsele. Sì, ma abbiamo qualche attenuante – ci consoliamo cautamente – quei giganti non dovevano vedersela con una pervasiva concor­renza, non c’erano la tv, il cinema ecc. a rubargli ogni giorno il romanzesco; erano loro la tv, il cinema ecc. Mentre oggi, il rap­porto dello scrittore con la società…
Quando si scende così in basso, è meglio cambiare discorso. Ma ecco che Gianfranco Piazzesi, giornalista politico di provata duttilità narrativa, lo riapre con un libro coraggioso. Non nel senso corrente e tediosetto che ha ormai da noi questo aggettivo (l’ennesima vibrante denuncia, l’ennesima scottante rivelazione), ma perché ha per oggetto un tema, anzi un personaggio, che per essere stato troppo chiacchierato ha finito per dissolversi nella sa­zietà, nell’inesistenza. Il libro, edito da Garzanti, s’intitola sem­plicemente Gelli, ma il suo vero titolo dovrebbe essere piuttosto Io e Gelli, essendone il pretesto, e lo scaltro filo ferto al lettore, autobiografico.
Quando non sia un venduto, un volgare carrierista o un fun­zionario di partito legato da precisi obblighi politici, un giorna­ lista resta fondamentalmente uno di noi, è colui che arriva an­sante sulla piazza del mercato e ci racconta ciò che ha appena vi­sto. Un giornalista che tace o mente è una contraddizione in ter­mini; per il vero giornalista, dire la verità non è a atto una que­stione di etica professionale, come pomposamente si ripete, bensì un invincibile impulso, una vocazione (di comare o d’angelo) a riferire, annunciare, portare testimonianza fra noi poveretti che non sappiamo niente.
Con la sua passione giornalistica intatta, Piazzesi ci racconta dunque l’avventura che è capitata a lui. Tra gl’infiniti sentieri del proliferante labirinto nazionale ne segue uno solo, il suo, dal momento in cui incrocia il sentiero del Maestro Venerabile. Tra le infinite facce da casellario del grande teleromanzo di questi anni, ne scruta alla lente una sola, che del resto non ha neppure visto.
È al « Corriere », editorialista mal tollerato, quando gli offrono la direzione della « Nazione » di Firenze, un giornale del petro­liere Monti. Piazzesi accetta, dopo mille assicurazioni e garanzie di piena autonomia; come ognuno di noi, non conosce Gelli, non ne ha si può dire mai sentito parlare fino al giorno in cui la Guar­dia di Finanza perquisisce la villa di Arezzo e trova gli elenchi della P2.
Stupito dalla rivelazione di tanto potere occulto, stimolato dal­le frammentarie notizie sulla personalità del Maestro Venerabile, Piazzesi manda un suo collaboratore a Pistoia, città natale di Gelli, a indagare sulle sue origini e sul suo lontano passato. Ne esce una lunga inchiesta, che « La Nazione » pubblica in tredici puntate. Poca la risonanza, scarse le reazioni. E a un tratto, il colpo di scena: la proprietà del giornale licenzia il direttore con motivazioni chiaramente pretestuose.
Ma allora costui – si dice Piazzesi, sbalordito e disoccupato – è davvero potentissimo, ha davvero le mani lunghissime, se per­fino dal suo rifugio all’estero riesce a eliminare gli avversari. Cer­chiamo di vederci un po’ più chiaro…
Il libro è la storia di questa indagine solitaria, privata, di un paziente, minuzioso assemblaggio di documenti smarriti, inediti, dimenticati, segreti, tra i quali s’insinuano minimi, decisivi detta­gli di colore, ipotesi agghiaccianti, tortuose, inaudite possibilità, e dai quali pendono i molti inspiegabili fili che ancora restano da annodare. Il ritratto che ne risulta è un avvincente, stupendo mosaico di luoghi comuni, un puro distillato italico, come la grappa.
Vediamo Gelli alle elementari di Pistoia, che ruba la merenda al prepotente della classe e poi gliela « ritrova » entrando così nelle sue grazi ; Gelli volontario alla guerra di Spagna, che al ri­torno scrive un libro sulla sua epopea (Fuoco!, ma gliel’ha scritto in realtà un ragioniere di Pescia); Gelli nel Guf, con un mode­sto incarico di fattorino; Gelli soldato a Cambiano, che tiene al­legri i commilitoni con un uccello ammaestrato; Gelli paracadu­tista ovviamente mancato, e poi a Cattaro, come sorvegliante del « tesoro jugoslavo » là nascosto; Gelli temuto repubblichino e poi feroce SS, in pantaloni a sbuffo, speroni, mitra in pugno, che dirige rastrellamenti e « interrogatori »; Gelli doppiogiochista, che tiene contatti con partigiani anarchici e comunisti, e infine, quando gli alleati stanno per arrivare a Pistoia, organizza la li­berazione di 50 prigionieri da un carcere fascista, si fa dare qua­rantamila lire e qualche chilo di marmellata, e sparisce.
Ma rieccolo, alla testa di una pattuglia sudafricana, scansare varie volte la drastica punizione che gli antifascisti pistoiesi fre­mono di potergli dare; ha sempre un salvacondotto, una dichiara­zione costellata di timbri autorevolissimi, una protezione altolo­cata, una qualche via d’uscita. Denuncia i suoi ex compagni re­pubblichini, ma, incarcerato insieme a loro, riesce a convincerli di aver agito per il loro bene. Esce, e passa al mercato nero, si arrangia a vendere stecche di Chesterfield e pietrine dietro una bancarella; mette su con un socio una libreria che non « tira », una fabbrica fantasma che non assume nessun operaio; ma spen­de diecimila lire al giorno, porta un elegante cappotto « a sei bot­toni», va in giro su una 1100« musetto».
Dove va? A raccogliere informazioni per i servizi segreti so­vietici, di cui è un pericoloso agente, afferma uno dei tanti rapporti su di lui; ed è forse legato a una banda di rapinatori in parte politicizzati, operante a Milano. Nello stesso tempo ottiene l’agognato passaporto tramite l’interessamento del Msi. Diventa autista, e poi portaborse, di un onorevole (inevitabilmente demo­cristiano), e in seguito lo ritroviamo addetto alle pubbliche rela­zioni dei materassi Permaflex.
Va a Roma, s’intrufola tra gli uomini del Potere, e ben presto apre una succursale della Permaflex nel Lazio, coi soldi (inevita­bilmente) della Cassa del Mezzogiorno; è una fabbrica modello, con le luci rosse che segnalano « occupato » sulle porte dei gabi­netti, e con moderne docce per i lavoratori (ma il giorno dell’inau­gurazione, presenti prelati e ministri, una doccia difettosa an­naffia inopinatamente un dignitario).
Siamo negli anni ’60 e Gelli ancora si muove nei limiti della commedia all’italiana, ancora porta la maschera di Alberto Sor­di. Non c’è uno solo dei suoi trascorsi, una sola delle sue impre­se, una sola delle sue metamorfosi, che quel grandissimo attore non avrebbe potuto interpretare, non abbia anzi già interpretato, per il nostro spasso e la nostra segreta vergogna.
E poi qualcosa cambia: quelle lievi, esilaranti invenzioni co­minciano a stridere cupamente, quegli allegri, spiccioli eroi assu­mono sembianze sinistre, la farsa di costume gira al drammaccio losco. Gelli s’infila nella massoneria al suo solito modo sommes­so e servizievole, e la sua ascesa di ferreo lombrico è un capo­lavoro di ricatti, alleanze, voltafaccia, abusi, prevaricazioni, colpi bassi. Nessuno di quei pur disingenui fratelli è capace di resister­gli, e l’ex borsaro nero con la licenza elementare diventa Maestro Venerabile. Passa alla Lebole, ma questa non è che una goccia nel suo mare affaristico.
Ha ormai vasti interessi in Sudamerica, manovra a piacere po­liticanti e finanzieri, sposta uomini e capitali con una telefonata, gioca in grande. Viene assassinato il giornalista Pecorelli, che ri­cattava [la redazione la pensa diversamente] tra gli altri anche Gelli; si uccidono o sono uccisi gene­rali, colonnelli, giudici, poliziotti, terroristi che tutti, in un modo o nell’altro, hanno avuto a che fare col « caro Licio », come lo chiamava pochi anni prima un senatore comunista. L’intreccio si ramifica mostruosamente, coinvolge grandi banche, società, quotidiani, interi partiti, interi Ministeri e servizi pubblici, ed esplode infine (Fuoco!) con una pirotecnica pioggia di sospetti su tutta l’Italia.
Prezioso e umiliante il libro di Piazzesi. Quel genio del male, quel diabolico burattinaio, quel ragno onnipotente che nell’om­bra tesseva la sua immensa tela, non era poi che questo, il solito tipo dell’italiano che cela, nel fondo del suo passato, una pro­pensione per la brillantina e gli stivali « a stecca », e tiene la sti­lografica infilata nel taschino della giacca.
Scrivere un romanzo su gente simile? Ma via!